commoning

Sul rischio.

Sopra. Parco giochi di Rawalpindi, Pakistan. (Anjum Naveed, Ap/Ansa).

L’idea di rischio, dovrebbe sempre rifarsi a un’esperienza concreta. Trovo estremamente pericoloso dire: “sono in grado di assumermi quel rischio”. Quando qualcuno lo afferma fa qualcosa di criminale.
Se uno psicanalista, ad esempio, dice: “So tutto dell’inconscio per cui non esisterei nel prendere qualcuno in analisi che proviene da un’altra cultura”, esterna un’affermazione “professionale”,
che Ivan Illich definirebbe da ‘esperto’ (“Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti”, Erickson 2008). Ciò che conta per lo psicoanalista è l’interesse professionale, anche per chi viene in paesi nei quali gli dei, gli avi o gli spiriti fanno parte della vita. Difatti non ci assumiamo nessun rischio, ma mettiamo l’altro a rischio in nome della nostra sicurezza professionale. La maggior parte delle teorie nell’ambito delle scienze umane legittima la possibilità di giudicare gli altri senza averli mai incontrati.
Parlo di rischio, ma vorrei porre l’accento sulla stretta relazione tra l’essere in grado di assumersi dei rischi e l’appartenenza. Se i rischi che ci assumiamo non sono legati a ciò che siamo, si trasformano nel potere astratto di “decostruire” tutto, che può diventare una specie di ossessione. Faccio un esempio che è vicino alla mia esperienza. Gli architetti si assumono dei rischi, se li assumono, ma possono farlo perché sono radicati all’interno delle proprie comunità; c’è solidarietà e fiducia nel fatto che i loro colleghi valuteranno quanto è stato fatto, accetteranno l’essersi assunti un rischio. La cosa è abbastanza paradossale, in quanto normalmente facciamo coincidere il rischio con l’essere distaccati, il non avere nulla da perdere, il non appartenere. Ma è una visione romantica e pericolosa. Personalmente, non dico mai a un architetto cosa deve fare. In quanto comunicatore, non rischio nulla; i rischi sono tutti loro. Io comprendo le loro paure, i loro sogni, le loro ambizioni. Non posso condividere il rischio che un architetto sarà in grado di assumersi, poiché posso comprendere le loro appartenenze, ma io appartengo a qualcos’altro. Quindi è il rischio che non possiamo condividere. Riusciamo a vedere le motivazioni, ma non possiamo dire: “al posto tuo io mi assumerei quel rischio”. Questo è ciò che intendo circa la relazione tra pratiche, pensieri e tradizioni diverse. Se qualcuno si assume un rischio, possiamo far parte delle motivazioni che l’hanno spinto a farlo, ma le motivazioni sono fondamentalmente le sue. Noi possiamo provare solo gratitudine. Queste idee su rischio sono qualcosa che collego alla tematica della diplomazia – cioè ai rischi della guerra e della pace. Diplomazia significa che, anche in caso di guerra, è possibile dare una possibilità alla pace. In altre parole, la pace è possibile, ma non probabile. Nel cose di un’operazione di polizia s’impone la pace. Molte guerre oggi sono operazioni di polizia pedagogiche. “Loro” impareranno come ci si comporta. È facile mettersi nei panni di chi si trova ad affrontare una guerra a “zero morti”: smettetela di combattere o verrete annientati. Non c’è spazio per la diplomazia, poiché presuppone che venga inventata una pace, non che la parte più debole ceda a quella del più forte. Penso al diplomatico in quanto figura incaricata di inventare la pace come un evento. Un diplomatico non dirà mai a un diplomatico della parte avversa: “al tuo posto farei questo o quell’altro”. Sanno di non poter condividere dei rischi, in quanto legati ai rischi che la popolazione da cui provengono sarà in grado di accettare e accetterà assumersi. Nella diplomazia si tratta di diventare capaci, non di “vedere la verità”.
Un punto importante che rende impossibile la diplomazia è la differenza tra senso e significato. In una situazione di guerra, quando “questo significa guerra”, non c’è logicamente più spazio per la pace – è questione di vittoria o di sconfitta. In questo contesto i diplomatici possono giocare tra significato e senso. Una leggera variazione del significato può produrre una possibile articolazione al posto della contraddizione dalla quale è scaturita la guerra. Ma la popolazione dalla quale proviene il diplomatico dove accettare tale variazione, e il fatto che il senso sia stato preservato mentre i significati sono cambiati, è un rischio per la popolazione stessa. Se essa rifiuta, il diplomatico avrà fallito; e potrà persino venire chiamato traditore. I rischi che un diplomatico è in grado di assumersi dipendono dalla fiducia che egli ripone nella popolazione cui appartiene. La fiducia è sempre la precondizione per assumersi dei rischi. Essa va creata per far si che le cose cambino.

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