La sfida della povertà estrema: ripartire dalle fondamenta del bene comune.

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Sopra e nel post. Fotografie di Anthony Luvera, “Assembly“.

Lo scorso autunno, durante un incontro con un gruppo di volontari, una ragazza mi ha chiesto: “Spesso mi sento impotente nel cercare di cambiare le cose. Cosa possiamo fare, come cittadini, per aiutare chi vive in povertà assoluta? Non sembra mai abbastanza.”

Questa domanda mi ha colpito profondamente perché riflette un sentimento diffuso: l’impotenza di fronte a un problema che appare impossibile da risolvere. Di conseguenza, tendiamo a rimuovere il problema, a delegarlo alle prassi consolidate tra istituzioni pubbliche e terzo settore, oppure a intervenire con piccole azioni individuali di carità o volontariato.

Da anni mi occupo di comunicazione e progettazione sociale e, nell’ultimo anno, ho approfondito come piccole e grandi associazioni del terzo settore affrontano la povertà assoluta. Ho osservato buone pratiche, ma anche limiti significativi. Spesso, gli interventi si limitano a rispondere alle emergenze, senza affrontare le cause profonde del problema. Le azioni seguono spesso un format di comunicazione e prassi standardizzato che, come sottolinea Giovanni Moro in “Contro il non profit“, da un lato riesce a “bucare” l’indifferenza facendo leva sul senso di colpa collettivo e “monetizzando” efficacemente la povertà; dall’altro, offre una stampella alle istituzioni, mantenendo la povertà entro confini che non mettono mai in discussione l’attuale visione dominante.

Nel libro “Viaggio al termine delle Onlus”, Zoe Vicentini (di cui consiglio vivamente la lettura) esplora le dinamiche interne al terzo settore, mettendo in luce come, in alcuni casi, le organizzazioni non profit possano talvolta replicare logiche di sfruttamento tipiche del settore profit.

Queste dinamiche mi hanno portato a riflettere su una verità essenziale: ci si occupa realmente di povertà assoluta – intesa come quello stato in cui perdi qualunque forma di diritto – solo se come cittadini iniziamo a prenderci cura delle fondamenta del bene comune: casa, lavoro, sanità, alimentazione e istruzione. Non si tratta solo di diritti individuali, ma delle basi su cui costruire una società giusta e inclusiva. Eppure, sono proprio queste fondamenta che oggi vengono progressivamente smantellate.
In questo contesto non approfondirò temi che richiederebbero una trattazione più ampia e su cui sto lavorando progettualmente, ma desidero offrire una breve sintesi, focalizzandomi su alcune parole chiave: abitare, lavoro, sanità, alimentazione, istruzione e cittadinanza attiva.

Abitazione: il diritto negato alla stabilità.
L’accesso a una casa dignitosa è il primo passo per garantire stabilità e sicurezza. Tuttavia, in Italia, il diritto all’abitazione è un diritto negato. Secondo il Censis, oltre 50.000 famiglie vivono in condizioni di grave disagio abitativo, tra sfratti, coabitazioni forzate e occupazioni. I dati del Ministero delle Infrastrutture rivelano che circa 650.000 persone sono in lista d’attesa per una casa popolare, mentre le politiche pubbliche stentano a rispondere a questa emergenza.

Come sostiene Christian Iaione in “La casa per tutti“, il diritto all’abitazione non è solo una necessità materiale, ma un punto di partenza per costruire percorsi di inclusione sociale. Senza una casa, diventa impossibile accedere al lavoro, all’istruzione e alla sanità. Eppure, in Italia, l’edilizia residenziale pubblica rappresenta meno del 4% del patrimonio abitativo, contro il 17% della media europea. Questo gap riflette una disattenzione politica che richiede un cambio di paradigma.

Soluzioni innovative esistono. Alcuni progetti realizzati (che in futuro descriverò in collaborazione con chi li ha realizzati) come il cohousing solidale e il recupero di edifici abbandonati dimostrano che è possibile creare spazi abitativi che integrano persone in difficoltà, favorendo al contempo la coesione sociale. Un esempio virtuoso è rappresentato dalle esperienze di rigenerazione urbana a Bologna, descritte da Michele d’Alena in un bel testo “Immaginazione Civica”, dove comunità di cittadini, associazioni e amministrazioni hanno collaborato per riqualificare aree degradate e trasformarle in spazi condivisi.

Tuttavia, come sottolineano Gregorio Arena e Christian Iaione in “L’età della condivisione” e in “L’Italia dei Beni Comuni”, questi progetti possono funzionare solo se accompagnati da un forte coinvolgimento della comunità. La collaborazione tra cittadini, enti locali e con cautela del terzo settore è la chiave per affrontare la crisi abitativa in modo sostenibile e partecipativo.

In parallelo, è essenziale affrontare un altro elemento centrale della crisi abitativa: l’espansione degli affitti brevi, prodotta da una distorsione e da una “cattura” volta a rendita e profitto, dei principi originari di condivisione della sharing economy su cui ho scritto il testo: “Possiamo considerare la Sharing Economy una reale alternativa allo sfruttamento capitalistico?”. Piattaforme come Airbnb, hanno un impatto devastante sulla povertà abitativa. Come evidenzia Lucia Tozzi in “L’invenzione di Milano”, questa pratica sottrae alloggi al mercato delle locazioni tradizionali, facendo lievitare i costi e rendendo impossibile per molte famiglie accedere a una casa dignitosa. Sarah Gainsforth, in “Airbnb città merce”, descrive come la trasformazione degli spazi urbani in asset finanziari accresca le disuguaglianze, spingendo le fasce più fragili della popolazione fuori dai centri urbani.

Questa dinamica, che trasforma l’abitazione in un bene di lusso per pochi, amplifica il divario tra chi può permettersi un’abitazione e chi è costretto a vivere in condizioni di precarietà (abitativa ma come vedremo anche lavorativa). Contrastare questo modello è indispensabile per affrontare la crisi abitativa affinché l’accesso alla casa, andando oltre le soluzioni “caritatevoli” spesso messe in campo dal terzo settore, torni a essere un diritto, non un privilegio.

Lavoro bene comune: il cuore della dignità.
Il lavoro, come vedremo, rimane lo strumento principale per uscire dalla povertà assoluta, ma deve essere dignitoso, stabile e ben retribuito. Tuttavia, affidarsi esclusivamente al lavoro come mezzo per superare la povertà è difficilmente giustificabile, specialmente in presenza di disuguaglianze strutturali. In Italia, la precarietà lavorativa è in aumento. Secondo l’ISTAT, nel 2023, oltre 3 milioni di persone erano impiegate con contratti a tempo determinato o part-time involontari.
Un’altra emergenza è rappresentata dai salari bassi: quasi il 12% dei lavoratori guadagna meno di 9 euro l’ora, una delle retribuzioni più basse d’Europa.

Come evidenziano Simone e Marta Fana in “Basta salari da fame”, questa situazione non è solo una questione economica, ma un problema di giustizia sociale:

“Un lavoro precario o sottopagato non garantisce autonomia, ma alimenta un ciclo di vulnerabilità che colpisce non solo l’individuo, ma l’intera comunità.”

Il modello di Workfare – una forma di welfare che subordina il sostegno economico all’obbligo di intraprendere percorsi lavorativi o formativi -, spesso paradossalmente presentato come soluzione alla povertà assoluta, rischia di perpetuare questa vulnerabilità. Roberto Ciccarelli, in “L’odio dei poveri”, critica con grande lucidità questa impostazione, sottolineando come il Workfare trasformi i poveri in strumenti di un sistema che perpetua lo sfruttamento, spostando la responsabilità dalla politica agli individui. Un meccanismo che esaspera il controllo sociale, trasferendo la colpa della povertà dagli assetti strutturali agli individui stessi, incentivando l’idea che il sostegno pubblico debba essere “guadagnato” attraverso il lavoro. Tuttavia, i programmi di Workfare spesso offrono impieghi temporanei, mal pagati o poco qualificati, contribuendo così alla svalutazione complessiva del lavoro e finendo paradossalmente per aumentare le disuguaglianze.

In questo contesto, il concetto di “Quinto Stato”, elaborato da Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, offre una chiave di lettura significativa. Il Quinto Stato rappresenta una nuova classe sociale composta da lavoratori precari, autonomi e freelance, che non godono di protezioni in caso di maternità, disoccupazione o malattia, e che spesso non percepiscono un reddito adeguato. Questa condizione di apolidia in patria riguarda milioni di individui, sia italiani che stranieri, ai quali non sono riconosciuti i diritti sociali fondamentali, rendendo evidente la crisi del modello di cittadinanza legato al possesso di un contratto di lavoro stabile.
È proprio su questa linea di confine che il passaggio da povertà a povertà assoluta diventa sempre più frequente, facendo si che una parte sempre più ampia della popolazione italiana entri in una zona in cui è totalmente privata dei propri diritti.

Per rompere questo ciclo, è necessario investire in politiche attive che creino con i poveri e non per i poveri un lavoro dignitoso. Progetti come quelli promossi a Torino, dove cooperative sociali e associazioni formano persone in difficoltà, costruendo piccole imprese, gestite direttamente dai lavoratori e fortemente integrate nelle comunità, dimostrano che un altro modello è possibile.

Sanità: oggi il diritto alla salute non è per tutti.
È ormai evidente da anni che diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, è smantellato da continui tagli e privatizzazioni. Secondo il rapporto 2023 di Cittadinanzattiva, quasi il 20% degli italiani rinuncia a cure mediche per motivi economici, mentre le liste d’attesa nel sistema pubblico continuano ad allungarsi. Questo problema colpisce in modo particolare chi vive in povertà assoluta, generando un circolo vizioso: senza salute, non si può lavorare; senza lavoro, non si può uscire dalla povertà.
Con l’attuale manovra finanziaria, nonostante le promesse di un incremento significativo delle risorse, i numeri rivelano una realtà ben diversa. Il disegno di legge prevede un aumento di 1,3 miliardi di euro per la sanità nel 2025, da sommarsi agli 1,2 miliardi già previsti dalla legge di bilancio precedente. Tuttavia, l’aumento netto corrisponde a un misero 0,4% del PIL, nemmeno un miliardo di euro effettivi.

Questo incremento risulta del tutto insufficiente per affrontare le sfide del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Secondo la Fondazione GIMBE, le misure previste per il periodo 2025-2030 richiederebbero oltre 29 miliardi di euro, mentre le risorse stanziate ammontano a soli 10,2 miliardi, creando un divario di quasi 19 miliardi. Inoltre, l’Italia destina alla sanità una percentuale del PIL inferiore alla media OCSE, richiedendo investimenti aggiuntivi di circa 14 miliardi di euro per garantire servizi adeguati. Questo sottofinanziamento cronico contribuisce al deterioramento dei servizi offerti, peggiora le liste d’attesa e spinge molti cittadini verso il settore privato, compromettendo l’accesso universale alle cure.
Un aspetto cruciale, ma troppo spesso trascurato nel dibattito sulla povertà assoluta, è la salute mentale, una aspetto sul quale non sembra esistere una sorta di rimozione e quindi nessuna strategia efficace d’intervento. Come sottolineano Giovanni Valtolina in “Fuori dai margini” e Alberto Siracusano in “La povertà vitale“. Disuguaglianza e salute mentale”, chi vive in condizioni di grave marginalità non affronta soltanto una privazione dei diritti, ma subisce anche un profondo isolamento sociale.

Come sottolineato da Siracusano, la povertà assoluta aggrava i disturbi mentali, mentre il mancato accesso a cure psichiatriche che non siano episodiche o esclusivamente basate sulla farmacologia, rafforza il ciclo della marginalità. Il diritto alla salute mentale è spesso negato dalla marginalità e dall’esclusione sociale.

Maria Grazia Breda e Andrea Cittaglia in “Non è sufficiente”, evidenziano che la sanità italiana soffre di disuguaglianze croniche territoriali e sociali:

“L’accesso alla salute non è uguale per tutti. Chi vive nelle regioni meridionali, chi ha un reddito basso o una condizione abitativa precaria, affronta barriere spesso insormontabili.”

Michael Marmot, in “La salute disuguale”, evidenzia come le disuguaglianze sociali influiscano sulla salute più di qualsiasi altra variabile. La sua analisi dimostra che investire nella prevenzione, nel welfare e nell’accesso equo alle cure è non solo un dovere morale, ma anche un beneficio economico per l’intera società.

In Italia, esperienze come quella del progetto “Case della Salute” in Emilia-Romagna, che integra servizi medici, sociali e psicologici, rappresentano un modello da osservare. Tuttavia, per estenderlo su scala nazionale, è necessario un impegno politico e soprattutto un’azione civile totalmente differente da quella attuale.

L’alimentazione nella lotta alla povertà assoluta: ripensare il modello assistenzialista.
Il cibo non è solo nutrimento, ma anche cultura, identità, salute e opportunità di riscatto sociale, il cibo può diventare un elemento cruciale nella lotta alla povertà assoluta, ma quasi sempre il rapporto tra alimentazione e povertà viene affrontato con modelli assistenzialisti che, pur rispondendo alle emergenze, non riescono a incidere le diverse cause profonde del problema. L’approccio tradizionale, incarnato da mense e refettori il cui modello di punta può essere rappresentato dal Refettorio Ambrosiano di Massimo Bottura realizzato in collaborazione con Caritas, rappresenta un’idea di assistenza che, sebbene migliorata in termini di qualità e dignità del servizio, resta legata alla logica del “soccorso” più che a quella “dare potere” o “rendere autonomi” i soggetti coinvolti.

Le mense sociali, seppur fondamentali per garantire pasti a chi ne ha bisogno, perpetuano una situazione di dipendenza dalla carità, inibendo un rapporto più ampio di solidarietà sociale da cui viene estromessa progettualmente la comunità civica. La relazione tra beneficiari e servizi è spesso asimmetrica: chi riceve l’aiuto è in una posizione passiva, senza possibilità di partecipare attivamente o decidere il progetto della propria alimentazione. Questo approccio tiene scarsamente conto l’importanza della dignità e dell’autonomia delle persone, che non dovrebbero essere viste solo come destinatari di assistenza, ma come soggetti attivi integrati in un contesto comunitario.

Progetti come quelli promossi Don Pasta (Daniele De Michele), artista e attivista, seppur non direttamente orientati ai poveri assoluti, offrono spunti interessanti per ripensare il rapporto tra alimentazione e povertà. La cucina in quest’ottica è un mezzo di aggregazione e riscatto. Don Pasta attraverso laboratori e performance culinarie, coinvolge comunità emarginate nella preparazione di piatti tradizionali, trasformando il cibo in un veicolo di dignità e inclusione. Il suo approccio si basa sull’idea che la cucina deve essere un luogo di condivisione e riscoperta delle radici culturali, rompendo l’isolamento sociale delle persone in difficoltà.

La cucina, intesa come processo e non come luogo di consumo, può essere un potente strumento per affrontare la povertà assoluta. Valorizzare le risorse locali, creare opportunità di lavoro dignitose, promuovere l’educazione alimentare e favorire il riscatto sociale trasforma il cibo in un mezzo di autonomia e inclusione. Non si tratta solo di nutrire, ma di restituire dignità e costruire comunità, rompendo il ciclo dell’esclusione e creando un modello di solidarietà concreta.

Istruzione: la chiave dell’emancipazione.
L’istruzione è banale dirlo è il motore principale dell’emancipazione sociale, ma in Italia il sistema educativo mostra enormi disparità. Secondo Save the Children, uno studente su sette abbandona la scuola superiore prima del diploma, mentre il tasso di dispersione scolastica supera il 20% nelle regioni del Sud. Questo divario educativo alimenta il ciclo della povertà, privando milioni di giovani della possibilità di costruirsi un futuro.

Christian Raimo, sottolinea l’importanza di una scuola inclusiva, capace di fornire non solo competenze tecniche, ma anche strumenti per la partecipazione attiva alla società:

“Un’educazione democratica non si limita a insegnare nozioni, ma coltiva cittadini consapevoli e solidali, pronti a contribuire al bene comune.”

Purtroppo, i tagli al sistema scolastico e la mancanza di investimenti penalizzano soprattutto le scuole situate in contesti difficili dove c’è maggiore povertà. Progetti come quelli promossi da associazioni come Libera, che integrano percorsi educativi con attività sociali, dimostrano che è possibile invertire questa tendenza, ma richiedono un sostegno stabile.
Non si tratta più di riformare l’educazione scolastica ma come scrivono Christiana Laval e Francis Vergne in “Educazione democratica” di pensare come cittadini a:

“Un modello organizzativo diverso da quello della burocrazia statale e, naturalmente, del mercato, un modello in cui l’istruzione sarebbe presa in carico da un vero e proprio servizio pubblico democratico, un servizio comune della società, nel cui governo sarebbero direttamente coinvolti insegnanti, studenti, genitori e cittadini”.

Anche un recente libro, “Scuola e resistenza” di Christian Raimo, approfondisce queste tematiche, evidenziando come la scuola possa essere un luogo di resistenza alle disuguaglianze sociali e culturali.

La povertà educativa è strettamente legata alla povertà assoluta. Come evidenziato da Christian Raimo, nell’ultimo decennio il numero di bambini in povertà educativa è cresciuto fino a quadruplicare, e il rischio concreto è che questo aumento non si fermi. Le disuguaglianze nell’apprendimento e la dispersione scolastica sono questioni centrali che richiedono interventi organici e di lungo periodo, da costruire a partire dai territori.

Una nuova cittadinanza attiva.
Per affrontare la povertà assoluta, non basta delegare tutto alla politica o al terzo settore. Serve una cittadinanza attiva, capace di mettere al centro la partecipazione dei cittadini e di dare ascolto alle istanze, alle fragilità e alle soggettività dei poveri. Come scrive Lorenzo Coccoli in “I poveri possono parlare”:

“La vera emancipazione nasce dalla partecipazione. Non possiamo pensare di risolvere i problemi sociali senza coinvolgere chi ne è direttamente colpito.”

Ripensare il bene comune.
Abbiamo visto in questa sintesi di pensieri come occuparsi di povertà assoluta significhi ripensare la nostra partecipazione alla cura del bene comune. Non è solo una questione di solidarietà, ma di giustizia sociale. Come scrive Amartya Sen in “Lo sviluppo è libertà”:

“La povertà non è solo assenza di reddito, ma privazione delle capacità fondamentali per vivere una vita dignitosa.”

Solo ricostruendo, anche attraverso idee di welfare sociale che coinvolgano attivamente la comunità — casa, lavoro, sanità, alimentazione e istruzione — possiamo sperare in una società senza povertà assoluta. Questo impegno riguarda tutti noi, come cittadini e membri di una collettività.

Sul tema della prendersi cura del bene comune partendo dalla comunità, il collettivo britannico The Care Collective, nel suo “Manifesto della cura”, sottolinea come una società giusta debba fondarsi su una politica dell’interdipendenza. Prendersi cura delle fragilità estreme non è un atto caritatevole o una responsabilità individuale, ma un progetto politico collettivo. Scrivono:

“La cura deve essere posta al centro della vita sociale ed economica. Non possiamo più considerare la cura come una funzione privata e invisibile, delegata solo ad alcuni. È necessario ripensare la cura come un bene comune, un tessuto che lega insieme le nostre comunità.”

Questo approccio riconosce che le fragilità estreme, come quelle generate dalla povertà assoluta, non possono essere affrontate senza un cambiamento culturale e politico che metta al centro l’interdipendenza tra le persone. Significa costruire comunità che non solo rispondano ai bisogni immediati, ma che siano capaci di prevenire l’esclusione, coltivando solidarietà e responsabilità condivise.

In questo senso, prendersi cura delle fragilità non è solo un atto di giustizia, ma il pilastro per ripensare un nuovo modello di società, in cui il bene comune sia il fondamento di ogni azione politica e sociale.

Alcune lezioni per il futuro.
Questi anni di esperienza in cui ho provato ad ascoltare le voci dei poveri assoluti mi hanno insegnato che l’azione individuale, l’azione collettiva e il cambiamento sistemico non sono in contrapposizione, anzi. Come diceva un vecchio amico: “Non puoi costruire un ponte senza prima posare le fondamenta.” Certo, è necessario continuare a lavorare per riforme politiche e sociali, ma non dobbiamo sottovalutare l’importanza di una rinnovata partecipazione civile, costruita attraverso nuove forme di progettualità collettiva. Ogni azione, ripetuta ogni giorno, può fare veramente la differenza.

Nel nostro Paese, dove la solidarietà è stata a lungo un valore fondante, dobbiamo recuperare il coraggio di agire, anche imperfettamente. Come insegna una frase della tradizione ebraica: “Naaseh v’nishma”, “Faremo, e poi capiremo.”
Non dobbiamo aspettare di avere tutte le risposte per iniziare a cambiare la nostra idea di povertà, dobbiamo farlo assieme, un giorno alla volta.

3 risposte a “La sfida della povertà estrema: ripartire dalle fondamenta del bene comune.”

  1. […] Le motivazioni alla base di questo passaggio risiedono in una combinazione di vulnerabilità personali e contesti sfavorevoli, ma in ogni caso la perdita del lavoro è uno dei principali fattori scatenanti: lavoratori precari o autonomi, privi di ammortizzatori sociali, sono i primi a subire gli effetti delle crisi economiche, crisi sociali o sanitarie. A questa fragilità economica si somma spesso l’impossibilità di far fronte a spese impreviste, come quelle legate alla salute, all’impossibilità di gestire l’impatto economico e psicologico di crisi famigliari, agli affitti sempre più alti o agli sfratti. La mancanza di una rete relazionale di supporto aggrava ulteriormente la situazione, trasformando episodi temporanei di difficoltà economica in condizioni che possono diventare croniche (vedi anche: “La sfida della povertà estrema: ripartire dalle fondamenta del bene comune“. […]

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  2. […] abbiamo parlato già in altri post “La sfida della povertà estrema: ripartire dalle fondamenta del bene comune” e “AI e lotta alla povertà estrema: può il Comune di Roma diventare un esempio per […]

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  3. […] una posizione sempre più precaria.Ho trattato alcune di queste tematiche in un recente post “La sfida della povertà estrema: ripartire dalle fondamenta del bene comune” in cui ho provato ad individuare alcune possibili strade e ipotesi di […]

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