Io, avvocato di strada.

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Non si guardano alle spalle per dire addio all’esilio,
poiché un altro li attende. Assuefatti alla strada
circolare, per loro non vi è né avanti, né dietro,
né nord, né sud.

Mahmud Darwish, Non scusarti per quel che hai fatto“.

Massimiliano Arena è un avvocato italiano noto per il suo impegno a favore delle persone senza fissa dimora e dei migranti. Coordina la sede di Foggia dell’associazione “Avvocato di strada”, offrendo assistenza legale gratuita ai più vulnerabili. Attraverso il suo libro “Io, avvocato di strada”, Arena condivide esperienze e riflessioni maturate nel corso della sua attività, evidenziando le sfide legali e sociali affrontate da chi vive ai margini della società. Il suo lavoro non si limita alla consulenza legale, ma mira a restituire dignità e diritti fondamentali a coloro che spesso ne sono privati. La sua dedizione rappresenta un esempio concreto di come la professione legale possa essere uno strumento di giustizia sociale e inclusione.

Mario Flavio Benini. Nel romanzo “The Street Lawyer” di John Grisham, il protagonista Michael Brock, dopo un incontro sconvolgente con un senzatetto, decide di lasciare una carriera prestigiosa per dedicarsi alla difesa dei più deboli. Nel tuo caso, come è avvenuta questa scelta? C’è stato un momento preciso, un incontro o un’esperienza che ti ha fatto capire che questa sarebbe stata la tua strada?

Massimiliano Arena. Ho iniziato il mio percorso di studi in un’università privata, la Luiss, con il mito dell’avvocato che guadagna una montagna di soldi. Poi, durante gli anni dell’università, sono entrato in crisi: sentivo il bisogno di trovare un senso a ciò che stavo studiando.

Quel senso l’ho trovato anche grazie a un’esperienza che ha avuto un grande impatto su di me: il terremoto in Umbria del 1997. Decisi di partire come volontario e, in quella situazione drammatica, capii che, una volta terminati gli studi, il mio lavoro avrebbe dovuto servire anche le persone meno fortunate.

Negli anni successivi ho fatto diversi viaggi all’estero per svolgere attività di volontariato. Poi, nel 2005, dopo aver letto “The Street Lawyer” di Grisham, venni a sapere dell’esistenza di una realtà a Bologna, “Avvocato di Strada”, che offriva assistenza legale gratuita alle persone vulnerabili e senza dimora. All’epoca era collocata presso l’associazione Amici di Piazza Grande. Non ci pensai due volte: quel fine settimana stesso partii per Bologna per conoscere i fondatori.

MFB. Negli Stati Uniti esistono da tempo programmi strutturati per garantire assistenza legale ai senza fissa dimora, con avvocati che lavorano per grandi organizzazioni no-profit. Puoi spiegarmi meglio quali sono le principali differenze tra gli avvocati di strada americani e quelli italiani?

In quegli anni Avvocato di Strada contava non più di cinque sportelli; oggi, dopo vent’anni, sono diventati cinquanta in tutta Italia. L’8 aprile 2005 aprimmo lo sportello nella stazione ferroviaria di Foggia, e il prossimo anno festeggeremo vent’anni di attività. La scelta della stazione non fu casuale: gli sportelli hanno senso solo se si trovano vicini ai luoghi in cui si concentra maggiormente la marginalità.

Così decisi di dedicare parte della mia attività professionale ai senza fissa dimora, offrendo il mio aiuto come volontario. In Italia, a differenza degli Stati Uniti, non esiste la figura dell’avvocato di strada sostenuto da grandi fondazioni. Qui il senso di questa attività è diverso: si lavora nel proprio studio e, in parallelo, si dedica parte delle ore lavorative all’attività pro bono per i senza dimora, per i rifugiati, per le donne vittime di tratta o per chiunque, in coscienza, si ritenga giusto sostenere e aiutare.

MA. Negli Stati Uniti esistono grandi organizzazioni no-profit che finanziano l’assistenza legale per i senza fissa dimora e per le persone svantaggiate. Questo permette agli avvocati di fare di questa attività una scelta professionale vera e propria, dedicandosi interamente o parzialmente alla difesa dei più vulnerabili. Ricevono un compenso fisso garantito da fondazioni e enti privati che sostengono il loro lavoro.

In Italia, invece, una struttura del genere ancora non esiste. Qui tutto si basa sulla volontà del singolo avvocato, che decide autonomamente di dedicare parte del proprio tempo al volontariato legale. Non c’è una retribuzione, né un sistema organizzato che permetta di trasformare questa attività in una carriera a tempo pieno. Alcuni avvocati scelgono di seguire uno o due casi pro bono all’anno, altri riescono a gestirne cinque, dieci o anche di più, ma sempre in aggiunta al loro lavoro principale. Questo significa che bisogna trovare un equilibrio tra l’attività professionale e il tempo dedicato al volontariato, cosa che non sempre è facile.

MFB. Potresti raccontarci come è nata l’idea di aprire la sede di Avvocato di Strada a Foggia e quali sono stati i primi passi per realizzarla? Inoltre, ricordi il primo caso che hai seguito? Ad esempio, hai menzionato l’incontro con Sandro, il primo senzatetto che si è rivolto a voi per ottenere la residenza. Come si è svolta quella vicenda e quale impatto ha avuto su di te e sullo sviluppo dello sportello?

MA. Lavorare nei pressi di una stazione ferroviaria di Foggia, in collaborazione con un’associazione che si occupa dei senza dimora, ha significato entrare immediatamente in contatto con la marginalità.

Nel 2005 a Foggia esisteva già un’associazione di amici carissimi, che tuttora opera attivamente: i “Fratelli della Stazione”. All’epoca il loro acronimo, FS, coincideva con quello delle Ferrovie dello Stato, prima che diventassero Trenitalia. I Fratelli della Stazione portano aiuto ogni sera, tutti i giorni dell’anno, alle persone che vivono nei pressi della stazione: chi nei vagoni ferroviari, chi nelle sale d’attesa, chi negli androni. Portano coperte, medicinali, pasti, ma soprattutto calore umano, cercando di costruire una relazione con chi è più solo.

Sono loro, spesso, a segnalarci i casi su cui possiamo intervenire oppure ad indicare ai senzatetto il nostro sportello, dicendo loro quando è aperto. Questa sinergia è stata fondamentale per la nascita e lo sviluppo della sede Avvocato di Strada di Foggia.

Sandro fu il primo caso che seguimmo. Era escluso dai diritti di prestazione sociale, non poteva accedere al medico di base, perché non aveva una residenza anagrafica. Così, una delle nostre prime battaglie, insieme alla Caritas e ai Fratelli della Stazione, fu una moral suasion nei confronti dell’amministrazione comunale per far riconoscere questo diritto.

Abbiamo avuto anche un vantaggio: la possibilità di ottenere la residenza fittizia per le persone senza dimora era già stata riconosciuta in alcune città, grazie al lavoro degli avvocati di strada di Bologna. Tuttavia, a Foggia, la situazione era diversa: il Comune non aveva ancora istituito una via fittizia per concedere la residenza anagrafica ai senza dimora.

Non fu affatto facile. Più che una resistenza politica, trovammo una grande ignoranza amministrativa sul tema, e ci volle molto tempo prima di ottenere un cambiamento. Ma alla fine, con Sandro, la spuntammo. Fu il primo caso che vincemmo, e soprattutto fu la prima volta che riuscimmo a portare una persona dall’invisibilità alla visibilità.

MFB. Nel tuo lavoro di avvocato di strada ti trovi a confrontarti con persone che spesso hanno perso fiducia nel sistema e nelle istituzioni. Quali sono le principali difficoltà che affrontano nel cercare assistenza legale? È più un problema di burocrazia, di accessibilità ai servizi o di mancanza di informazione sui propri diritti? E come cerchi di superare questi ostacoli per far sì che la giustizia sia davvero alla portata degli ultimi, come i senza dimora?

MA. Le istituzioni hanno due grandi limiti, e non gliene faccio una colpa perché sono limiti oggettivi. Il primo è che chiudono il venerdì alle 14:00 e riaprono, se tutto va bene, il lunedì alle 9:00. Nel frattempo, però, i problemi delle persone non si fermano: mangiare, bere, farsi una doccia, farsi la barba, trovare un riparo dal freddo o dal caldo… Non è che il sabato e la domenica queste esigenze scompaiano. E questo senza considerare i periodi festivi, i ponti, l’estate, il Natale.

Il secondo problema è che le istituzioni lavorano su dati macro-statistici. Sentiamo spesso il politico di turno dichiarare: “Quest’anno abbiamo aiutato 100 persone”. Ma se ci fosse un vero dialogo, bisognerebbe chiedergli: “E quanti ne avete lasciati fuori? Su 100 su quanti?”. Il politico, di qualsiasi schieramento, è sempre alla ricerca di consenso e porta in dote solo il dato positivo, mai il dato di partenza.

Le associazioni di volontariato, invece, hanno un duplice vantaggio. Il primo è che sono sempre aperte, perché il volontariato, e soprattutto la carità, non conoscono fine settimana, festività, ferie o orari. Il secondo è che non inseguono il numero, ma la qualità dell’aiuto offerto.

Quando faccio formazione ai nuovi volontari dico sempre: “Non mi interessa quanti casi segui. A me ne basta uno, ma quello deve essere trattato come se la persona che stai aiutando fosse tua madre. Per tua madre faresti di tutto: la aiuteresti a trovare una casa, un medico, un lavoro. Bene, fai lo stesso con chiunque tu aiuti”.

Non dobbiamo correre dietro ai numeri, perché rischiamo di cadere nello stesso meccanismo delle istituzioni. Il nostro sportello riceve un’istanza legale, ma quella persona non porta con sé solo un problema giuridico: dietro c’è una storia, una biografia, una rete di difficoltà. Il nostro compito è prenderci carico di tutta la sua vicenda, magari facendo rete con altre associazioni. Non possiamo limitarci a dire: “Per il permesso di soggiorno, domani devi essere in fila alle 5 del mattino davanti alla Questura”. Perché lui ti risponderà: “E ci voleva un avvocato per dirmi questa cosa? Lo sapevo già”.

Il punto è che c’è bisogno di costruire una relazione. Spesso chi viene allo sportello di Avvocato di Strada ha prima di tutto bisogno di essere ascoltato e capito. E, a volte, i problemi sono risolvibili anche con pochi passaggi: ottenere la residenza fittizia, sbloccare un documento, trovare un garante per un contratto di lavoro o di affitto. Ma non basta. Se quella persona, dopo un anno o due, torna con lo stesso problema o con una difficoltà ancora più grande, per noi è una sconfitta.

Per questo dico sempre ai volontari: “Non contano i numeri, contano le biografie. Quante persone siete riusciti a portare fuori dall’invisibilità, dalla precarietà? Quante hanno davvero avuto un cambiamento concreto?”. Io l’ho chiamato “Indice di impatto biografico”: non quanti casi segui, ma quante vite riesci a cambiare. Se ci limitiamo a raccogliere dati e a farci belli con le statistiche, finiamo per cadere nella stessa logica della politica, mentre le persone che aiutiamo continuano a dormire per strada.

Ti faccio un esempio concreto, che mi fa arrabbiare da anni. A Foggia sento dire da oltre vent’anni – e qui parlo di amministrazioni di ogni colore politico – che bisogna mettere in campo un piano per l’emergenza freddo. Ma scusate: siamo a Foggia, quasi in Nord Africa! L’inverno qui dura al massimo quattro, sei, sette settimane. E poi, in che senso emergenza? L’emergenza è qualcosa di imprevisto. Il freddo invece lo conosciamo, sappiamo quando arriva e possiamo prepararci.

Ma il vero problema di Foggia non è il freddo. Il problema sono i 40-45 gradi d’estate. Da giugno in poi ci sono tre mesi in cui in città non si respira, si soffoca. Chi vive per strada è emaciato, sfinito dal caldo. Perché il freddo lo affronti con una coperta, con un piumone, con un giaccone. Dal caldo, invece, non ti ripari se non hai un posto dove andare.

La politica, però, si fa sedurre da idee che portano consenso. Si occupa dell’emergenza freddo perché suona più rassicurante, ma non si preoccupa delle persone che in estate rischiano la vita sotto il sole cocente.

E sai qual è la cosa assurda? Molte persone senza dimora mi hanno detto: “Massimiliano, sono venuto apposta a Foggia perché almeno qui non fa troppo freddo d’inverno. Potevo andare a Torino, a Milano, a Verona, da dove provengo, ma a Foggia il vero problema è che da giugno ad agosto non sappiamo dove andare quando ci sono 40 gradi”.

Ecco, questo è il punto: la politica guarda altrove, il volontariato vede i problemi reali. Noi dobbiamo stare dalla parte delle persone, non dei numeri.

MFB. Quali ritieni siano i principali limiti del volontariato legale in questo ambito? Ci sono aspetti che, se migliorati, potrebbero rendere il vostro lavoro più efficace e sostenibile nel lungo periodo?

MA. Io divido il volontariato in due grandi categorie. Da una parte c’è il volontariato puro, come quello dei Fratelli della Stazione di Foggia, in cui l’impegno nasce da una motivazione personale e profonda, senza una struttura gerarchica o retribuita. Dall’altra parte, ci sono le grandi organizzazioni che, pur avvalendosi di volontari, devono destinare il 50-60% delle loro entrate al mantenimento della struttura.

Negli anni ho consultato i bilanci sociali di alcune grandi ONG e ho visto che i loro manager percepiscono stipendi paragonabili a quelli di professionisti che lavorano per multinazionali. Questo non è necessariamente un problema, ci mancherebbe, ma non riesco a definire il loro operato come volontariato. È una professione a tutti gli effetti.

A me piace più il modello dei Fratelli della Stazione, un volontariato puro che nel tempo è diventato un vero e proprio servizio sociale. A Foggia, quando la Polizia Municipale o i Carabinieri trovano una persona in difficoltà – un senzatetto svenuto per strada, un alcolizzato a terra – non chiamano l’assistente sociale, il sindaco o l’assessore. Chiamano il presidente dei Fratelli della Stazione, che è un padre di famiglia con tre figli e che, a qualunque ora del giorno e della notte, si attiva per aiutare.

Il bello del volontariato è proprio questo: diventa un punto di riferimento per la comunità, viene percepito come una risorsa concreta, perché i problemi li risolve davvero. La politica, invece, sbaglia perché fa percepire che ogni azione sia finalizzata al consenso elettorale. Il volontariato puro è l’esatto opposto: è credibilità sul campo.

Un esempio che mi piace ricordare è quello della campagna del candidato sindaco fittizio, organizzata dai Fratelli della Stazione non ricordo se nel 2009 o nel 2014 per sensibilizzare sul tema della residenza fittizia. Fu una provocazione intelligente e divertente: ogni volta che c’era un evento elettorale, noi partecipavamo portando un fantoccio al posto del candidato. E i volontari dicevano: “Il nostro candidato non può venire, è impegnato in altre attività professionali”. Quel fantoccio, però, diventava simbolicamente il portavoce di tutte le istanze delle persone senza dimora.

Questa è l’essenza del volontariato puro: nessun cartellino, nessuno stemma. Ti fai carico della biografia altrui, senza bisogno di ruoli ufficiali. Quando diventa un lavoro, smette di essere volontariato e diventa professionismo del terzo settore. E va benissimo, ma bisogna saper distinguere le due cose.

Al tempo stesso, il volontariato non può essere imposto. Questo è un errore molto comune, soprattutto nel mondo cattolico. Negli oratori, per esempio, si obbligano spesso i ragazzi a fare attività di volontariato. Ma il volontariato è una scelta interiore, un sentire che hai dentro. Non può essere imposto, deve essere ispirato con l’esempio.

Quando qualcuno mi chiede: “Come posso diventare volontario di Avvocato di Strada?”, io rispondo sempre: “Per capirlo, devi venire da noi e sentire la puzza”. Perché la prima esperienza che fai nel nostro sportello è olfattiva. Chi vive in strada spesso non ha la possibilità di lavarsi, e il primo impatto è l’odore.

Negli anni, abbiamo imparato a riconoscere dai tratti olfattivi la storia delle persone che incontriamo. Se l’odore è di stufa, viene dal ghetto, dove ci si scalda con le stufe. Se l’odore è di umidità, dorme nei sottopassaggi della stazione. Se è di alcol, abbiamo già un’indicazione sulla sua biografia. Se invece non ha un odore forte, probabilmente ha accesso ai primi servizi essenziali, dorme in un dormitorio o in un ostello.

Ma questa è un’esperienza che non puoi insegnare con una lezione frontale. Il volontariato non si impara sui libri. È lo stesso principio che ti porta a capire quando una persona ti sta raccontando una bugia o sta nascondendo qualcosa.

Capita, nel nostro lavoro, di incontrare persone che omettono parti della loro storia. Magari sono stati cacciati da un dormitorio per una rissa o hanno avuto problemi con la giustizia. Queste cose le impari con il tempo, con l’esperienza. Dopo vent’anni di volontariato, posso dire di riuscire a capire, più o meno, quando una persona mi sta raccontando bugie.

Ti racconto un episodio curioso. Qualche tempo fa, venne da noi un ragazzo che chiedeva asilo politico. Mi disse: “Sono perseguitato per motivi religiosi”. Gli chiesi: “Di che religione sei?”. “Cattolico”, mi rispose. “E da dove vieni?” “Dalla Guinea-Bissau”.

Sfortuna sua, in Guinea-Bissau ci sono stato cinque estati di seguito. Così gli chiesi: “Ci sono una ventina di vescovi cattolici lì. Me ne sai nominare almeno uno?”. Non sapeva rispondere. Gli dissi allora: “Guarda che in Guinea-Bissau c’è un solo vescovo, è molto famoso, tutti i cattolici lo conoscono”. Lui abbassò lo sguardo, si alzò e se ne andò.

Lui fu sfortunato, io fui fortunato. Ma il punto è che questa esperienza non te la insegna nessuno. Non esiste un corso di formazione per volontari che possa spiegarti queste cose. Certo, in alcuni casi ci sono nozioni che devi sapere: quando siamo stati in Guinea-Bissau, per esempio, sapevamo che le donne non dovevano fumare in pubblico o guidare fuoristrada, a meno che non fossero suore o non indossassero il velo. Ma questo non è volontariato, è informazione culturale di base per non creare fraintendimenti.

Il volontariato, invece, non si insegna. È un’esperienza, un coinvolgimento diretto con la realtà. E, come l’olfatto, è qualcosa che si sviluppa solo con il tempo e con l’ascolto vero degli altri.

MFB. Le persone che vivono in condizioni di marginalità sono spesso vittime di pregiudizi che ne aggravano l’esclusione sociale. Tra gli stereotipi più diffusi, c’è l’idea che siano responsabili della propria condizione, che non vogliano lavorare o che siano pericolose. Nella tua esperienza, quali sono i pregiudizi più comuni che hai osservato? E in che modo queste convinzioni errate influenzano il modo in cui le istituzioni e la società interagiscono con loro? Cosa si potrebbe fare per cambiare questa narrazione e favorire un approccio più inclusivo?

MA. Quando i pregiudizi e gli stigma provengono dalla politica o dalle istituzioni, ormai non ci faccio quasi più caso. Il luogo comune più diffuso è: “Se la sono cercata, sono loro che vogliono vivere in strada”.

In alcuni casi può esserci un fondo di verità. Ci sono persone che, per una loro scelta testarda, rifiutano l’aiuto, non vogliono vivere in un appartamento e non desiderano riprendersi responsabilità per tornare a una vita normale. Per alcuni, vivere per strada è una scelta di vita.Poi ci sono quelli che hanno sviluppato o aggravato disturbi psichiatrici proprio a causa della vita in strada. Infine, ci sono tante persone che vorrebbero uscirne, ma non ne hanno la possibilità. Chi affitta loro una casa? Chi dà loro la possibilità di fare un apprendistato o un tirocinio formativo? Chi offre loro un lavoro?

Con gli studenti della LUISS, ogni anno, porto avanti l’esperienza della “Clinica legale”: ragazzi dell’ultimo anno di Giurisprudenza iniziano a fare pratica forense lavorando su casi reali di persone senza fissa dimora. Insieme, sviluppiamo anche progetti normativi concreti.

Uno di questi riguarda proprio il diritto alla residenza e all’abitazione, dando la possibilità, a chi lo desidera, di avere una casa con un canone calmierato per 12 o 18 mesi, o addirittura azzerato del tutto. Il garante potrebbe essere un’associazione o un’azienda, che in cambio otterrebbe benefici fiscali dallo Stato. Una misura come questa permetterebbe a tante persone di uscire dall’invisibilità e ricostruire una quotidianità normale.
Perché senza una casa non puoi curarti, non puoi mangiare in modo sano, non puoi lavarti, non puoi avere vestiti puliti. E se non hai una casa, è difficile persino presentarsi a un colloquio di lavoro, figuriamoci essere assunti. L’unico tipo di impiego che riesci a ottenere è quello pagato alla giornata, magari come bracciante agricolo o per le pulizie nei condomini. Ma difficilmente potrai fare altro.

I luoghi comuni sono il vero ostacolo al cambiamento. Per me, però, le sconfitte più grandi, quelle che mi hanno ferito umanamente, sono state quando ho incontrato persone povere che, anche dopo aver ricevuto un aiuto per trovare una casa, mi hanno detto: “In quella casa non ci entro”.

Ed è lì che il volontario deve fare un passo indietro. Deve capire che la persona che ha davanti ha una sua storia, una sua volontà, e che la sua scelta – per quanto possa sembrare incomprensibile – va rispettata.

MFB. Negli ultimi anni, il fenomeno delle persone senza fissa dimora in Italia sembra essere in crescita, coinvolgendo non solo chi vive in condizioni di estrema povertà da tempo, ma anche nuove categorie di persone, come lavoratori precari, anziani con pensioni insufficienti e giovani senza rete familiare. Quali sono, secondo te, le principali cause di questa evoluzione? Si tratta più di fattori economici, sociali o istituzionali? E quali interventi concreti ritieni siano necessari per contrastare questa tendenza e garantire un accesso reale ai diritti fondamentali?

MA. In molte delle famiglie che vivono al limite ci sono persone giovani, spesso minorenni. Se non interveniamo su questi nuclei familiari, avremo un’intera generazione – o forse due – di persone che cresceranno con enormi difficoltà economiche, sociali e culturali.

Questo significa che nel futuro ci troveremo a dover gestire conseguenze inevitabili: disagi psicologici, disturbi della personalità, difficoltà relazionali, problemi di inserimento nel mondo del lavoro e, in alcuni casi, anche il rischio che molti di questi ragazzi imbocchino la strada della criminalità. E se a qualcuno interessa solo il discorso economico, lo dico in termini numerici: queste persone rappresenteranno un costo certo per il welfare e per il sistema sanitario.

Oggi abbiamo due possibilità: o mettiamo in campo un vero e proprio Piano Marshall contro la povertà – riprendendo lo slogan “Make Poverty History”, la campagna lanciata nel 2005 da Bono Vox e altri personaggi pubblici per ridisegnare le politiche economiche e sociali globali – oppure dobbiamo garantire una casa a chi non se la può permettere, come primo passo per garantire loro servizi essenziali.
Ma attenzione, non deve essere un’assistenza a fondo perduto. Deve esserci un patto, un percorso concordato, con impegni reciproci. E qui arriva l’idea di una figura chiave: un garante che segua queste persone passo dopo passo, aiutandole ad uscire dalla loro condizione.
Come potrebbe funzionare? Lo Stato assegna una casa per 12 o 18 mesi, aiuta a pagare bollette, libri scolastici per i figli, magari anche la scuola di calcio. Ma in cambio, la persona si impegna a seguire un percorso di reinserimento: un corso di formazione, una riabilitazione da dipendenze, la ricerca di un lavoro.

Per rendere questo processo più efficace, servirebbe un operatore di riferimento, una sorta di angelo custode che aiuti nel disbrigo delle pratiche, nell’orientamento professionale, nella gestione della quotidianità. Un po’ come il Mr. Wolf di “Pulp Fiction”: “Sono il signor Wolf e risolvo problemi”.

Un’idea simile è stata già sperimentata negli anni ’80 nello Stato di New York con il progetto “Mentoring Program”, ideato da Mario Cuomo e Matilda Raffa Cuomo. Si trattava di un programma educativo per prevenire la dispersione scolastica e contrastare fenomeni come bullismo, baby gang, violenza, droga e microcriminalità. Ai ragazzi a rischio veniva affiancato un mentore adulto, adeguatamente formato, che li seguiva settimanalmente, assegnando loro compiti e obiettivi. Molti di quei giovani, purtroppo non tutti, riuscirono a costruire un futuro diverso e migliore rispetto a quello che sembrava segnato per loro.

Quello che non funziona, invece, sono misure assistenzialistiche prive di progettualità. Ti faccio un esempio: qualche anno fa in Italia si è sperimentato il “Pocket Money”, un piccolo sussidio giornaliero per le persone in difficoltà. Ma spesso finiva nel mercato nero: il beneficiario prendeva la diaria, andava al supermercato, comprava dei prodotti e poi li rivendeva fuori dal negozio.

Un approccio diverso sarebbe stato affidare quel denaro a un operatore o a un mentore, che si occupasse di procurare i beni essenziali e, nel frattempo, aiutasse la persona a costruire un percorso: cercare un lavoro, occuparsi della propria famiglia, rimettersi in piedi un passo alla volta.
Serve qualcuno che aiuti queste persone a superare le loro dipendenze, dal gioco d’azzardo agli acquisti compulsivi, che dia strumenti per gestire le difficoltà emotive e sociali. Solo così si può ricostruire una rete reale, perché la vera rete di protezione non può essere un povero che si rivolge ai servizi sociali e poi si rivede con l’assistente sociale un anno dopo.
So già quale sarà l’obiezione principale a questa proposta: “Ma costa troppo”. Bene, allora facciamo due conti. Il PNRR vale 270 miliardi di euro: sarebbe bastato destinare anche solo un ventesimo o un trentesimo di quella cifra per avviare un progetto pilota nelle grandi città e vedere i risultati. Sono convinto che molte delle persone coinvolte sarebbero tornate a essere produttive, restituendo allo Stato, nel lungo periodo, molto più di quanto avrebbero ricevuto.

Un’altra soluzione già sperimentata con successo in molti Paesi è quella del microcredito: vuoi aprire un laboratorio, una bottega, seguire una formazione professionale? Perfetto. Ti supportiamo con un piccolo finanziamento, che viene erogato in base a un progetto di crescita reale. Anche in questo caso, il mentore funge da garante e si assume una responsabilità concreta nel percorso di chi aiuta.
Per me, questi Mr. Wolf dovrebbero essere parte integrante di un nuovo servizio civile. Un servizio civile retribuito, che dia un valore concreto all’impegno per gli altri. E qui la dico e qui la nego, perché magari per quello che sto per dire mi becco anche una denuncia, ma non importa: basta con questi ragazzi che fanno il servizio civile passando il tempo a fare fotocopie, a mettere benzina nei mezzi delle associazioni o a fare la spesa.
Il servizio civile deve essere qualcosa di diverso. Deve essere una rete di operatori dello Stato, della Pubblica Amministrazione, che si occupino direttamente delle persone in difficoltà.

Io immagino un sistema in cui ogni operatore abbia in carico dieci persone. Dopo un anno si tirano le somme: quante di queste dieci persone sono uscite dal limbo? Se sei riuscito a reinserirle tutte, io Stato ti riconosco un premio. Magari una dote economica, magari ti garantisco il mutuo per la prima casa.
Sono convinto che questo tipo di approccio produrrebbe risultati incredibili e creerebbe una generazione di giovani entusiasti, pronti a dare un contributo reale alla comunità.

MFB. Le istituzioni locali e nazionali giocano un ruolo fondamentale nel garantire che la tutela legale delle persone senza fissa dimora non sia lasciata esclusivamente all’iniziativa del volontariato. Secondo te, quali sono le azioni più urgenti che dovrebbero essere messe in atto per supportare concretamente il lavoro degli avvocati di strada? Parliamo di risorse economiche, semplificazioni burocratiche o di una maggiore collaborazione con i servizi sociali?

MA. Un aiuto concreto per gli sportelli di Avvocato di Strada potrebbe essere la creazione di un legame diretto tra noi, gli assessorati comunali e i servizi sociali.
Ad esempio, quando i servizi sociali si trovano di fronte a un’emergenza e individuano un problema di natura legale, dovrebbero poter mettere immediatamente in contatto la persona con un avvocato di strada. Questo sistema avrebbe un duplice, anzi un triplice vantaggio.

Il primo vantaggio è per l’utente, che avrebbe la certezza di essere seguito da un avvocato competente e affidabile, evitando il rischio di cadere nelle mani di un azzeccagarbugli che non ha davvero a cuore la sua situazione.

Il secondo vantaggio è per i servizi sociali stessi, che potrebbero contare su un interlocutore di fiducia, che non lavora per interesse economico, ma per garantire il rispetto dei diritti delle persone più vulnerabili.

Infine, il terzo vantaggio è per l’intero sistema: una rete coordinata tra servizi sociali e avvocati volontari permetterebbe di affrontare i problemi in modo più efficace e strutturato, evitando che le persone in difficoltà restino impantanate nella burocrazia o abbandonate a sé stesse.

Se vogliamo che il lavoro degli avvocati di atrada sia davvero incisivo, questa sinergia con le istituzioni è fondamentale.

MFB. Nel tuo lavoro con avvocato di strada hai sicuramente affrontato molte situazioni complesse e difficili. Qual è stata la sfida più grande che hai incontrato, quella che ti ha messo più alla prova, sia dal punto di vista professionale che umano? C’è una storia in particolare, tra le tante che hai vissuto, che ti ha colpito profondamente e che rappresenta in modo emblematico le difficoltà ma anche le speranze di chi si rivolge a voi?

MA. Ti racconto due storie, una negativa e una positiva, che mi hanno segnato profondamente. La prima è un caso che si ricollega a quello che dicevamo prima sull’importanza di farsi carico della vita e della biografia di chi si rivolge a noi per chiedere aiuto.

Si trattava di un ragazzo che ho seguito personalmente. Era vittima di un furto d’identità: alcuni truffatori gli avevano sottratto i documenti in cambio di poche decine di euro e li avevano usati per commettere frodi online, vendendo oggetti su siti di e-commerce senza mai spedirli.
Ricordo che si chiamava Michele. Per colpa di questa truffa, si ritrovò con procedimenti penali aperti in tutta Italia, perché formalmente risultava lui il responsabile delle vendite fantasma. Quando venne da me, cercava una soluzione, ma la situazione era molto complicata: le sentenze erano già passate in giudicato, su alcune avremmo potuto fare appello, ma sarebbe stato necessario che lui denunciasse i veri responsabili, cosa che, per paura o per rassegnazione, non fece mai.
Il mio errore fu affrontare la questione solo dal punto di vista legale. Non mi feci carico della sua vita nel suo complesso, non approfondii il suo disagio, il suo stato emotivo. Michele aveva un problema serio con l’alcol, e senza un aiuto più ampio la sua situazione peggiorò rapidamente. Tre mesi dopo il nostro incontro, lo trovarono morto in una casa diroccata, stroncato dall’abuso di alcol.

Questa storia, per me, rappresenta un fallimento. Non tanto dal punto di vista legale, ma umano. È la dimostrazione di quanto sia importante non limitarsi a risolvere il singolo problema burocratico o giudiziario, ma prendersi carico della persona nella sua interezza.

Poi c’è il caso opposto, un’esperienza che invece ha avuto un esito felice e che ricordo con grande piacere. Uno dei primi casi che ho seguito riguardava Mario, un ragazzo rumeno che lavorava come bracciante agricolo. Era irregolare, perché all’epoca la Romania non faceva ancora parte dell’Unione Europea.

Un giorno, mentre lavorava, il trattore del suo datore di lavoro si ribaltò, schiacciandogli una gamba. Il datore di lavoro, come purtroppo accade spesso, non voleva denunciare l’incidente. Se non fossimo intervenuti, Mario sarebbe rimasto senza alcun tipo di tutela, con una disabilità permanente e senza possibilità di ottenere alcun risarcimento.
Abbiamo fatto tutto il possibile per aiutarlo e alla fine Mario riuscì a ottenere un risarcimento di alcune decine di migliaia di euro. Con quei soldi, decise di tornare in Romania e aprire un bar. Ricordo la sua felicità quando ci raccontò la sua nuova vita: “Senza di voi sarei rimasto uno zoppo invisibile in Italia, destinato a vivere per strada. Invece, grazie a voi, sono tornato in Romania, ho aperto il mio bar, mi sono sposato e ora mia moglie e mio figlio lo mandano avanti”.
In questo caso, il nostro aiuto non si è fermato alla soluzione legale, ma è servito a ricostruire una vita. È una storia che dimostra che, quando l’intervento è fatto bene e va oltre il singolo problema giuridico, può davvero rimettere in equilibrio un’intera esistenza.

Queste due storie, nel bene e nel male, le ricordo sempre con grande intensità. Sono due facce della stessa medaglia: da un lato, quando il nostro intervento riesce a cambiare davvero una vita; dall’altro, quando, nonostante gli sforzi, non riusciamo a evitare un destino già segnato.

MFB. Guardando al futuro, quali sono i tuoi progetti per Avvocato di Strada? Ci sono iniziative nuove che vorresti sviluppare per ampliare il supporto offerto alle persone senza fissa dimora? E più in generale, come immagini l’evoluzione dell’assistenza legale per i più vulnerabili in Italia? Ritieni che si stia andando verso un sistema più inclusivo e accessibile o c’è ancora molta strada da fare per garantire davvero il diritto alla giustizia per tutti?

MA. Ho un sogno: che in Italia esista un avvocato di strada come quello del libro di Grisham, un professionista che, ben retribuito, possa dedicare la sua vita al sostegno delle marginalità. E sottolineo ben retribuito, perché altrimenti rischierebbe di diventare una professione di serie B.
Questo è il mio primo sogno.

Il secondo sogno l’ho già proposto come ipotesi ad alcune Università, ma per ora non ho trovato grande decisione nel sostenerlo. Ritengo che l’evoluzione delle “Cliniche legali” – cioè quelle esperienze di pratica che gli studenti di Giurisprudenza svolgono all’interno delle Università – dovrebbe portare alla creazione di veri e propri studi legali sociali.Immagino luoghi dove laureati, laureandi e neolaureati, con l’aiuto di un avvocato di strada professionista, possano aprire studi legali dedicati esclusivamente alla tutela dei diritti dei senza dimora, dei migranti, dei richiedenti asilo, ma anche delle ONG, delle cause ambientali e di tutte quelle realtà che faticano a trovare una difesa adeguata.
Questo è il mio sogno più grande: riaccendere la passione intorno alla professione dell’avvocato.

Chiudo con una riflessione che faccio spesso nelle scuole, quando parlo ai ragazzi delle medie o ai primi anni del liceo.
Chiedo sempre: “Qual è la professione più nobile, quella che salva le vite?”.Nove su dieci rispondono: “Il medico”.
E ogni volta mi girano gli zebedei!
A quel punto li vedo iniziare a riflettere.
Dopo un po’ gli riformulo la domanda: “Allora, qual è la professione più nobile?”.
E pian piano il rapporto cambia. Da nove su dieci per i medici, diventa sei contro quattro.

Questa è una mia piccola battaglia: far capire che fare l’avvocato, al di là dei tanti luoghi comuni, è una professione che, se svolta con passione e nobiltà d’animo, può salvare e aiutare tante vite.

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