Sopravvivere alla strada e alla violenza: il selfie senza fissa dimora di Mira DZ.

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Parte 1: Cadere senza rete.

#DonneSenzaDimora #ViolenzaSulleDonne #resilienza #invisibili #DirittoAllaCasa.

Immagini fornite da Mira DZ.

“In strada non è la fame che ti uccide. Sono la violenza e l’indifferenza..”
Mira DZ.

Sopravvivere alla strada e alla violenza: la battaglia di una donna, Mira DZ.

Le donne senza dimora sono tra le persone più invisibili della nostra società. La loro presenza è spesso cancellata due volte: prima dalla povertà, poi dalla violenza. Essere una donna per strada significa affrontare il rischio quotidiano di aggressioni, abusi, sfruttamento. Non si tratta solo di una condizione di precarietà abitativa, ma di una continua esposizione alla brutalità del mondo.

La violenza sulle donne è una piaga che attraversa tutte le classi sociali, ma quando si interseca con la marginalità diventa ancora più spietata. Judith Butler, in “Vite precarie“, parla della differenza tra chi viene considerato degno di lutto e chi, invece, non ha nemmeno il diritto a esistere. Le donne senza dimora rientrano in questa seconda categoria: vivono ai margini della società, spesso senza che nessuno si accorga di loro. Ne scrive Lucia Fiorillo in “Donne senza dimora: un fenomeno invisibile“, nel volume “Povertà estreme” (Franco Angeli, 2022), evidenziando come la loro condizione sia caratterizzata da un altissimo tasso di violenza, spesso taciuta o minimizzata. Ne parla Camilla Läckberg  in “Donne che non perdonano“, raccontando di donne costrette a difendersi con ogni mezzo. Jennifer Guerra, in “Il capitale amoroso“, denuncia un sistema che normalizza la violenza domestica e sociale, mentre il reportage “Noi schiavisti” di Valentina Furlanetto mostra come la vulnerabilità estrema diventi terreno fertile per abusi e sfruttamento.

Di queste donne abbiamo parlato nei post di Silent Sister. Le dimenticate. La difficile situazione delle donne senzatetto e Povertà, precarietà e invisibilità: la storia di Francesca P.”, affrontando la questione della violenza e della sopravvivenza femminile in strada.

Mira DZ ha vissuto tutto questo sulla propria pelle e ha scelto di raccontare la sua storia. Mi ha contattato tramite la pagina Facebook di Selfie Senza Fissa Dimora, offrendosi di condividere il suo vissuto perché, come scrive lei stessa: “La mia storia può servire per capire cosa significa essere una donna senza dimora. Non lo auguro a nessuno.” Abbiamo ricostruito il suo percorso attraverso messaggi vocali su WhatsApp, rielaborando il testo più volte fino alla versione definitiva che ora leggete.

Mira non chiede nulla per sé, ma se qualcuno desidera aiutarla, anche solo facendole sentire la propria vicinanza, può contattarla direttamente tramite la sua chat Facebook. Oppure può offrirle un vero sostegno per ricominciare commissionando uno dei suoi disegni, che Mira pubblica sulla pagina I colori del cuore.

I suoi lavori possono diventare regali personalizzati per compleanni, biglietti di auguri, pensieri per i bambini o semplicemente un modo per sostenere il suo percorso verso una nuova vita.

I fatti narrati sono riportati sotto la responsabilità di Mira DZ, poiché non è stato possibile verificarli indipendentemente.

Cadere senza rete” è il primo capitolo della sua storia: la seconda parte, Chico e la risalita – Sopravvivere oltre la strada, verrà pubblicata successivamente.

Ogni conversazione pubblicata su Selfie Senza Fissa Dimora è un selfie verbale: un autoritratto in parole, che permette a chi vive questa realtà di raccontarsi con la propria voce. Non vogliamo offrire risposte preconfezionate, ma ascoltare, capire e portare avanti domande che riguardano tutti noi.

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La vita di Mira prima della strada.

La mia vita era completamente diversa prima di finire in strada. Avevo un lavoro stabile a Cortina d’Ampezzo, dove avevo la residenza, e due figli che riuscivo a mantenere più che bene.

Quando tornai in Italia dalla Tunisia, dove avevo vissuto con il mio ex marito tunisino, la situazione era già difficile. Lì c’era la guerra, così decisi di rientrare con mio figlio piccolo e un’altra bambina in grembo. Speravo di trovare un po’ di stabilità allontanandomi da un uomo che non ha mai pensato realmente né a me né ai suoi figli, ma a Cortina la realtà fu ben diversa.

Mio padre aveva avuto un’emorragia cerebrale devastante ed era rimasto paralizzato. Mia madre, già provata dal lavoro, si era ammalata. Io mi ritrovai con due bambini piccoli da crescere, una situazione familiare al limite e un marito in Tunisia che se ne era sempre fregato.
Trovai impiego con SCS Cadore, facendo le pulizie nei bagni pubblici della stazione e del comune, oltre alla palestra della scuola media di Cortina. Era un lavoro faticoso, ma mi permetteva di mantenere i miei figli.

Per questo mi rivolsi ai servizi sociali, sperando che mi potessero dare un aiuto pratico: sapevo che sopra i bagni pubblici c’era un appartamento destinato ai dipendenti e chiesi se potessi avere la possibilità di andarci a vivere.

L’allontanamento dei miei figli – Un’ingiustizia senza spiegazioni.

I problemi iniziarono con una semplice richiesta di aiuto al consultorio familiare di Pieve di Cadore, vicino a Cortina.
La situazione si complicò quando, senza che io lo sapessi, il neuropsichiatra infantile che seguiva mio figlio per i suoi disturbi comportamentali (DOP) fece intervenire la tutela minori. Da quel momento, la mia vita cambiò radicalmente.

Improvvisamente, mio padre morì. Fu dopo la sua morte che mi portarono via i bambini, senza una spiegazione chiara, senza una motivazione plausibile. Solo un’ingiustizia che ancora oggi non riesco a comprendere.

Avevo un lavoro, una casa, stavo cercando di ricostruire la mia vita, ma senza che me ne rendessi conto, la tutela minori si inserì nella mia esistenza e decise che non potevo più vivere con i miei figli.
I motivi che mi fornirono erano incomprensibili. Dissero che non potevo vivere con mia madre perché tra noi i rapporti erano difficili, come se questo giustificasse il fatto di privarmi dei miei figli. Ripescarono episodi della mia infanzia e della mia famiglia, cercando ogni pretesto per togliere i bambini.
Non ho mai ricevuto documenti, carte o spiegazioni ufficiali che chiarissero quella decisione.

Una battaglia contro il nulla.

Ho sempre cercato di seguire la legge, perché con la legge non si scherza.
“Se ti rompi una gamba, poi devi rimetterla dritta. Se non lo fai, rimane storta.”
Per la vita vale lo stesso principio: se sbagli, devi rimediare. Ma io non ho mai capito quale fosse il mio errore.

Sul decreto di allontanamento non c’era scritto nulla contro di me. Tutto era riferito a mia madre, alla mia infanzia e al mio passato di bambina adottata, al nostro rapporto complicato. Ma allora perché mi toglievano i bambini?
In Italia esistono case famiglia per madri e figli, ma a me non è mai stata data questa possibilità. Ho persino chiesto di fare i test genitoriali per dimostrare che ero una buona madre, ma non è servito a nulla.

Mi sono sempre spaccata la schiena per i miei figli. Facevo tre, quattro lavori contemporaneamente per garantire loro una vita dignitosa. Non gli ho mai fatto mancare nulla. Eppure, i servizi sociali hanno scritto ogni tipo di falsità su di me, hanno costruito una realtà che non esisteva, stravolgendo ogni cosa pur di giustificare il loro intervento.

L’inizio dell’incubo.

Il 3 giugno 2017 mi dissero che dovevo lasciare Cortina d’Ampezzo. Un provvedimento di allontanamento coatto mi impediva di stare nella città dove avevo sempre vissuto, dove avevo lavorato e, soprattutto, dove c’erano i miei figli. Non capivo il motivo. Non c’erano accuse, non c’erano spiegazioni, solo una decisione imposta dall’alto.
I bambini furono trasferiti in comunità, con la promessa che sarebbe stata solo una sistemazione temporanea. Ma la parola “temporaneo” si trasformò presto in definitivo.

Trovai lavoro a Lecco come badante. Sembrava un’opportunità concreta: un contratto a tempo indeterminato, una sicurezza per il futuro. Ma non potevo accettarlo. Non volevo allontanarmi ancora di più dai miei figli.
Ero già stata strappata via da loro, non potevo essere io ad allontanarmi volontariamente.
Decisi di restare e seguii i bambini a Mestre, dove erano stati trasferiti. Ma ogni volta che cercavo di avvicinarmi, i servizi sociali alzavano nuove barriere.
La tutela minori mi ostacolò, impedendomi di stabilirmi. Era come se ogni strada fosse già segnata e portasse sempre più lontano da loro.
Ogni tentativo di stabilità diventava una battaglia persa in partenza. Più cercavo di sistemarmi, più mi spingevano ai margini.
In più, come se non bastasse, i servizi sociali mi dissero che non potevo più tornare a Cortina per otto anni. Otto anni lontana dalla mia città, dalla mia casa, dalle persone che conoscevo.

Anche solo tentare di rientrare per recuperare qualche vestito o tentare di parlare con mia madre veniva visto come un’infrazione.
Ogni piccolo tentativo di ricostruire qualcosa veniva bloccato. E, peggio ancora, ogni volta che cercavo di rientrare in contatto con i miei figli, i servizi sociali lo scoprivano e mi impedivano di sentirli.

La strada.

Non ho mai pensato che sarei finita per strada. Non era nei miei piani, non volevo fosse il mio destino. Credevo di avere un posto dove stare, di poter trovare una soluzione, almeno una soluzione temporanea.

Quando arrivai a Conegliano, conobbi Eliana, una ragazza che viveva nella mia stessa situazione. Parlando con lei, decidemmo di condividere una stanza, un piccolo spazio che almeno per qualche tempo poteva darci un po’ di stabilità. Pagammo 450 euro e per alcuni mesi rimasi lì, cercando di capire come andare avanti. Poi, quando la situazione sembrava essersi assestata, comparve un ragazzo con cui avevo avuto una relazione e da cui mi ero allontanata perché si era dimostrato una persona violenta.
Lo vidi attraverso una videochiamata su WhatsApp, il viso rigato di lacrime, disperato: “Ti prego, ho prenotato una stanza per noi a Ravenna, tutto pagato. Voglio solo parlarti.”

Arrivammo a Mezzano, una stazione prima di Ravenna. Lì mi disse che c’era stato un errore e che la camera non era disponibile. Mi assicurò che avremmo trovato una sistemazione per la notte, ma girammo a vuoto. Ravenna sembrava chiusa, inaccessibile.
Ero già lì, cosa avrei dovuto fare? Dove sarei potuta andare?

Camminammo per una decina di minuti, forse quindici, fino a raggiungere il porto, prima del ponte mobile di Ravenna. Fu lì che vidi, per la prima volta, quello che sarebbe diventato il mio rifugio forzato, il mio incubo. L’ex Magazzini Silos Granai del porto di Ravenna, un edificio abbandonato che in seguito avrei chiamato “il mio luogo abbandonato”.
Fu come una doccia fredda. Lui mi disse che era solo per una notte, che il giorno dopo avrebbe trovato una soluzione. Ma quella soluzione non è mai arrivata.

Il punto di non ritorno.

Il punto di non ritorno è stato quando, giorni dopo, ho realizzato che nessuno mi avrebbe aiutata davvero. Mi rivolgevo alle associazioni, ai servizi sociali, ma senza residenza non avevo diritto a nulla. E se non hai diritto a nulla, per loro non esisti.
Nel frattempo, vivevo con un uomo che non era cambiato affatto. Era violento, non cercava soluzioni, ma solo di sopravvivere con mezzi illeciti.

Qualche tempo dopo, venimmo cacciati dal Candiano e ci spostammo all’ex ostello della gioventù. Lì, una notte, rischiai di morire per un’intossicazione da monossido di carbonio. Avevo acceso della carbonella per scaldarmi, ma senza rendermene conto stavo soffocando. Non mi svegliai per il fumo, ma per le botte. Il mio compagno, invece di aiutarmi, per “svegliarmi”, mi colpì violentemente, poi chiamò i soccorsi. Mi salvò la vita, ma mi ruppe le ossa. Soffrendo di osteoporosi, finii in ospedale con fratture ovunque.

Dopo l’ospedale, non avevo scelta: tornai al Candiano, perché almeno lì sapevo come sopravvivere. Costruii un riparo con materiali di recupero, imparai a scaldarmi e a gestire lo spazio in cui dormivo. Perfino i topi imparai a tenerli lontani lasciando il cibo fuori.

A quel punto, non si trattava più di “uscire dalla strada”, ma di resistere alla strada. Ero sola e potevo contare solo su me stessa.

Sopravvivere in strada.

Se devo essere sincera, dal primo giorno in cui mi ritrovai a dormire in quel tugurio, compresi che la strada non era un passaggio temporaneo, ma una realtà da affrontare. Una condanna che nessuno ti dice che potrebbe toccare anche a te.

Cavarsela in strada fu più che difficile. Vivevamo in un edificio abbandonato, anche se chiamarlo “edificio” era un eufemismo. Provai a dargli una parvenza di normalità, disegnando “Welcome Chico” con lo spray su una porta (sono sempre stata piuttosto brava nel disegno), come per affermare un senso di appartenenza a un luogo che nessuno avrebbe mai definito casa.

Le nostre giornate erano scandite da continui litigi e discussioni con un uomo violento e instabile. Lui si svegliava tardi, nel pomeriggio, mentre io soffrivo il freddo e la fame. Non avevo mai immaginato di finire per strada, eppure ero lì, senza sapere come sopravvivere. La questura ormai mi conosceva, perché ogni sera finiva in litigate e denunce che regolarmente, per paura, ritiravo.

La questione non era più solo vivere per strada, ma evitare di farmi ammazzare. E quando il pericolo più grande è accanto a te, scappare diventa impossibile.

La notte a Candiano: la legge del più forte.

Prima di proseguire, vorrei raccontare qualcosa su quel posto maledetto dove vivevo.
A Candiano, il peggio arrivava dopo la mezzanotte. Lo avevo detto anche ai carabinieri: “È inutile venire di giorno. Di giorno la gente è fuori a ‘farsi la giornata’: chi ruba, chi spaccia, chi si arrangia. Ma la notte… la notte è un inferno.”
Dopo la mezzanotte arrivavano i tossici, gli spacciatori, i bracconieri. Gente che spaccava bottiglie, che picchiava per un niente, che non aveva più nulla da perdere.
A un certo punto, ho dovuto imparare a difendermi.
Io, che prima sembravo la più disperata di tutte, ho imparato a girare con un coltello. Anzi, due: uno da un lato, e dall’altro una spranga. Avevo capito una cosa: se qualcuno voleva mettermi le mani addosso, meglio che lo fermassi io per prima.
Meglio colpire prima di essere colpita.

Piuttosto che morire io, ero pronta a farlo io.

L’incontro che cambia tutto.

Nel maggio del 2023 accadde qualcosa che cambiò la mia vita. Era una sera di primavera, poco prima dell’estate. Mi trovavo alla Darsena, a passeggiare da sola. Anche se avevo un compagno, la verità era che ero sempre sola. Lui non c’era mai.
Camminavo lungo il porto quando il mio cellulare squillò. Era lui.
“Vai in stazione, al terzo binario. Lì troverai qualcosa.”
Rimasi spiazzata. “Cosa dovrei trovare lì a quest’ora? Cosa vuoi di nuovo?”Non capivo, ma qualcosa dentro di me mi diceva di andare.
E così, proprio quella notte, mentre vagavo con il cuore appesantito da mesi di disperazione e paura, il destino mi fece trovare quello che desideravo da tempo.
Un cane.
Forse il Signore aveva ascoltato le mie preghiere. O forse era solo il caso.
Non so cosa ci sia dall’altra parte del mondo oltre a noi, ma quella notte qualcosa cambiò davvero.

#SelfieSDF #PovertàNonèInvisibilità

6 risposte a “Sopravvivere alla strada e alla violenza: il selfie senza fissa dimora di Mira DZ.”

  1. […] compagni di vita) e Sofie Bumke (responsabile delle unità mobili) di Save the Dogs. Mira, Elsa e Roberto — tre persone senza dimora che convivono con i loro cani — pongono nuove […]

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  2. […] dialogo, tre persone di cui abbiamo raccontato le loro storie in Selfie Senza Fissa Dimora — Mira De Zolt, Roberto Di Maio e Elsa Marchese — che convivono con i loro cani, pongono a LAV una serie di […]

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  3. […] tre persone senza dimora di cui abbiamo raccontato le storie in Selfie Senza Fissa Dimora – Mira De Zolt, Roberto Di Maio e Elsa Marchese – pongono le loro domande a Francesca Collodoro, responsabile […]

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  4. […] come per molte persone senza dimora (SelfieSFD ne ha già parlato nelle storie di Mira DZ, “Cadere senza Rete” e Chico e la risalta” e di Elsa M, “Elsa, i suoi cani e il diritto di avere una […]

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  5. […] è il secondo capitolo della sua storia: “. Il primo capitolo,“Cadere senza rete” è già stato pubblicato nel […]

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  6. Lidia e Maury di Ravenna, conosciuti come i Li-Ma

    Lidia e Maury hanno conosciuto casualmente, nel vero senso della parola, Mira, un po’ di tempo fa…cosa ci ha conquistato? La Sua Intelligenza, La sua Umanita’ e la sua Vivacita, la Sua Voglia di Vivere cercando di superare (con tanta tenacia e tanta lotta, riuscendoci alla grande) avversita’ che alla stragrande maggioranza delle persone, sembrano vette insuperabili, Dolori Fisici e Psicologici In-Immaginabili, e difficilmente Narrabili…che altro aggiungere? Ti Vogliamo Bene Burdela…dal Lato Pagano, che gli Dei siano sempre al Tuo Fianco…dal Lato Cristiano, che Dio sia sempre al Tuo Fianco…Situazioni del Genere, andrebbero scagliate contro gli Empi…non contro Persone come Mira, che non hanno MAI fatto del Male a Nessuno

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