BRIChECO e Stecca 3.0: una falegnameria sociale in uno spazio ibrido socioculturale nel cuore di Milano.

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Fotografie e video: Stecca 3.0, BRIChECO

La Stecca degli Artigiani è stata per decenni un punto di riferimento per il quartiere Isola di Milano, ospitando falegnami, artisti e associazioni culturali. Sorta in un’area storicamente legata alla piccola produzione artigianale e alla manifattura, ha rappresentato un luogo di aggregazione spontanea e di sperimentazione sociale.

Nei primi anni Duemila, con l’avvio del Progetto Porta Nuova, l’Isola è stata al centro di un profondo processo di trasformazione urbanistica. La demolizione della vecchia Stecca nel 2007 ha suscitato forti proteste da parte di residenti e realtà associative, preoccupati per la perdita di uno spazio comunitario e per l’impatto della gentrificazione sul tessuto sociale del quartiere.

Come risultato di un lungo percorso di confronto tra cittadini, istituzioni e operatori del territorio, è nato un nuovo spazio: Stecca 3.0, inaugurato nel 2012 e oggi gestito dalla rete di associazioni ADA SteccaIncubatore per l’arte e spazio ibrido socioculturale, Stecca 3.0 ospita attività legate all’artigianato, alla mobilità sostenibile e al cibo, promuovendo pratiche di partecipazione, inclusione sociale e sostenibilità.

Uno dei progetti più significativi è BRIChECO, una falegnameria sociale nata con l’obiettivo di offrire un laboratorio aperto dove chiunque possa imparare a lavorare il legno, recuperare materiali e sviluppare competenze artigianali in un ambiente collaborativo. Accanto alla falegnameria, trovano spazio una ciclofficina, che offre supporto per la riparazione delle biciclette e laboratori sulla mobilità sostenibile, e iniziative legate al food, con progetti che valorizzano il recupero e la condivisione del cibo come pratica sociale.

Abbiamo incontrato Giampaolo Artoni, socio onorario e tesoriere di ADA Stecca, rappresentante di Legambiente Lombardia e membro di BRIChECO; Lidia Pezzoli, responsabile di BRIChECO, e Giulia Cantaluppi, socia fondatrice di Temporiuso.net, un progetto dedicato alla riattivazione di spazi inutilizzati attraverso processi partecipativi.

Nell’intervista che segue, esploreremo con loro il passato e il presente di BRIChECO e Stecca 3.0, le sfide affrontate nel tempo e le prospettive future di questo spazio, che continua a rappresentare un modello di gestione partecipata, economia di prossimità e resistenza alle dinamiche speculative che stanno trasformando il volto di Milano.

Da Stecca degli Artigiani a Stecca 3.0: una storia di resistenza e trasformazione.

Mario Flavio Benini. Come si è sviluppato il percorso di trasformazione della vecchia Stecca degli Artigiani nella nuova Stecca 3.0? Quali sono stati gli attori chiave di questo processo e quali forme di partecipazione sono state attivate per coinvolgere la comunità locale?

Giampaolo Artoni. La storia della Stecca inizia da lontano, almeno dagli anni ’90, quando il quartiere Isola era ancora un’area popolare, un po’ separata dal resto della città per via della ferrovia e dei vuoti urbani intorno. Qui c’era la Tecnomasio Italiano Brown Boveri, una fabbrica enorme che produceva motori elettrici. Attorno a questa fabbrica si era creato un indotto artigianale specializzato nella lavorazione metalmeccanica, tant’è che il quartiere aveva una certa fama diciamo che qui si trovavano i migliori scassinatori di Milano, gente che sapeva lavorare il metallo meglio di chiunque altro.

Io ci sono arrivato negli anni ‘80 senza sapere nemmeno che esistesse. Poi, negli anni ‘90, come spesso accade nei processi di gentrificazione, sono arrivati artisti, studenti, intellettuali in cerca di spazi e affitti bassi. È stato il periodo in cui è iniziata la battaglia contro il Progetto Garibaldi-Repubblica, che minacciava di stravolgere l’identità del quartiere. Noi del Comitato di Quartiere Isola, che già lavoravamo con Legambiente, ci siamo resi conto che da soli non saremmo mai stati abbastanza per contrastare uno sviluppo di quella portata. Così abbiamo iniziato a coinvolgere gruppi di studenti del Politecnico di Milano, che sono arrivati a frotte per studiare il territorio e dare una mano. È nata così l’esperienza di Cantieri Isola, e da lì all’occupazione della Stecca il passo è stato breve.

Abbiamo creato uno spazio aperto, un laboratorio di partecipazione e di autogestione. C’era Apolidia, una scuola di italiano per stranieri organizzata da volontari, e c’erano tante realtà che cercavano un modo per riprendersi un pezzo di città. Il posto, all’epoca, era in gran parte abbandonato, e dentro ci trovavi di tutto, dagli ex artigiani ai disperati. Don Gino Rigoldi venne a fare un giro con noi, entrò in un capannone e si trovò di fronte una faccia conosciuta e disse: “Ma tu stamattina non eri a San Vittore?”. Questo era lo scenario: un luogo che, senza progettualità sociale, rischiava di diventare terra di nessuno.

Poi, nel 2006, la situazione è precipitata con la demolizione della vecchia Stecca. È stato un momento critico. Avremmo potuto resistere con l’occupazione a oltranza, ma sapevamo bene come sarebbe finita: sgombero e nessuna possibilità di tornare. Così abbiamo deciso di fare un salto di qualità e nel 2007 abbiamo fondato l’associazione ADA Stecca, per costruire una base solida per trattare con le istituzioni. Non è stata una scelta facile, perché ha significato perdere una parte di persone che non condividevano questa strategia.

Lidia Pezzoli. Io in quel periodo vivevo all’Isola e la Stecca era semplicemente un posto dove si stava bene. Ci si trovava, si beveva una birretta, si facevano serate. Era un punto di aggregazione. Non ero ancora nell’organizzazione, ci sono entrata dopo, ma ho visto da vicino il valore sociale che aveva.

Giampaolo Artoni. La contrattazione con la proprietà dell’area è stata tutto fuorché semplice. Con Manfredi Catella, il confronto si è progressivamente aperto al dialogo. La sua visione, influenzata da esperienze internazionali, portava un approccio urbanistico più attento alle dinamiche sociali. Aveva compreso che, per far funzionare il progetto, era fondamentale coinvolgere attivamente le comunità locali, evitando una trasformazione che escludesse la dimensione sociale del quartiere.

A facilitare il dialogo ci sono stati personaggi chiave come Stefano Boeri, Alessandro Balducci, Paolo Fareri e il mondo del Politecnico. Noi ci siamo detti: “Loro pensano di usarci? Bene, usiamoli anche noi.” E così è stato. Non volevamo finire a fare i barricaderi per poi perderci tutto. Il momento giusto è arrivato nel 2011 con il cambio di amministrazione: con Giuliano Pisapia sindaco, il Comune è entrato nel processo di mediazione e le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa.

Nel 2012 finalmente è nata Stecca 3.0, gestita da ADA Stecca. Dopo quasi trent’anni di lotte e trattative, siamo riusciti a trasformare una battaglia urbanistica in un modello di gestione comunitaria. Oggi Stecca 3.0 è un incubatore culturale e artigianale, dove convivono associazioni, artisti e realtà sociali. Il quartiere è cambiato radicalmente, ma la Stecca continua a essere un luogo di resistenza, creatività e partecipazione, un pezzo di città che ci siamo ripresi e che continuiamo a difendere.

Scelta del modello tra economia e inclusione.

Mario Flavio Benini. Quali sono stati i fattori determinanti nella scelta del modello di Spazio Ibrido Socioculturale per Stecca 3.0. Sono state prese in considerazione alternative come Community Hub o Spazio Piattaforma? In che modo il modello scelto si è dimostrato più adatto a garantire sostenibilità economica e impatto sociale?

Giampaolo Artoni. No, non siamo partiti da un modello esistente, il nostro modo di gestire lo spazio non è cambiato di punto in bianco, si è semplicemente evoluto. È stato un processo, non una decisione presa a tavolino.

Lidia Pezzoli. L’evoluzione è stata necessaria, anche perché i primi tre anni di Stecca 3.0 sono stati abbastanza tranquilli. Non avevamo l’affitto da pagare, quindi ci siamo concentrati solo sui progetti, senza pensare troppo a come sostenerci economicamente. Poi, quando è arrivato il momento di pagare l’affitto, abbiamo dovuto iniziare a ragionare su un modello di spazio che fosse sostenibile. E lì c’è stata la vera svolta: abbiamo capito che non bastava avere idee, serviva anche una strategia economica per farle sopravvivere.

Giampaolo Artoni. A Milano, chi è riuscito a rimanere in piedi ha dovuto evolvere. Gli spazi che arrivavano dalla tradizione del centro sociale, quelli con un’identità più radicale, in gran parte sono stati chiusi o si sono trasformati. Qui all’Isola è rimasto Piano Terra, che però ormai è più un circolo che altro. Casaloca1, che era uno degli ultimi spazi davvero inclusivi, è stata sgomberata nell’agosto del 2024.

Se oggi si parla di spazi ibridi, è perché qui dentro, alla Stecca, siamo stati tra i primi a spingere per questo modello. Avevamo bisogno di massa critica, di spazi che fossero in grado di stare in equilibrio tra due anime: una parte commerciale, che generasse entrate per sostenersi, e una parte sociale, che fosse accessibile a tutti. Noi siamo riusciti a fare questo salto. Oggi dentro Stecca 3.0 convivono realtà molto eterogenee: c’è AIAB, che organizza il mercatino del sabato, e ci sono realtà come la scuola di Capoeira, che prima stava all’Isola e rischiava di scomparire.

Lidia Pezzoli. Prima la Capoeira era in Pergola2, poi l’abbiamo accolta qui.

Giampaolo Artoni. Lo stesso è successo con Non Solo Danza, che si è ritrovata senza sede perché la cooperativa Verdi gli ha alzato l’affitto in modo assurdo. Così è diventato chiaro che, oltre a essere un centro di produzione culturale, Stecca 3.0 doveva anche essere un luogo di tutela per chi rischiava di essere tagliato fuori dal quartiere. Ma per farlo servivano spazi adeguati.

Nella vecchia Stecca non era facile stare. Gli spazi non erano sempre accoglienti. A Milano oggi di luoghi con un’identità simile è rimasto poco. Il Torchiera3, per esempio, che è uno degli ultimi veri centri sociali, non ha neanche l’acqua. Funziona grazie a chi ci mette anima e cuore, ma non è un modello sostenibile a lungo termine. C’è anche l’SMS in Piazza Stuparic, ma quello è un mondo a sé. Il Leoncavallo invece ha preso una strada più strutturata e, dal punto di vista economico, va benissimo, ma ha un’impostazione molto diversa.

Lidia Pezzoli. Il problema di tanti progetti è che partono con la giusta intenzione e poi si perdono per strada. Penso ai Giardini Mosso4, che hanno iniziato come spazio culturale e sociale, poi sono diventati sempre più commerciali. Magari anche noi facciamo quell’impressione, chissà.

Giampaolo Artoni. Io invece mi vanto di questa evoluzione. Nella vecchia Stecca c’era una separazione forte tra chi ne faceva parte e chi la guardava da fuori con diffidenza. Qui invece è diverso: Stecca 3.0 è un luogo aperto, inclusivo, un posto che appartiene alla città, non a un gruppo ristretto.

Lidia Pezzoli. Già, perché tanti spazi occupati, anche quelli con le migliori intenzioni, hanno sempre avuto un problema di accessibilità. C’erano persone che non ci sarebbero mai entrate perché li vedevano troppo radicali, troppo chiusi. Anche le ultime esperienze di occupazione, alla fine, avevano una dinamica simile: c’era chi faceva attività sociali e chi, da fuori, li percepiva come luoghi esclusivi.

Giampaolo Artoni. Qui, invece, la porta è aperta per tutti. E questa è la nostra forza. Questo è uno spazio per le persone, non per un gruppo chiuso. Certo, è uno spazio antifascista e lo rivendichiamo, ma resta aperto a tutti. E questa per noi è una grande conquista.

Spazi ibridi socioculturali: modellizzare Stecca 3.0.

Mario Flavio Benini. In che modo il modello di Spazio Ibrido Socioculturale di Stecca 3.0 si è evoluto nel tempo? Quali sono state le principali collaborazioni con altre associazioni a Milano, in Italia o all’estero, e come hanno influenzato le attività e la gestione dello spazio? Inoltre, come ha funzionato il dialogo con enti pubblici e istituzioni private per garantire la sostenibilità e lo sviluppo delle iniziative?

Giampaolo Artoni. Il nostro modello è nato e si è sviluppato qui dentro, e continua ad evolversi con le persone che lo attraversano. Attualmente, Isabella Inti (anche presidente di Stecca degli Artigiani), Roberta Mastropirro (Direttrice della Stecca, proviene da Architetti senza Frontiere, altra associazione fondatrice di Stecca), Giulia Cantaluppi (presidente della Associazione Tempo Riuso) stanno lavorando alla pubblicazione di un libro sugli spazi ibridi socioculturali, che dovrebbe uscire a maggio. È un progetto importante perché raccoglie esperienze come la nostra, offrendo uno sguardo sulle dinamiche di questi spazi e sul loro impatto nelle città.

L’evoluzione di Stecca 3.0 è stata possibile grazie a relazioni solide, in particolare con il Politecnico di Milano, con cui abbiamo sperimentato diversi modelli di gestione e progettazione partecipata. Il rapporto con il Comune di Milano è sempre stato presente, indipendentemente dall’amministrazione in carica. Abbiamo cercato di mantenere un dialogo costante, pur consapevoli che il nostro modello non rientra facilmente nelle logiche istituzionali.

Altri spazi ibridi, in Italia e all’estero, spesso si orientano verso una gestione più strutturata, con finanziamenti pubblici o privati che impongono regole più rigide. Noi abbiamo scelto un’altra strada, più fluida e meno dipendente da bandi e sovvenzioni.

Lidia Pezzoli. È importante sottolineare che Stecca 3.0 non ha dipendenti; siamo probabilmente uno dei pochi spazi a funzionare senza personale stipendiato. Questo significa che tutto quello che accade qui è frutto dell’impegno diretto delle persone che lo vivono. Non c’è una gerarchia rigida, non ci sono ruoli fissi. La gestione avviene in modo collettivo, con un equilibrio tra chi organizza, chi partecipa e chi mette a disposizione le proprie competenze.

Questa autonomia ci ha permesso di adattarci nel tempo, senza dover sottostare a schemi predefiniti. Certo, comporta anche delle sfide: a volte è difficile coordinarsi, altre volte servirebbero più risorse per ampliare le attività. Ma finora è stata la scelta che ci ha permesso di rimanere fedeli alla nostra identità.

Stecca 3.0: i partner.

Mario Flavio Benini. Quali erano i servizi e le attività inizialmente previsti per Stecca 3.0? Come si sono evoluti nel tempo in base alle necessità del territorio e alla trasformazione della comunità locale? Quali nuovi servizi sono stati introdotti e quali, invece, sono cambiati o scomparsi nel corso degli anni?

Giampaolo Artoni. Stecca 3.0 è un’associazione di associazioni, una formula piuttosto rara in Italia. Tra i soci attuali ci sono realtà come +bcBRIChECOAIAB LombardiaArchitetti Senza Frontiere ItaliaNoiBRERA e Legambiente.

Il direttivo è composto da Lidia PezzoliCecilia Medici (+bc), Giulia Cantaluppi (Temporiuso), Isabella Inti (Stecca 3.0, Temporiuso – presidente) e Roberta Mastropirro (ASF – Architetti Senza Frontiere Italia). Nel tempo, alcuni membri storici hanno lasciato, ma abbiamo mantenuto una sezione d’onore per chi ha ricoperto ruoli di presidenza o ha dato contributi significativi.

Oltre ai soci, ospitiamo diverse realtà che spaziano dalle attività per bambini alle scuole di musica. Ad esempio, la Scuola di Capoeira, precedentemente situata in via della Pergola, si è trasferita qui dopo aver perso la sede. Collaboriamo anche con Metti una sera in Stecca, un gruppo teatrale, e ospitiamo due cori.

In passato, abbiamo lavorato con Arti Possibili, un’associazione che opera con persone con problemi psichici, promuovendo l’inclusione attraverso l’arte. Insieme abbiamo organizzato mostre e corsi in collaborazione con BRIChECO.

Lidia Pezzoli. In BRIChECO collaboriamo trasversalmente con tutte le realtà presenti. Spesso le associazioni ci chiedono di organizzare laboratori o attività congiunte, e siamo sempre disponibili a supportarle.

Giampaolo Artoni. Le collaborazioni spesso si intrecciano in modo naturale. Un esempio è NoiBRERA, un’associazione focalizzata sulle arti figurative, che ha iniziato a collaborare con il gruppo teatrale, creando sinergie interessanti.

Un’esperienza significativa è stata l’accoglienza di circa 120 bambini della comunità cristiano-copta egiziana, che necessitavano di spazi per corsi di arabo durante i fine settimana. Quando la comunità musulmana ha appreso di questa iniziativa, si è unita, portando il numero di bambini a oltre 100, tutti impegnati in attività educative nei nostri spazi.

Abbiamo anche collaborato con VITALITY, un’associazione guidata da Matteo Matteini, che ha sviluppato progetti per migranti africani, come la produzione e l’importazione di mango essiccato direttamente dall’Africa.

Un’altra iniziativa ha coinvolto donne africane nella creazione di una lavanderia e di un ristorante, offrendo workshop di cucina.

Abbiamo persino ospitato giovani cinesi che traducevano le canzoni di Fabrizio De André in cinese, vendendo poi i loro dischi in Cina. Questa collaborazione ha mostrato un volto diverso della comunità cinese a Milano, andando oltre gli stereotipi legati alla zona di Paolo Sarpi.

Il modello di falegnameria sociale adottato da BRIChECO e la sua evoluzione.

Mario Flavio Benini. Le falegnamerie sociali possono seguire modelli differenti in base ai destinatari, agli obiettivi e alle modalità operative. Alcune realtà si concentrano sulla formazione e sul reinserimento lavorativo di persone in difficoltà, altre sulla produzione artigianale come forma di autosostentamento, mentre altre ancora promuovono la sostenibilità ambientale attraverso il riuso dei materiali. Qual è il modello adottato da BRIChECO e quali sono stati i principali fattori che hanno guidato questa scelta? In che modo il progetto si è evoluto per rispondere meglio alle esigenze del territorio? Avete modificato le strategie operative o ampliato i destinatari delle attività per adattarvi ai bisogni emergenti della comunità?

Giampaolo Artoni. L’idea è nata in modo molto semplice, frutto della mia esperienza con la Stecca. All’epoca c’era Controprogetto, un collettivo di designer con una falegnameria che lavorava il legno di recupero. Un bel progetto, ma con una mentalità un po’ chiusa, molto concentrata sul design.

Durante il confronto sul grande progetto Porta Nuova, una volta raggiunto l’accordo sui nuovi spazi che avrebbero sostituito la vecchia Stecca, ci siamo interrogati su quale direzione prendere: mantenere l’idea di un laboratorio di falegnameria orientato al design o sviluppare un modello diverso. La visione iniziale non prevedeva una falegnameria sociale, ma piuttosto uno spazio legato al design, pensato per ospitare eventi e aperitivi. Un’impostazione completamente diversa dalla nostra.

A quel punto ho parlato con Legambiente, dove ero ancora in direzione, e ho detto: Perché non facciamo una falegnameria sociale, con un’impronta più aperta? Alcuni hanno detto sì, altri hanno preso strade diverse. Alla fine, siamo rimasti noi. L’idea era chiara: creare uno spazio dove le persone potessero lavorare con le mani, rimettersi in gioco, imparare qualcosa di nuovo.

C’era anche un’altra convinzione: la manualità “aggiusta le persone”. Lo dico sempre: qui non aggiustiamo solo armadietti, aggiustiamo persone.Stecca 3.0 ha sostenuto il progetto, serviva una falegnameria aperta a tutti. Così è nata BRIChECO.

Abbiamo iniziato con quello che avevamo: strumenti recuperati dalle cantine, qualche tavola di legno di scarto, e ci siamo messi al lavoro. Fin dall’inizio, Stecca 3.0 aveva l’idea di aprire una serie di officine: la ciclofficina, che aveva già una sua storia, l’officina del legno con noi, quella meccanica e l’officina del cibo.

Poi, a un certo punto, è arrivata Lidia.

Lidia Pezzoli. Così è iniziata la mia avventura con Stecca 3.0. Era il 2012, io tornavo dalla Germania, dove avevo vissuto qualche anno, e cercavo un posto dove fare falegnameria.

Vivevo in Via Ugo Bassi, in una casa che cadeva a pezzi. Ero l’unica italiana in un condominio di stranieri. Poi è arrivata la grande operazione di rinnovamento del quartiere, che io ho vissuto da affittuaria.

La proprietà ha deciso di vendere, ma solo agli italiani. Ricordo ancora un mio vicino, un imprenditore edile straniero, che voleva comprare un appartamento. Niente da fare, non gliel’hanno venduto. Hanno fatto pulizia: via tutti gli inquilini, ristrutturato tutto e venduto a prezzi da capogiro.

A quel punto, ho dovuto cercarmi un nuovo spazio per lavorare. Restauravo mobili e avevo un laboratorio a Loreto, ma mi serviva qualcosa di diverso. Mi hanno parlato di Stecca 3.0 e della falegnameria, così sono venuta a vedere.

Sono arrivata un po’ per caso, volevo imparare. Ma all’inizio, più che una falegnameria, era un magazzino di attrezzi. Un po’ caotico, niente orari fissi. Apriva quando capitava, chiudeva senza preavviso. Un po’ anarchico, ma proprio questo lo rendeva speciale.

Ho iniziato a frequentarlo, ho conosciuto Giampaolo, che era uno dei soci fondatori, e mi sono accorta che non c’era una vera organizzazione. Il sabato arrivavo e trovavo chiuso, perché il volontario di turno non si presentava. Dicevo sempre: il volontariato è volontario, ma è comunque un impegno. Alla fine ho detto: Se volete, mi metto io a gestire le aperture.

Ho iniziato con Gigi Molinari, un altro dei soci fondatori. Lui era un pensionato con tanto tempo libero e una gran voglia di fare. Io, invece, non sapevo niente di falegnameria, ho imparato qui, facendo.

All’inizio mettevo i chiodi, adesso se vedo un chiodo sorrido. Sono cresciuta con il posto. Poi, piano piano, ci siamo organizzati meglio, anche grazie alle attrezzature. Abbiamo comprato una piccola sega circolare da banco, una sega a nastro, tutto con donazioni e qualche lavoretto per il Comune. Senza bandi, senza finanziamenti pubblici.

Giampaolo Artoni. Poi c’è stata la svolta dei corsi di falegnameria.

La gente ci chiedeva: Perché non fate corsi? All’inizio non era nei piani, noi accoglievamo le persone e gli insegnavamo quello che sapevamo. Poi ci siamo resi conto che poteva essere un modo per far crescere il progetto e sostenerlo.

Lidia Pezzoli. Abbiamo iniziato a cercare un falegname che avesse voglia di insegnare. Non è facile trovarne uno con la mentalità giusta. In Brianza, per dire, non ti guardano nemmeno in faccia. Noi cercavamo qualcuno con empatia, voglia di condividere.

E così è arrivato Andrea Costantinoun falegname straordinario. La domenica andava nei campi Rom a insegnare falegnameria ai ragazzi. Faceva volontariato ovunque. È stato lui a portarci le prime seghe giapponesi, gli scalpelli seri. Quando cambiava attrezzi, invece di venderli, li donava a noi.

Con lui abbiamo fatto corsi ogni mese. E la cosa bella è che tanti corsisti, alla fine, restavano. si iscrivevano come soci, tornavano, creavano. Alcuni hanno anche avviato attività proprie.

Ad esempio, è nata qui un’azienda che realizza oggetti con gli skateboard usati. Ora sono cresciuti, ma hanno iniziato in falegnameria da noi.

BRIChECO è sempre stata un’officina di idee. Qui arrivava chiunque: la signora che voleva un tavolino per il terrazzo, il ragazzo che cercava di costruire il suo primo prototipo di skateboard, chi voleva riparare un vecchio mobile di famiglia. Tutti trovavano un posto, qualcuno che li aiutava.

Giampaolo Artoni. Questo è il cuore di BRIChECO. Non è solo una falegnameria.
È uno spazio di possibilità. Qui dentro non si è mai lavorato solo il legno, si sono costruiti percorsi di vita.

Formazione aperta e accessibilità ai corsi.

Mario Flavio BeniniOltre ai percorsi di inclusione sociale, BRIChECO offre corsi di falegnameria accessibili a diverse tipologie di utenti, dai principianti ai più esperti.
Come vengono strutturati questi corsi e quali metodologie utilizzate? In che modo l’attività formativa contribuisce alla sostenibilità economica del progetto? Avete riscontrato un interesse crescente per la falegnameria da parte di specifiche fasce della popolazione?

Giampaolo Artoni. Noi contiamo circa 150 soci all’anno, anche se nel periodo dell’Expo abbiamo toccato i 300 iscritti. Comunque, molte persone arrivano senza necessariamente iscriversi a un corso.

Lidia Pezzoli. I corsi avvicinano chi non se la sente di buttarsi subito in falegnameria senza esperienza. Però non è che dai corsi escano tantissimi soci. Forse una persona a corso decide di restare. E se pensi che abbiamo 150 soci… è una piccola percentuale.

Alcuni, però, prendono una direzione completamente diversa. C’è chi, dopo aver frequentato i corsi, ha deciso di aprire una propria falegnameria. E poi c’è il tema economico: i corsi sono stati una delle poche entrate che ci hanno permesso di acquistare materiali, attrezzature e coprire le spese dell’affitto.

BRIChECO si regge sulla comunità dei soci, non siamo noi che facciamo i corsi e spariamo. Qui c’è un gruppo di persone che tiene in piedi la falegnameria.

Negli anni, la comunità ha avuto degli alti e bassi. Dopo il Covid, è stato difficile ricostruire il senso di appartenenza. Ho riguardato di recente le foto dal 2014 a oggi e ho notato che nel 2016-2017 c’era davvero tanta partecipazione. Poi a un certo punto c’è un buco… e ho pensato: ah, il Covid.

Durante la pandemia si è spezzata quella continuità che ci faceva ritrovare, quella convivialità che prima era spontanea. Fino a pochi anni fa, organizzavamo grigliate con gli scarti di falegnameria (sperando fossero non verniciati!), c’erano le feste con i soci, era un po’ un’eredità della vecchia Stecca. Poi, dopo il lockdown, è cambiato tutto.

Abbiamo perso pezzi importanti del gruppo. Per un periodo, la gestione della falegnameria era sulle spalle di pochissimi, di fatto io e un’altra ragazza per 4-5 anni.

Quando il mondo ha riaperto, mi sono chiesta: e adesso?

Perché era complicato, tutto diventato digitale: prenotazioni online, comunicazione sui social… io sono un po’ alla Flintstones, odio la comunicazione digitale. Tant’è che ancora cerco un baldo giovane che voglia gestire Instagram, perché proprio non lo sopporto.

Siamo sempre stati sociali nel senso vero del termine, nel laboratorio, tra le persone. Ma per tutta la parte digitale… che la faccia qualcun altro!

Poco alla volta, abbiamo ricostruito un po’ di struttura. Abbiamo ripreso con le prenotazioni, gestito tutto il flusso che si era scombinato, e la comunità è tornata a ricomporsi.

Giampaolo Artoni. Ed è proprio questo il punto. Se non c’è una comunità attiva, si sente. Se c’è solo una persona che gestisce tutto e fa quello per lavoro, non è più un’associazione.

Ci sono tante realtà nate con l’idea di essere spazi di comunità, poi nel tempo si sono trasformate in altro. Ci sono spazi che sembrano pubblici e partecipati, ma che in realtà sono solo ben gestiti da una direzione unica.

E la differenza, per chi è dentro, si sente eccome.

Lidia Pezzoli. La falegnameria non è aperta tutti i giorni, ma abbiamo creato una struttura che ci permette di mantenerla viva.

Poi, nel tempo, sono arrivate tante altre richieste. Fare corsi per i ragazzi adolescenti? Come dire di no? È troppo importante.

Abbiamo attivato laboratori con Farsi Prossimo e con progetti dedicati ai minori stranieri non accompagnati. Questi percorsi non potevamo non farli. Sono diventati parte della nostra identità.

E così, la falegnameria non è solo un luogo di lavoro manuale. È un posto che risponde ai bisogni di chi lo attraversa.

Il legno come strumento pedagogico e sociale.

Mario Flavio Benini. Nel vostro manifesto descrivete il legno come un materiale “vivo”, capace di comunicare ed entrare in relazione con chi lo lavora.
Qual è il valore pedagogico e sociale della falegnameria? Quali competenze tecniche e trasversali sviluppano le persone che partecipano ai vostri laboratori? In che modo l’artigianato può diventare uno strumento di crescita personale e professionale?

Giampaolo Artoni. Vedi, la cosa che ha sempre funzionato qui dentro è che non ci sono strati, non c’è gerarchia, ed è uno spazio libero. Nessuno ti mette in una scatoletta o ti dice cosa fare o come farlo. Questa assenza di strutture rigide libera un’energia enorme.

Lidia Pezzoli. Certo, è un posto che ha sempre avuto un livello un po’ più alto rispetto ad altre realtà di strada. Non è mai stato un centro di accoglienza per persone in difficoltà estrema, ma un luogo per chi aveva voglia di sperimentare, di imparare, di costruire qualcosa.

Noi abbiamo sempre cercato di “non buttare via le persone”, di tirare fuori il meglio anche da chi non aveva niente tra le mani. Capita spesso che arrivi qualcuno senza un’idea chiara, ma con la voglia di fare. Una volta è arrivato un ragazzo dicendo: “Voglio fare il falegname, voglio andare a Edimburgo a lavorare in un laboratorio.” Non aveva mai toccato un pezzo di legno in vita sua, ma aveva spinta e determinazione.

Poi ci sono quelli che vengono qui per risolvere un problema pratico, come la signora che vuole costruirsi un tavolino per il terrazzo. O chi non può permettersi di comprare mobili e si mette a recuperarli e restaurarli.

E poi ci sono quelli che trasformano una passione in qualcosa di più, come un ragazzo di Trento che lavora qui a Milano. È un restauratore di chitarre d’epoca. Ogni volta arriva con una chitarra e passa settimane a sistemarla, poi la suona. Abbiamo persino organizzato qualche piccolo concerto in falegnameria.

BRIChECO è un contenitore di storie, perché ogni persona che arriva porta qualcosa di suo. Ti faccio un altro esempio: c’era un signore che passava spesso davanti alla falegnameria. Vestito in modo inappuntabile, con la moglie altrettanto precisa. A un certo punto ha deciso di iscriversi, voleva costruire alcuni contenitori in legno per sistemare le sue cose. Poi parlando, abbiamo scoperto che era stato uno dei più grandi critici cinematografici in Italia.

E poi ci sono le storie più delicate. Ricordo un padre che ha frequentato la falegnameria con suo figlio per un mese. Il ragazzo aveva delle difficoltà, ma non erano riconosciute ufficialmente dal Ministero, quindi dalla scuola non riceveva alcun supporto. Il padre faceva di tutto per aiutarlo, ma spesso vedevo nei suoi occhi la frustrazione di chi si scontra con un sistema che non offre alternative.

Ho lavorato anche nelle scuole e so quanto sia difficile, per alcuni genitori, accettare che il proprio figlio abbia bisogno di un sostegno in più. Finché sono piccoli, vanno avanti, ma quando crescono e il supporto manca, il rischio è che si perdano.

Qui, almeno per un mese, hanno trovato uno spazio dove fare assieme diventa ascolto e prendersi cura.

E poi c’è tutta la parte di laboratori con i ragazzi inviati da Farsi Prossimo, il consorzio che lavora con Caritas e con tanti altri centri diurni. Collaboriamo anche con la UONPIA (Unità Operativa di Neuropsichiatria per l’Infanzia e l’Adolescenza).

Una volta sono andata al Policlinico e si è ritrovata in una casetta dove tutto era gestito da Farsi Prossimo. Lo Stato appalta il supporto ai minori con difficoltà alle cooperative, perché il sistema interno non regge. E così è nata questa collaborazione, lavorando con adolescenti con problemi sociali o psicologici.

Abbiamo avuto ragazzi completamente chiusi in sé stessi, che non parlavano con nessuno. Altri iperattivi, che non stavano fermi un secondo. E ci siamo chiesti: come si fa a far fare falegnameria a questi ragazzi?

Non è stato semplice. In falegnameria devi fare attenzione, usare strumenti pericolosi, rispettare le regole. Ma è anche una sfida che li fa crescere.

All’inizio gli dico: “Ok, metti gli occhiali protettivi. Attento alla sega circolare, stai concentrato.” E gli do fiducia. Questo cambia tutto. Perché nessuno gli ha mai dato fiducia prima.

C’erano ragazzi di ogni tipo: uno che veniva dalla comunità, un altro dalla casa famiglia, un altro ancora che viveva con la madre da solo. All’inizio si guardavano storto, poi piano piano hanno iniziato a lavorare insieme.

Un percorso magnifico che ha avuto talmente tanto successo che ci hanno chiesto di fare corsi anche per i minori stranieri non accompagnati.

Qui non si parla più solo di laboratori manuali. Qui diamo strumenti di crescita.

Abbiamo fatto un corso tecnica di orientamento al lavoro per ragazzi stranieri. Alcuni erano minorenni, altri poco più grandi. La cosa sorprendente? Erano bravissimi con i macchinari, precisi e attenti.

La falegnameria insegna pazienza, metodo, precisione. Se prendi una sega a mano e inizi a tagliare storto, il legno non ti perdona. Ma se ti fermi, ti concentri e impari il gesto giusto, ti accorgi che ce la puoi fare.

E questa è una grande metafora della vita.

Giampaolo Artoni. Un discorso a parte merita l’interesse per il lavoro e il reddito. Molti ragazzi sono passati da BRIChECO senza alcuna esperienza e, dopo un percorso qui, hanno intrapreso una carriera nella falegnameria.

Paolo Luz, ad esempio, un giovane dal carattere riservato e dall’estetica rasta, è approdato in falegnameria e ha trascorso qui un lungo periodo. Poi è partito per l’Inghilterra, dove ha frequentato un corso di costruzioni nautiche, e oggi è tra i più apprezzati ebanisti specializzati in deck in legno per imbarcazioni.
Anche Jude, un nostro socio originario delle Seychelles, che ha fatto parte del nostro staff dal 2016 al 2019, ha intrapreso un percorso simile: dopo aver acquisito competenze in falegnameria presso BRIChECO, è tornato nel suo paese, dove ha trasformato l’esperienza maturata qui in un’attività indipendente.
Un altro nostro socio, insieme alla sua famiglia, ha scelto di lasciare Milano per trasferirsi in Valle d’Aosta, dove oggi lavora stabilmente in una falegnameria locale.
Molti di quelli che hanno iniziato con noi erano completamente a digiuno di qualsiasi esperienza artigianale, ma qui hanno trovato un ambiente in cui sperimentare, imparare e, in alcuni casi, trasformare questa esperienza in un vero e proprio lavoro.
La falegnameria non è solo un luogo dove si costruiscono oggetti, ma uno spazio di crescita, orientamento e opportunità.

Collaborazioni e reti con altre realtà artigianali e sociali.

Mario Flavio Benini. Molte falegnamerie sociali, in Italia e all’estero, lavorano in rete con altre realtà affini o con enti pubblici e privati, creando sinergie che rafforzano l’impatto sociale del progetto.
BRIChECO ha attivato collaborazioni con altre falegnamerie sociali o organizzazioni che promuovono inclusione e artigianato? Come queste partnership arricchiscono il vostro progetto e quali benefici reciproci avete riscontrato nel fare rete con altre realtà simili?

Lidia Pezzoli. Ti posso dire che in Italia le falegnamerie sociali non sono molte e ognuna ha un suo approccio specifico. Abbiamo provato a costruire una rete e ci siamo mossi concretamente.

Abbiamo organizzato un tour con Parallelo Lab di Castellanza, Fadabrav di Novara e Gallab, che si trova nel quartiere Gallaratese a Milano. L’idea era confrontarci, condividere esperienze, capire se si poteva creare qualcosa di più strutturato insieme.

È stato un tentativo interessante, ma alla fine ognuno è rimasto focalizzato sulla propria realtà. Non è diventato un obiettivo prioritario.

Giampaolo Artoni. Per come siamo strutturati noi, è difficile trovare modelli simili con cui collaborare stabilmente. Noi siamo uno spazio aperto: chiunque può entrare nei giorni di apertura – il mercoledì pomeriggio, il mercoledì sera e il sabato – e mettersi a lavorare.

Molti altri spazi hanno regole di accesso diverse: c’è chi fa pagare un contributo giornaliero, chi limita l’uso delle macchine solo a chi partecipa ai corsi, chi lavora esclusivamente con determinate categorie, come migranti o persone con disabilità. Noi abbiamo sempre mantenuto un’impostazione free, senza vincoli rigidi.

Se entri qui un giorno qualsiasi, trovi un mondo in movimento: uno che sta costruendo una sedia, un altro che lavora a un cassetto con giunzioni a coda di rondine, un ragazzo che sta incidendo un medaglione, qualcuno che sta costruendo una casetta per gli uccelli e un altro che sta realizzando un mobile su misura per casa sua.

È un mix spontaneo, ognuno porta dentro un progetto e si lavora fianco a fianco.

Lidia Pezzoli. Abbiamo avuto collaborazioni anche con Arimo, una cooperativa sociale che ha una falegnameria ben attrezzata, ma con un modello completamente diverso dal nostro. Loro lavorano soprattutto su percorsi di inserimento lavorativo per giovani in difficoltà.

A suo tempo, Giampaolo aveva anche elaborato un progetto dettagliato per l’assessore al Welfare Lamberto Bertolè, che tra l’altro è stato il fondatore di Arimo. L’idea era di integrare la nostra esperienza artigianale con il loro lavoro di orientamento al lavoro, ma il progetto non è andato avanti. Loro seguono percorsi più strutturati, con obiettivi ben definiti e tempi precisi.

Prima di avere la loro falegnameria, quelli di Arimo venivano da noi a fare i corsi. Gli abbiamo prestato il nostro spazio per un po’, finché non hanno messo in piedi il loro laboratorio. È stato proprio Bertolè a voler aprire una falegnameria interna, perché serviva un luogo dove costruire mobili per gli appartamenti destinati alle persone fragili.

Il loro modello è chiaro: prendono uno o due ragazzi alla volta, li seguono per sei mesi e poi li aiutano a trovare una loro strada.

Giampaolo Artoni. È un’esperienza interessante, l’ho seguita con attenzione. Non è quello che facciamo noi, perché noi non strutturiamo percorsi formativi rigidi, ma penso sia fondamentale che ci siano realtà che lavorano in quella direzione.

Noi ci siamo sempre mossi in modo più informale, lasciando spazio alle persone per costruire il proprio percorso. Però è bello sapere che ci sono progetti diversi che, in qualche modo, si completano.

Il ruolo del Kiosk for Reciprocity nell’economia di prossimità.

Mario Flavio Benini. Kiosk for Reciprocity è nato durante la Design Week 2024 come progetto itinerante per promuovere lo scambio e il dibattito sull’economia solidale e il welfare collaborativo. L’iniziativa è stata curata da Temporiuso in collaborazione con CollectiveWorks e ConstructLab — due realtà europee, rispettivamente olandese e tedesca, attive nel dibattito sui temi della convivialità e dello spazio pubblico — e con il contributo di BRIChECO, la falegnameria sociale di Stecca 3.
Ci potete raccontare come è nato questo progetto, quali sono stati gli obiettivi principali e in che modo ha contribuito a rafforzare le connessioni tra Stecca 3.0 e il territorio, promuovendo nuove forme di collaborazione e partecipazione?

Giulia Cantaluppi. Il Kiosk for Reciprocity nasce come strumento per creare spazio pubblico, per facilitare lo scambio e l’interazione tra realtà diverse, e si inserisce in un processo di riconoscimento della rete Spazi Ibridi Socioculturali di Milano.

Durante la pandemia, molte realtà come la nostra si sono trovate in una condizione di fragilità: dovevamo chiudere come tutti, ma senza alcun riconoscimento istituzionale, senza tutele, senza un inquadramento preciso che ci permettesse di accedere a forme di sostegno. Da questa crisi è nata l’urgenza di fare rete, di capire chi eravamo e quale fosse il nostro ruolo nella città. Da lì è partito un confronto con altre realtà simili, sia a livello locale che internazionale.

A Milano abbiamo avviato una mappatura di questi spazi, per dare visibilità a luoghi che, pur non avendo una categoria ben definita, svolgono un ruolo fondamentale per la città: offrono accesso gratuito, permettono a chiunque di proporre attività, creano comunità in modo spontaneo. Da qui è nato un dialogo con il Comune, che ha portato alla creazione di un albo degli spazi ibridi, un primo riconoscimento ufficiale di questa realtà.

Parallelamente, ci siamo connessi con reti che in altre città stanno affrontando sfide simili. In Italia, ad esempio, con Lo Stato dei Luoghi, un network che lavora sugli spazi di rigenerazione a base culturale, cercando di creare nuove forme di partecipazione e di gestione condivisa. A Berlino, abbiamo intercettato Urbane Praxis, una rete di spazi sociali e culturali che si è attivata per contrastare le dinamiche del turbocapitalismo immobiliare, proponendo modelli di utilizzo del territorio basati su inclusione e accessibilità. E in Francia, il confronto è stato con il movimento Tiers-Lieux, il cui nome si ispira al concetto di “terzo luogo” di Gilles Clément e oggi raccoglie più di 150 spazi in tutto il paese, offrendo modelli di gestione ibrida tra cultura, artigianato e innovazione sociale.

Questa rete di connessioni ci ha portato anche a un progetto editoriale: stiamo lavorando a un libro sugli spazi ibridi socioculturali, che raccoglierà queste esperienze e dovrebbe uscire a maggio 2025.

E il Kiosk for Reciprocity si inserisce proprio in questo percorso. È un dispositivo mobile che porta queste riflessioni fuori da Stecca 3.0, in diversi contesti della città, per alimentare il dibattito su economia solidale, modelli di prossimità e nuove pratiche di condivisione. L’idea è che possa diventare anche un punto di aggregazione permanente, una sorta di baretto sociale che contribuisca alla sostenibilità di Stecca 3.0 e rafforzi le relazioni con la comunità.

Prospettive future e sviluppo di BRIChECO.

Mario Flavio Benini. BRIChECO è attivo da oltre un decennio e ha attraversato diverse fasi di crescita e trasformazione.
Quali sono i vostri obiettivi futuri? Avete in programma nuove collaborazioni, espansioni o progetti per rafforzare l’impatto sociale della falegnameria? In che direzione pensate di evolvere nei prossimi anni per rispondere a nuove sfide e opportunità?

Giampaolo Artoni. Per me è difficile pensare al futuro senza prima affrontare una questione fondamentale: il rinnovo del contratto. Tra non molto dovremo rinegoziarlo e sappiamo bene che questo spazio è decisamente molto appetibile. Bisognerà difenderlo con i denti e con l’esperienza che abbiamo costruito in questi 30 anni. È una preoccupazione reale, non solo per noi, ma per tutta la rete che tiene in piedi Stecca 3.0.

Noi continuiamo a fare la nostra parte, come una rotellina in un ingranaggio più grande, sapendo che quello che facciamo qui ha un valore aggiunto. Perché, altrimenti, questo posto sarebbe solo un contenitore culturale come tanti. Il nostro obiettivo è sostenere sempre meglio questo spazio, far sì che continui a esistere e a funzionare come luogo di inclusione, di condivisione e di crescita per la comunità.

Lidia Pezzoli. Io, invece, ho un sogno: un BRIChECO per bambini. Mi piacerebbe creare un “BRIChECHINO”, un laboratorio di falegnameria pensato per i più piccoli. All’estero queste esperienze esistono e funzionano benissimo, ma qui in Italia sono ancora pochissime. I bambini hanno un’incredibile capacità di apprendere attraverso le mani, di sperimentare e scoprire facendo. Sarebbe bello dare loro uno spazio dedicato, dove possano avvicinarsi all’artigianato, imparare a costruire e, perché no, anche a prendersi cura degli oggetti invece di buttarli via.

Non so se sarà possibile realizzarlo a breve, ma è qualcosa a cui tengo molto e che mi piacerebbe vedere nascere qui, dentro Stecca 3.0, come naturale evoluzione di quello che già facciamo.


  1. Casaloca è stata uno spazio autogestito molto attivo nella zona Nord di Milano, che univa attività sociali e culturali. Lo sgombero nel 2024 ha segnato la fine di uno degli ultimi spazi comunitari non istituzionalizzati. ↩︎
  2. Pergola, ovvero lo Spazio Pergola, era un luogo di aggregazione culturale e sportiva a Milano, particolarmente noto per le attività legate alla danza e alle arti marziali. Ha subito chiusure e trasformazioni negli anni. ↩︎
  3. Il Torchiera è uno degli ultimi centri sociali autogestiti di Milano, situato in un’ex cascina. La sua sopravvivenza è sempre stata a rischio, tra sgomberi e difficoltà strutturali. L’SMS – Spazio di Mutuo Soccorso in Piazza Stuparic è un progetto più strutturato, con attività di supporto alla comunità, ma con una gestione più orientata all’autorganizzazione stabile. ↩︎
  4. I Giardini Mosso, nell’area tra Via Padova e Via Mosso, sono nati come spazio di aggregazione con un forte impatto sociale. Negli ultimi anni, la componente commerciale è diventata sempre più rilevante, con ristoranti e attività che hanno modificato la natura iniziale del progetto. ↩︎

BRIChECO e Stecca 3.0
web: https://bricheco.org, http://www.lastecca.org
youtube: https://bit.ly/432Hxtl
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instagram: https://www.instagram.com/falegnameria_bricheco/

4 risposte a “BRIChECO e Stecca 3.0: una falegnameria sociale in uno spazio ibrido socioculturale nel cuore di Milano.”

  1. […] di ristorazione solidale delle Fonderie Ozanam a Torino, da spazi come K-alma a Roma ai milanesi Stecca 3.0 e bar per senza dimora Il Girevole sino alla rete di Avvocato di Strada – mostrando come la cura […]

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  2. […] Banca delle Visite, Ciclofficina Sociale di Cormano, Avvocato di Strada, Il Girevole, K-Alma, BRIChECO e Stecca 3.0, Case di Quartiere, Portinerie di Comunità, DAR=Casa, Albergo Etico – che non sono semplici […]

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  3. […] di Comunità, e le Case di Quartiere di Torino, le falegnamerie sociali K‑Alma, e BRIChECO, le Fonderie Ozanam e la rete Banca delle Visite.L’intervista ad Antonio Mumolo è stata […]

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  4. […] Flavio Benini. Di recente sono stato alla Stecca 3:0 di Milano. Lì stanno cercando di costruire un modello sostenibile di spazio socioculturale […]

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