Povertà sanitaria in Italia: un fenomeno in crescita.
If health is about how we live, then health inequalities are about how we live differently. The real question is: how can we create conditions for people to live lives they have reason to value?.
Michael Marmot, The Health Gap: The Challenge of an Unequal World, Bloomsbury, 2015
Immagini: Banca delle Visite.
Nel 2023, secondo i dati del Banco Farmaceutico, 463.176 persone in Italia si sono trovate in condizioni di povertà sanitaria, ovvero l’incapacità di accedere a cure mediche e farmaci per motivi economici. Tra questi, 102.000 sono minori, rappresentando il 22% del totale. La povertà sanitaria colpisce in modo trasversale cittadini italiani (49%) e stranieri (51%).
La spesa farmaceutica a carico delle famiglie italiane è aumentata del 31,9% tra il 2017 e il 2023, con un incremento di 2,576 miliardi di euro. Nel 2023, l’88,6% della spesa sanitaria privata è stato sostenuto direttamente dalle famiglie, evidenziando un crescente carico economico sul cittadino.
La situazione a Roma: una crisi nella crisi.
Roma presenta una delle situazioni più critiche in Italia per quanto riguarda la povertà sanitaria e l’accesso alle cure per le persone senza dimora. Secondo i dati ISTAT del 2021, nella Capitale vivono oltre 22.000 persone senza fissa dimora, il numero più alto tra le città italiane.
Un’indagine condotta durante la “Notte della Solidarietà” ha rilevato che solo il 9,9% degli homeless che vivono per strada ha avuto accesso ad ambulatori o centri di distribuzione di farmaci, rispetto al 20,2% degli ospiti delle strutture di accoglienza.
Le barriere all’accesso ai servizi sanitari per le persone senza dimora a Roma includono la mancanza di residenza anagrafica, la difficoltà nel dimostrare la permanenza sul territorio e una scarsa informazione sui diritti e le opportunità disponibili.
Perché questa intervista, perché adesso.
Viviamo in un’epoca in cui la parola “universalismo” sembra sempre più lontana dalla realtà quotidiana. Il Servizio Sanitario Nazionale, una delle conquiste più nobili della Repubblica italiana, si trova oggi sotto pressione crescente: liste d’attesa che si allungano, personale carente, prestazioni differite o inaccessibili per milioni di persone. Ma soprattutto, si allarga ogni giorno il divario tra chi può permettersi di curarsi e chi, pur avendone diritto, vi rinuncia per motivi economici, logistici o sociali.
In questo scenario si colloca una delle più interessanti risposte civiche alla povertà sanitaria: la Banca delle Visite. Nata come progetto di solidarietà dal basso, è oggi una realtà strutturata, radicata nel territorio e capace di erogare migliaia di prestazioni mediche gratuite, connettendo donatori, professionisti e cittadini in difficoltà. Non è solo un’iniziativa operativa, ma una proposta culturale: quella di una sanità generativa, mutualistica e partecipativa, dove la cittadinanza non si limita a ricevere, ma si attiva per creare salute condivisa.
Come ha scritto Luigino Bruni, economista civile e tra i maggiori teorici dell’economia del bene civile:
“Le istituzioni civili nascono da un patto tra cittadini che decidono di non delegare tutto allo Stato o al mercato, ma di prendersi cura direttamente, insieme, dei beni comuni. È la forma più antica e più moderna di mutualismo.”
Luigino Bruni, La pubblica felicità, Vita e Pensiero, 2017
Questa intervista fa parte del progetto Commoning, uno spazio in cui raccogliamo storie, visioni e pratiche capaci di generare valore sociale, economico e relazionale. Documentare esperienze come quella della Banca delle Visite significa dare voce a quei percorsi che, nel silenzio delle fragilità quotidiane, costruiscono infrastrutture civiche inclusive, restituendo dignità e accesso ai diritti fondamentali.
Seguendo il filo del commoning, riconosciamo nella cooperazione tra cittadini, enti pubblici e soggetti del Terzo Settore non solo un metodo di lavoro, ma una visione politica fondata su corresponsabilità, mutualità e costruzione di beni comuni. È in questa prospettiva che abbiamo raccontato le Case di Quartiere di Torino, le Portinerie di Comunità, e oggi approfondiamo un’iniziativa che porta la stessa logica di prossimità nel cuore della cura e della salute.
L’intervista a Michela Dominicis, presidente della Fondazione Banca delle Visite ETS, vuole essere un’occasione per approfondire l’origine, la struttura e la visione di lungo termine del progetto. Ma soprattutto per porre domande che interrogano il nostro tempo, a partire da un’urgenza concreta: come si costruisce un’infrastruttura solidale in un Paese che fatica a garantire i diritti fondamentali? Qual è il ruolo della fiducia, della prossimità, della responsabilità condivisa nella cura? E ancora: come si può immaginare un nuovo welfare, partendo da ciò che già esiste e funziona nei territori, dentro e oltre le istituzioni?
Con questo spirito, iniziamo il nostro percorso. Il racconto non sarà solo una cronaca, ma un’ispirazione per chi crede che la salute non sia un lusso, ma un bene comune.

Intervista a Michela Dominicis – Presidente di Banca delle Visite ETS.
L’origine del progetto.
Ogni progetto sociale nasce da un’urgenza percepita, da un incontro, da un bisogno che diventa evidente e non può più essere ignorato. La Banca delle Visite si è affermata in pochi anni come un’infrastruttura civica capace di restituire dignità attraverso il diritto alla salute. Comprendere la genesi della Banca delle Visite significa anche cogliere la visione di società che l’ha ispirata: una società in cui il diritto alla salute sia realmente uguale per tutti, e in cui nessuno debba rinunciare a curarsi a causa di difficoltà economiche o condizioni di fragilità. Un progetto nato nel solco dei valori del mutuo soccorso, per sostenere chi resta indietro e riaffermare la salute come bene comune.
In questo capitolo vogliamo ricostruire il momento originario e le scelte che ne sono seguite, individuando quali domande hanno guidato i primi passi e come si è costruito il primo nucleo operativo della rete.
Mario Flavio Benini. Da dove nasce l’idea della Banca delle Visite?
Michela Dominicis. La Banca delle Visite nasce da un’idea molto concreta, radicata nel DNA di una mutua sanitaria: la Mutua MBA. È da lì, dai valori del mutuo soccorso, che si sviluppa il nostro progetto. L’idea era ed è quella di aiutare anche chi, pur avendo diritto alla salute, non riesce ad accedervi nei tempi e nei modi adeguati. E allora ci siamo chiesti: come possiamo agire in modo semplice, diretto, solidale?
In Italia, oggi, possiamo individuare tre grandi categorie di persone rispetto all’accesso alle cure. C’è chi ha mezzi economici sufficienti: se ha bisogno di una visita, chiama un centro medico privato, paga e la fa. Non aspetta. Non ha bisogno di CUP, né di tempi di attesa. Questo è il primo gruppo, tutto sommato fortunato.
Poi c’è chi ha una copertura sanitaria integrativa, attraverso una mutua o un’assicurazione, magari fornita come benefit da un contratto di lavoro. Anche in questo caso, la persona sa che può fare un esame, una visita, con rimborso o presa in carico diretta. È una categoria comunque tutelata: non sempre paga tutto, spesso ha delle franchigie minime, ma riesce ad accedere alle cure con rapidità e continuità.
E infine, c’è la terza categoria, che è quella più fragile: chi non ha una copertura sanitaria e non ha le risorse per accedere al privato. In teoria può contare sul Servizio Sanitario Nazionale, ma in pratica spesso si trova a dover attendere anche mesi per una visita specialistica. A quel punto, molte persone rinunciano del tutto a curarsi.
Ed è a questa terza categoria che ci rivolgiamo.
Tengo molto a dire una cosa: noi non siamo in competizione con il Servizio Sanitario Nazionale. Al contrario. Come tutte le realtà del Terzo Settore, offriamo un servizio integrativo, civico, mutualistico. Il nostro è un pezzo di welfare generativo. Alle persone più bisognose, come la Caritas o altre realtà del terzo settore, donano una coperta o un pasto caldo, noi doniamo una prestazione sanitaria, nascendo appunto da una realtà che opera nel mondo della tutela della salute, essendo purtroppo uno dei beni più urgenti e meno visibili della povertà contemporanea.
Come dicevo, la nostra Fondazione nasce,, su iniziativa della Mutua MBA, una realtà che si è sempre occupata di sanità integrativa. Durante la pandemia, per esempio, la mutua ha erogato sussidi straordinari per i soci che avevano perso il lavoro o che non riuscivano a sostenere le spese mediche. Proprio come avveniva nell’Ottocento con le prime società di mutuo soccorso: ci si univa, si metteva una quota, e in cambio si riceveva assistenza. Quelle società erano diffuse in ogni categoria sociale: sacerdoti, donne, agricoltori, artigiani. Nascevano spontaneamente, prima ancora che esistesse un sistema sanitario nazionale.
A Formello, vicino a Roma, dove abbiamo la nostra sede, c’è anche il Museo del mutuo soccorso: raccoglie oltre 700 reperti storici di più di 400 società mutualistiche italiane, incluse quelle fondate dagli emigrati italiani all’estero. Ci sono statuti, libretti, spille, fasce, testimonianze straordinarie. È da quel patrimonio che nasce la mission della Fondazione: l’idea di un mutualismo moderno, adattato ai bisogni di oggi, ma fedele allo spirito originario.
Con la Banca delle Visite abbiamo pensato a qualcosa di simile al “caffè sospeso” napoletano: una visita sospesa, lasciata pagata da qualcuno, che va a beneficio di chi ne ha bisogno. All’inizio chiedevamo ai medici di mettere a disposizione prestazioni gratuite. Ma ci siamo subito resi conto che non era sufficiente. Un oculista a Roma poteva donarci una visita, ma se la richiesta era per una risonanza magnetica a Torino, quella disponibilità non poteva rispondere al bisogno contingente. Serviva un sistema più flessibile.
E così abbiamo cominciato a raccogliere fondi. La Fondazione si sostiene oggi per circa il 40% grazie ai contributi della mutua e dei soci fondatori in aggiunta ad un supporto pro-bono per alcune attività aziendali: ogni piano sanitario sottoscritto con MBA prevede un piccolo contributo che va direttamente a sostenere il “salvadanaio solidale”. Così, chi si protegge con una mutua aiuta anche chi non può farlo, realizzando concretamente un sistema di solidarietà reciproca.
Il progetto “Banca delle Visite” è nato nel 2017, ma per i primi anni è rimasto quasi silente. Nel 2019, donavamo circa 50 visite all’anno, spesso segnalate da soci della mutua per conoscenti o casi incontrati in parrocchia. Poi è arrivato il Covid, e con esso il blackout delle cure: sono saltate milioni di visite, esami, check-up, anche quelli per bambini oncologici. È stato uno shock. E lì abbiamo capito che il nostro progetto poteva davvero fare la differenza.
Da quel momento è nato uno staff dedicato e abbiamo iniziato un lavoro molto più strutturato.
Dal 2021 a oggi, abbiamo tessuto centinaia di collaborazioni sul territorio, attivato oltre 300 Amici Sostenitori e Point, e stretto protocolli con 135 Comuni, tra cui molti Municipi di Roma. L’obiettivo è semplice: entrare nelle politiche sociali locali, offrire ai servizi sociali e alle associazioni uno strumento in più per aiutare chi non riesce a curarsi.
Un modello di welfare di prossimità prezioso che ha necessariamente bisogno di essere sostenibile e sostenuto: donare una visita specialistica può costare anche 100-150 euro, ma oggi più del 50% delle richieste riguarda esami diagnostici, come risonanze o TAC. Per questo, è stato anche necessario stabilire un tetto massimo di spesa per persona intorno ai 150€, anche se può arrivare a 200-300 in caso di una presa in carico che necessita di più sedute.
In molti casi, cerchiamo di costruire percorsi personalizzati: per esempio, 10 sedute di fisioterapia per un bambino con difficoltà motorie, o un ciclo di logopedia per un disturbo del linguaggio. In questi casi, lavoriamo con le strutture per calmierare i costi, troviamo donatori specifici, mettiamo una parte noi. Il nostro obiettivo è sempre lo stesso: dire “sì” ogni volta che possiamo.
Mario Flavio Benini. Qual è stata la prima reazione del territorio, dei professionisti della sanità, delle istituzioni locali?
Michela Dominicis. Da un lato, devo dire che abbiamo incontrato tantissimi medici che hanno accolto il progetto con entusiasmo. Molti di loro ci hanno detto: “Che bella questa iniziativa! Ma guardate che io, in realtà, già lo faccio”. Cioè, quando si trovano davanti una persona in evidente difficoltà, spesso si mettono la mano sul cuore e quella visita magari non la fanno pagare. Soprattutto nei contesti più piccoli, nei paesi dove ci si conosce, dove il rapporto umano è ancora molto diretto, la solidarietà è già presente, anche se in modo informale.
In questo senso, la Banca delle Visite ha avuto anche il merito di mettere in rete una generosità diffusa, di farla emergere, organizzarla e valorizzarla. Forse è qualcosa che ci appartiene, anche culturalmente, come italiani. C’è un senso civico che esiste, ma ha bisogno di strumenti concreti per esprimersi.
Diverso è il discorso con le strutture polispecialistiche più grandi, dove ovviamente c’è una gestione più formale, e si attiva una classica convenzione, anche perché normalmente questi centri hanno già decine di convenzioni attive – con le forze dell’ordine, con i Ministeri, con grandi aziende. In questi casi, rappresentiamo semplicemente una convenzione in più. Tuttavia, cerchiamo sempre di far passare il nostro messaggio solidale, la richiesta di uno sconto più significativo rispetto a una normale polizza assicurativa, e nella maggior parte dei casi la proposta viene accolta con disponibilità e rispetto.
Certo, può capitare anche qualche eccezione. Mi è successo, per esempio, di parlare con realtà politicamente orientate in modo molto rigido, magari con una diffidenza pregiudiziale verso il privato sociale. In questi casi va compreso che il nostro servizio è prezioso perché risponde ad un bisogno concreto di una persona che rinuncerebbe alle cure, nell’interesse quindi dell’utente fragile, non del medico pubblico, privato o privato convezionato che sia. E scherzando, la battuta è: “Speriamo che un giorno la Banca delle Visite si occuperà di visite culturali nei musei, non più di visite mediche negli ospedali.” Ma finché il bisogno c’è, non possiamo voltare lo sguardo.
E qui torno a un punto per me centrale: il Terzo Settore è davvero il terzo pilastro della nostra società. Perché? Perché riesce ad arrivare dove le istituzioni, per limiti strutturali o logistici, non riescono. Non è una questione di volontà – spesso c’è, eccome – ma di capacità operativa, di capillarità, di prossimità.
L’Italia non è fatta solo di Roma o Milano. È fatta di oltre 6.000 comuni, molti dei quali piccolissimi. Penso a luoghi come Amatrice: se anche in un sistema sanitario ideale trovi una disponibilità per una visita, magari ti dicono: “La prima data utile è a Terni”. Ma una signora di Amatrice, da sola, senza macchina, magari con 85 anni sulle spalle, come ci arriva a Terni?
Anche in una città come Roma, dove formalmente ci sono mezzi pubblici, strutture, ambulatori… basta un solo ostacolo per rendere impossibile l’accesso. Una persona anziana in carrozzina, una persona cieca, o un migrante che non conosce bene la lingua o la città: anche solo prendere un autobus può diventare una barriera insormontabile. Ecco perché il Terzo Settore lavora sulla prossimità, sulla relazione umana, sull’ascolto profondo delle fragilità.
Il nostro lavoro parte spesso da queste forme di isolamento invisibile. E in molti casi, davvero, intercettiamo persone che si trovano ai margini non solo del sistema sanitario, ma anche della rete sociale più prossima.
Le faccio un esempio concreto. In Veneto, un signore anziano doveva fare un polisonnigrafo, un esame diagnostico che richiede di portare a casa un macchinario da indossare per una notte intera.. Avevamo trovato una struttura che faceva il servizio a domicilio. Ma a un certo punto ci hanno detto: “Noi siamo andati, abbiamo suonato più volte, ma lui non apre.”
Alla fine abbiamo scoperto che il signore aveva problemi di udito. Non sentiva il campanello. Stava sempre in casa, non usciva mai. E quindi semplicemente non aveva mai risposto al citofono. Un dettaglio così banale può far saltare tutto. Ma come può un ufficio pubblico, un’ASL, stare dietro a milioni di casistiche simili?
Un altro caso: una signora che stavamo cercando da giorni. La chiamavamo, ma non rispondeva mai. Alla fine l’assistente sociale, che aveva segnalato il caso e attivato la richiesta, è andata a casa sua. Lei ha detto: “Ma io non rispondo ai numeri che non conosco.” Ecco, anche questo è un tipo di fragilità.
Ci sono poi servizi che il Servizio Sanitario Nazionale non copre affatto: penso al podologo, all’odontoiatria, a molti servizi domiciliari. Ed è lì che entriamo in gioco noi, in modo integrativo e sussidiario, ma anche personalizzato e umano.
Infine, ci tengo a ricordare che oltre alla sanità in senso stretto, abbiamo attivato anche progetti specifici di inclusione sociale, come la Banca delle Visite Pet e la Banca dello Sport. In quei casi, non c’entra direttamente il sistema sanitario, ma interveniamo comunque in situazioni di marginalità, promuovendo benessere, socialità, partecipazione.
Perché una visita, anche quando non è medica, può sempre essere uno strumento di dignità, per non parlare dei preziosi valori dello Sport per un bambino o un ragazzo che cresce nelle difficoltà.
Il modello operativo.
Un progetto può nascere da una visione potente, ma è il modello operativo che ne determina la sostenibilità, l’efficacia e la capacità di crescere nel tempo. La Banca delle Visite è oggi una piattaforma strutturata, con una rete territoriale di soggetti segnalatori, medici volontari, enti sanitari convenzionati e donatori attivi. Il sistema funziona perché ogni elemento è parte di un meccanismo collaborativo, trasparente e replicabile.
Al centro c’è una sfida: garantire accesso alle cure mediche specialistiche a chi non può permettersele, attraverso un sistema che unisce tecnologia, mutualismo civico e prossimità territoriale. Ma com’è organizzata nel dettaglio questa macchina solidale?
In questo capitolo approfondiamo il funzionamento quotidiano della Banca delle Visite: come vengono selezionati i beneficiari, chi può segnalare un bisogno, come si crea il legame tra donatore e visita, che tipo di relazioni vengono costruite con i professionisti e le strutture sanitarie.
Mario Flavio Benini. Come funziona oggi, nella pratica, la Banca delle Visite? Ci può descrivere il percorso che va dalla segnalazione del bisogno fino all’erogazione della visita?
Michela Dominicis. Il funzionamento della Banca delle Visite si basa su un principio molto semplice: mettere la persona in condizione di ricevere una prestazione sanitaria nel modo più accessibile, umano e vicino possibile.
Quando ci arriva una richiesta, la prima cosa che facciamo è verificare la zona di residenza dell’utente. Se, ad esempio, una persona abita in provincia di Lucca e ha bisogno di una visita oculistica, la nostra prima preoccupazione è individuare un centro medico vicino, facilmente raggiungibile. La prossimità è un criterio fondamentale, sia per ragioni logistiche che relazionali.
Spesso le persone ci chiedono – giustamente – di poter andare da un medico donna, o da uno specialista già conosciuto, di fiducia. In casi delicati, come una visita ginecologica, questo elemento può fare davvero la differenza. Ricordo una donna che non faceva un controllo ginecologico da otto anni, nemmeno dopo il parto. Aveva paura, era molto fragile. Abbiamo trovato una ginecologa donna vicino casa, e quella visita è avvenuta nelle migliori condizioni emotive e pratiche.
Se non abbiamo già una struttura convenzionata in zona, ci attiviamo: cerchiamo online, verifichiamo le recensioni, esploriamo portali sanitari. Tra i nostri partner ci sono ad esempio Doctor APP e il CUP Solidale, quindi abbiamo accesso a molte strutture verificate. Contattiamo i centri, spieghiamo chi siamo e cosa facciamo, chiediamo un listino solidale, e se possibile avviamo la convenzione.
Quando non c’è tempo per avviare una convenzione formale, e si tratta dell’unica soluzione disponibile nei dintorni, paghiamo comunque la prestazione anche a tariffa piena. L’importante è non lasciare la persona senza risposta.
Per quanto riguarda la selezione delle persone beneficiarie, ci sono dei requisiti. In generale, accogliamo utenti con ISEE inferiore a 12.000 euro o con una situazione di comprovata difficoltà. Però sappiamo bene che i numeri, da soli, non raccontano tutta la storia.
Ci sono casi in cui l’ISEE è più alto, ma non corrisponde alla reale condizione di bisogno. A volte l’ISEE è quello del marito, in situazioni familiari molto complesse, dove magari la donna non ha accesso diretto al denaro, o è soggetta a controlli oppressivi. Ricordo un caso in cui una donna ci ha detto: “Io non posso andare a fare una visita, mio marito controlla ogni spesa.” Aveva paura perfino di prenotare.
Ecco, in questi casi prevale il buon senso e la valutazione umana. Se l’associazione Amico Point o i servizi sociali che ci segnalano il caso confermano una situazione di violenza domestica o disagio grave, la soglia non è un ostacolo. Lo spirito del progetto è sempre quello: guardare la persona, non solo il documento.
Certo, ci sono anche criticità da gestire, soprattutto con utenti senza fissa dimora o con fragilità psicosociali. Purtroppo è capitato che pagassimo una visita e poi la persona non si presentasse, oppure arrivasse in condizioni problematiche, magari in stato confusionale o visibilmente alterato. In questi casi, cerchiamo sempre di lavorare attraverso le associazioni che conoscono direttamente l’utente e possono accompagnarlo, prepararlo, garantirne l’affidabilità. È fondamentale per tutelare anche la dignità della persona e il rapporto di fiducia con i centri medici.
Inoltre, in molti casi facciamo anche una videochiamata con l’utente, per ascoltare, comprendere, personalizzare al meglio la risposta.
Il nostro obiettivo, in ogni passaggio, è mettere al centro la persona, ascoltarla, rispettarla, e fare tutto il possibile per garantirle una prestazione dignitosa, vicina, accessibile.
Mario Flavio Benini. In che modo il digitale entra nel funzionamento della Banca delle Visite? Quali strumenti e piattaforme sono utilizzati per facilitare il coordinamento?
Michela Dominicis. Il digitale è sicuramente una parte fondamentale del nostro lavoro, ma non sostituisce mai il fattore umano. Anzi, direi che lo affianca, lo supporta. Perché ogni richiesta è un caso a sé, da prendere in carico con attenzione, valutare, gestire operativamente fino alla fine.
Il percorso classico inizia da una segnalazione che può arrivare tramite il sito – bancadellevisite.it – dove è presente una sezione dedicata: “Chiedi aiuto”. Qui la persona, oppure l’associazione per suo conto, può inserire i dati, caricare l’ISEE, la ricetta del medico, specificare l’esame richiesto.
Ovviamente non tutte le persone riescono ad accedere facilmente alla tecnologia, soprattutto anziani, persone senza fissa dimora, migranti. In questi casi, è fondamentale il ruolo delle associazioni che ci affiancano: compilano il modulo, fanno da ponte, aiutano a raccogliere e inviare i documenti. In alternativa, esiste anche una mail dedicata, chiediaiuto@bancadellevisite.it, per chi ha difficoltà a usare i moduli online.
Una volta ricevuta la richiesta, verifichiamo i dati, valutiamo se è un bisogno che possiamo prendere in carico e attiviamo il back office, composto oggi da tre persone dedicate. Spesso contattiamo direttamente l’utente, oppure l’assistente sociale, o un familiare di riferimento. Se la richiesta non arriva da un ente accreditato, procediamo noi stessi a una videochiamata, per conoscere meglio la persona e la situazione. In moltissimi casi, questa video call fa emergere la realtà più chiaramente di qualunque documento.
Ricordo, per esempio, una signora che ci aveva contattato online. Durante la videochiamata, ci siamo accorti che viveva in una baracca, in condizioni durissime. Aveva avuto un marito violento, viveva con la figlia e il compagno di lei, e sopravvivevano tutti con la sua pensione minima. Lei stessa ci disse: “Io non vedo più nulla, non riesco nemmeno ad aprire la posta.” Queste sono storie che ti segnano, che ti fanno capire quanto sia importante non fermarsi alla burocrazia.
Il processo di selezione include una valutazione sul bisogno, ma anche sulla fattibilità economica: non possiamo sostenere prestazioni da migliaia di euro, come può esserlo, ad esempio, un preventivo di lavori odontoiatrici importante. In quei casi, a volte abbiamo comunque cercato soluzioni “ad personam”.
Abbiamo anche avviato una sperimentazione di raccolte fondi individuali, in collaborazione con la piattaforma TrustMeUp, per sostenere casi eccezionali. Fino ad oggi abbiamo lanciato tre o quattro campagne dedicate: un ragazzo sfregiato con l’acido, una signora con una malattia rara, situazioni in cui il Servizio Sanitario Nazionale non riesce a rispondere, o dove mancano percorsi di cura coperti.
Un altro esempio: durante l’emergenza in Ucraina, una signora rifugiata aveva delle schegge nell’occhio a causa di un’esplosione. Serviva un intervento specialistico in day hospital. Lì abbiamo attivato una colletta tra più soggetti, noi abbiamo messo la quota che normalmente dedichiamo a un esame specialistico, e alla fine siamo riusciti a coprire tutto l’intervento. Anche organizzare casi come questi, naturalmente, richiede molto lavoro operativo, molta flessibilità.
Insomma, il nostro lavoro è molto più artigianale che automatizzato. Il digitale è uno strumento indispensabile, ma il vero valore è la cura della relazione, la personalizzazione del percorso, la capacità di adattarsi a ogni storia, a ogni bisogno, senza mai dimenticare che dietro ogni richiesta c’è una persona vera.
Mario Flavio Benini. È prevista una valutazione interna o esterna della qualità del servizio e dell’efficienza del modello operativo? Se sì, con quali indicatori?
Michela Dominicis. Sì, assolutamente. Abbiamo previsto una forma di valutazione interna continua, sia sulla prestazione ricevuta che sulla qualità percepita dal beneficiario.
Innanzitutto, quando dobbiamo convenzionare un centro medico, oltre ai contatti diretti e alle verifiche formali, consultiamo sempre i principali portali sanitari: guardiamo le recensioni, i feedback degli utenti, i livelli di gradimento. È un primo filtro importante, soprattutto se non conosciamo direttamente la struttura.
Poi, una volta che la visita è stata effettuata, facciamo sempre un recall telefonico all’utente. Serve a verificare che la prestazione sia effettivamente avvenuta, ma anche a raccogliere il riscontro sull’esperienza vissuta. È un passaggio a cui teniamo molto, perché ci aiuta a monitorare la qualità del servizio in tempo reale, caso per caso.
In più, chiediamo all’utente di compilare un questionario di gradimento, una survey strutturata in cui può valutare vari aspetti della prestazione ricevuta, dalla disponibilità del personale al comfort della struttura, dalla chiarezza delle informazioni alla cortesia del medico. Ci sono anche domande specifiche sulla percezione della visita, su quanto si è sentito accolto, se ha avuto difficoltà nel raggiungere il centro, se si è sentito rispettato.
Questi dati ci servono moltissimo, non solo per verificare la correttezza e l’efficacia della prestazione, ma anche per comprendere meglio i bisogni emergenti, migliorare il servizio, intervenire se qualcosa non funziona.
Insomma, non lavoriamo solo per erogare prestazioni, ma anche per garantire una reale qualità dell’esperienza sanitaria, con attenzione alla relazione e alla dignità della persona. E questa qualità, per noi, passa anche dal sapere ascoltare chi abbiamo aiutato.
Il modello economico e finanziario.
La sostenibilità economica è una delle maggiori sfide per ogni progetto sociale. La Banca delle Visite ha saputo trasformare la solidarietà in un sistema strutturato e misurabile, con un modello economico innovativo che si fonda su donazioni tracciate, campagne mirate, coinvolgimento aziendale e partnership territoriali.
In un contesto in cui molte realtà del terzo settore dipendono da fondi pubblici o sono soggette a una forte instabilità economica, la Banca delle Visite sembra aver costruito un equilibrio originale tra filantropia diffusa, responsabilità sociale d’impresa e gestione trasparente delle risorse.
In questo capitolo ci interessa capire come è stato progettato questo modello, quali strumenti lo sostengono e come si è evoluto nel tempo, per garantire scalabilità senza rinunciare all’impatto.
Mario Flavio Benini. La base solida di sostegno economico per la Banca delle Visite oggi proviene dai Soci Fondatori, che rappresentano circa il 40% dei proventi raccolti. Seguono le aziende e le fondazioni con il 35%, gli enti e le istituzioni con l’11%, le donazioni da privati con l’8%, e il 5×1000 con il 5%. (i dati sono relativi al 2023). L’80% dei fondi raccolti viene destinato alla realizzazione di progetti e all’erogazione delle prestazioni, mentre il 20% è utilizzato per i costi indiretti di gestione.
Come riuscite a mantenere questo equilibrio? E come immaginate la crescita della partecipazione civica anche in termini di donazione diretta da parte dei cittadini?
Michela Dominicis. La struttura della nostra Fondazione si regge su un modello molto snello e sostenibile. Oltre al contributo economico dei Soci Fondatori, che è fondamentale, riceviamo da loro anche servizi pro bono come il supporto legale, i servizi amministrativi, la logistica, la collaborazione della rete mutualistica nella diffusione dei progetti della Fondazione. Abbiamo gli uffici all’interno degli stessi stabili, condividiamo spazi e risorse. Questo ci permette, con solo quattro dipendenti, di gestire un’attività che ha ormai un impatto nazionale.
Senza questo tipo di sostegno strutturale, una fondazione piccola, con solo quattro persone, non potrebbe mai reggere il carico organizzativo che oggi abbiamo.
Poi, accanto a noi, ci sono gli Amici Sostenitori, i nostri alleati sui territori: sono persone, enti, associazioni, volontari che diffondono il progetto, lo promuovono localmente, lo fanno conoscere. Molti di loro sono anche soci della Mutua MBA, e quindi vivono in prima persona quella reciprocità tra tutela individuale e solidarietà collettiva che è la base del nostro modello.
Il nostro è un progetto civico, educativo, mutualistico. Promuove un’idea di partecipazione concreta alla cura, non astratta. E anche la donazione, in questo caso, è un atto di cittadinanza attiva. Non si tratta solo di “dare”, ma di partecipare a una rete che restituisce salute reale a qualcuno, spesso nel proprio stesso territorio.
Certo, oggi la componente dei privati rappresenta solo l’8% dei fondi raccolti, ma non è un dato da sottovalutare. L’8% può sembrare poco, ma è una base importante su cui lavorare. Il punto è che, per aumentare quella percentuale, serve farsi conoscere.
Faccio un esempio personale: quando sono nati i miei figli, ho realizzato bomboniere solidali, cercando su internet l’associazione che più mi ispirava. Nelle ricorrente ho sempre avuto attenzione per i prodotti solidali: l’uovo pasquale di Emergency, la pianta dell’AIL, qualsiasi iniziativa. Penso che molte persone abbiano questa disponibilità alla solidarietà.
Tutto sta nel farsi conoscere e acquisire una certa visibilità. I mostri sacri del terzo settore, come Telethon, Unicef, Save the Children. Emergency, AIRC, AIL, e tanti altri, raccolgono milioni anche solo con 5×1000. E la differenza non sta nel valore del progetto, ma, credo, semplicemente nel fatto che si è più conosciuti.
Fino al 2020, la Banca delle Visite non veniva promossa pubblicamente – mi passi il termine “pubblicizzata”, anche se nel Terzo Settore suona male –. Il vero lavoro di comunicazione è iniziato negli ultimi tre anni. E da allora i numeri sono cresciuti in modo evidente: siamo passati da zero Comuni partner a 135, da 10 Amici Point a oltre 300, da 50 visite annue a quasi 3.000.
È un lavoro di costruzione, ma sta funzionando. E man mano che le persone ci conoscono, magari dicono: “Quest’anno, invece di donare a un’associazione internazionale, preferisco sostenere un progetto locale, concreto, vicino.”
Noi cerchiamo sempre di raccontare il valore della prossimità. Magari non siamo un brand di chiara fama, ma possiamo attivare un progetto nel tuo Comune, sostenere una campagna per i tuoi vicini di casa, i tuoi colleghi, i tuoi familiari. Questo rende il gesto della donazione più diretto, più umano, più visibile.
Lo stesso vale per le aziende. A volte diciamo: “Vuoi fare una donazione per la CSR della tua impresa. Puoi aiutare i tuoi cittadini, i tuoi stessi dipendenti, la tua comunità locale”
Un’azienda può scegliere di sostenere lo sport per i ragazzi del proprio territorio, una campagna di prevenzione per le donne, o un progetto per gli anziani. Se produce occhiali, può finanziare visite oculistiche; se produce scarpe, può sostenere visite ortopediche. C’è coerenza, c’è impatto, c’è comunicazione.
Siamo molto flessibili anche in questo: riusciamo a costruire progetti che incontrano il desiderio del donatore, e li traduciamo in azioni concrete di welfare locale. Quei progetti possono poi diventare capitoli del bilancio sociale dell’azienda, strumenti di reputazione, storytelling, comunicazione istituzionale.
Il nostro modello è flessibile ma radicato, e si adatta sia alla dimensione nazionale che a quella iper-locale. Ma in tutti i casi, rimette al centro la persona e la possibilità di prendersi cura degli altri in modo semplice, diretto e misurabile.
Mario Flavio Benini. La cosa che io trovo estremamente interessante del vostro progetto è che il progetto stesso è comunicazione, cioè il progetto si comunica da solo. La formula della “visita sospesa” è già in sé una comunicazione: non è solo un’idea, è un’azione, e come tale racconta un messaggio. In questo senso, la comunicazione non è qualcosa di aggiunto, ma è già parte integrante del progetto.
Michela Dominicis. Assolutamente. È proprio così. Tant’è che la formula della “visita sospesa” è diventata il nome stesso della Fondazione. Quando siamo partiti, la nostra realtà si chiamava Fondazione BASIS – riprendendo il nome della Mutua MBA, Mutua Basis Assistance – ma poi il progetto della Banca delle Visite ha preso il sopravvento, nel senso più positivo possibile: è cresciuto, si è rafforzato, ha catalizzato tutte le energie e ha finito per rappresentare l’identità dell’intera organizzazione.
Quando siamo diventati ONLUS nel 2019, abbiamo ufficialmente assunto il nome “Fondazione Banca delle Visite”, proprio perché era evidente che quel progetto stava diventando “il progettone”, quello capace di esprimere meglio la nostra missione, i nostri valori e il nostro impatto.
E anche da un punto di vista comunicativo, è esattamente come dice lei: non abbiamo bisogno di inventare una strategia esterna. Il progetto si racconta da solo, perché la “visita sospesa” è già un gesto simbolico e concreto insieme, un’azione che veicola un messaggio potente: “Prenditi cura di qualcun altro. Adesso.”
Naturalmente, come in ogni iniziativa di comunicazione, sappiamo che se parli a tutti, non parli a nessuno. Per questo, pur mantenendo una struttura ampia, capace di accogliere bisogni da 0 a 100 anni, andiamo poi a lavorare in verticale su progettualità specifiche, più mirate.
Ad esempio, abbiamo sviluppato progetti più strutturati come la Banca delle Visite Pet e la Banca dello Sport, che sono declinazioni di inclusione sociale su ambiti diversi. Ma lavoriamo anche su temi come la prevenzione per le donne, gli screening oncologici, la salute degli anziani… insomma, ci muoviamo su diversi fronti, con azioni mirate, che però nascono tutte dallo stesso impianto valoriale.
Mario Flavio Benini. A proposito di progettualità mirate, come si configurano i rapporti con le aziende? Quelle che vi sostengono economicamente sono solo sponsor, o diventano anche co-protagonisti di iniziative progettate con voi?
Michela Dominicis. Nella maggior parte dei casi, la collaborazione nasce da una donazione, ma non si ferma lì. Noi chiediamo sempre alle aziende se desiderano che la loro donazione sia destinata a un progetto specifico, e spesso nasce una co-progettazione spontanea, molto concreta.
Per esempio, ci sono aziende che decidono di sostenere campagne di screening per le donne. In quei casi, costruiamo con loro una comunicazione dedicata, prepariamo materiali personalizzati, una locandina dell’iniziativa con il nome dell’azienda, e rendicontiamo in modo trasparente come vengono utilizzati i fondi ricevuti.
Non ci è ancora capitato che un’azienda ci contattasse con un progetto già definito da realizzare insieme, ma succede spesso che la progettualità prenda forma insieme, a partire da un bisogno condiviso o da un ambito che sta a cuore al donatore.
Il nostro approccio è molto flessibile: cerchiamo sempre di capire quali sono le priorità, i territori, le fasce di popolazione che un’azienda desidera sostenere, e costruiamo insieme un’iniziativa che abbia senso, che possa essere misurata e raccontata, e che generi un impatto vero.
Modelli che curano: confronti e differenze nel nuovo welfare sanitario.
Negli ultimi anni, la crisi dei sistemi sanitari pubblici ha fatto emergere nuove forme di intervento sanitario solidale e mutualistico. In Italia, diversi attori del Terzo Settore – da poliambulatori gratuiti come Opera San Francesco, alle unità mobili di INTERSOS, fino ai progetti di integrazione sociosanitaria come Progetto Arca e Casa della Carità – hanno costruito modelli operativi differenziati, spesso locali, ma altamente efficaci.
All’estero, esperienze come Homeless Healthcare in Australia, The Banyan in India o i team di medicina di strada negli Stati Uniti e in Europa, mostrano altri modelli organizzativi, alcuni fortemente integrati con il sistema pubblico, altri più autonomi, ma tutti impegnati a ricucire i margini del diritto alla salute.
La Banca delle Visite, in questo panorama, propone un modello differente: digitale, mutualistico, civico, basato sulla fiducia, sulla prossimità e sulla connessione tra donatori, professionisti e beneficiari attraverso una piattaforma trasparente e scalabile.
In questo capitolo vogliamo esplorare, attraverso l’esperienza diretta di Michela Dominicis, quali siano le differenze sostanziali, i punti di contatto e le possibilità di integrazione tra questi modelli. Vogliamo comprendere cosa distingue la Banca delle Visite, cosa la ispira e cosa può apprendere da altri percorsi, italiani e internazionali.
Mario Flavio Benini. Nel corso degli anni, avete avuto modo di confrontarvi con altri progetti italiani che si occupano di salute e povertà sanitaria, come Opera San Francesco, Progetto Arca, INTERSOS, Casa della Carità. Quali differenze principali vede rispetto al modello della Banca delle Visite? E a livello internazionale, ci sono esperienze che vi hanno ispirato o che ritenete particolarmente affini alla vostra visione, come ad esempio Boston Health Care for the Homeless Program, Homeless Healthcare o The Banyan?
Michela Dominicis. Devo dire che non ho ancora trovato modelli perfettamente sovrapponibili a quello della Banca delle Visite, né in Italia né all’estero. Sicuramente ci sono esperienze molto valide, con missioni affini, ma il nostro approccio – che combina mutualità, digitale, prossimità e donazione civica – ha una sua specificità. Per ora, siamo molto concentrati sullo sviluppo territoriale italiano con lo scopo di arrivare in maniera più capillare possibile sul territorio italiano.
Oggi la maggior parte delle visite erogate avviene nel Lazio, per motivi comprensibili – siamo a Roma, da qui è partito tutto, e nei primi anni ci siamo radicati molto in questa zona. Ma il nostro obiettivo ora è espanderci in tutte le regioni, perché non ha senso avere 3.500 visite in Lazio e solo 50 in Campania, per dire. Quindi, in questo momento, la nostra priorità è costruire una rete davvero nazionale.
Per quanto riguarda le esperienze internazionali, non abbiamo ancora fatto un’esplorazione approfondita, anche se ci è capitato che siano altri a chiederci di esportare il modello all’estero. Riceviamo spesso richieste da realtà internazionali curiose di capire come funziona la Banca delle Visite e se può essere replicata altrove. Ma per ora non pensiamo ad aprire filiali in altri Paesi: servirebbe una base solida di fundraising, attivare convenzioni, generare volontari che diffondano il messaggio solidale perché, non stiamo donando un pasto o una coperta, ma prestazioni mediche che possono costare centinaia di euro.
In questo momento, tutto quello che facciamo è sostenuto da fondi privati, dai nostri soci fondatori, da donazioni aziendali o individuali, da piccoli contributi da qualche Comune. Ogni progetto portato avanti finora è stato realizzato con le nostre forze, con le raccolte fondi, con gli eventi solidali, con la generosità di chi ha scelto di credere in noi.
Mario Flavio Benini. In molti modelli esteri, soprattutto in Inghilterra o negli Stati Uniti, si cerca di integrare salute, abitazione e supporto sociale in un unico sistema. Mi sembra che anche voi, pur senza strutture proprie, cerchiate di lavorare in sinergia con le associazioni per costruire risposte a più livelli.
Come vede questo approccio, oggi, in Italia? E cosa si potrebbe migliorare per renderlo più efficace?
Michela Dominicis. Sono pienamente d’accordo. La marginalità non è mai solo sanitaria, è sempre un insieme di fattori intrecciati: solitudine, disoccupazione, problemi abitativi, barriere culturali. E se si interviene solo su un pezzo, si rischia di tamponare, ma non risolvere.
Il Terzo Settore ha un ruolo chiave in questo, perché riesce a intercettare i bisogni prima e meglio di altri. Ma non può restare isolato. Quello che auspico – e su cui lavoriamo ogni giorno – è un vero avvicinamento tra il Terzo Settore e la sanità pubblica, una forma di integrazione reale, non solo collaborazioni episodiche o di emergenza.
Per esempio, molti dei nostri utenti ci raccontano di quanto sia difficile essere presi in carico dai servizi sociali. A volte non si entra in lista, altre volte si resta in attesa per mesi. Le famiglie con bambini nello spettro autistico, ad esempio, hanno bisogno di essere accompagnate fin da subito, quando i segnali emergono nei primissimi anni. Ma le liste d’attesa per un neuropsichiatra sono infinite, e spesso il sistema pubblico non riesce a fare fronte ad una richiesta sempre più alta.
In tutti questi casi, noi potremmo rappresentare un’integrazione strutturale, se ci fosse la possibilità di avviare tavoli di coprogettazione, convenzioni, protocolli istituzionali.
Quello che mi auguro è che il Terzo Settore venga riconosciuto come un interlocutore stabile, non solo come “l’associazione che dà una mano nel quartiere”, ma come un attore del welfare, con risorse, competenze, visione.
Ad oggi, non abbiamo ancora attivato dialoghi strutturati a livello nazionale. Succede, magari, che un distretto sanitario locale ci conosca, oppure che un Comune ci proponga un protocollo d’intesa e lo estenda ad altri Comuni dello stesso distretto socio-assistenziale. Ma non esistono ancora canali di interlocuzione permanenti con le ASL, con i Ministeri, con i livelli centrali della sanità pubblica.
Eppure io credo che ci siano margini reali per costruire ponti, per essere inseriti in contesti già esistenti, per offrire la nostra infrastruttura solidale a servizio di una risposta più ampia e integrata. Siamo pronti a sederci a quei tavoli, a ragionare insieme, a mettere a disposizione un modello che già funziona, e che potrebbe essere parte di una rete più grande, più giusta e più efficace per tutti.
Reti, collaborazioni e partnership.
Nessun progetto ad alto impatto può operare da solo. La forza della Banca delle Visite risiede anche nella sua capacità di fare rete, creare alleanze solide e dialogare con attori diversi: enti pubblici, aziende, fondazioni, medici, volontari, organizzazioni del Terzo Settore.
In un sistema di welfare sempre più “poroso”, dove le competenze sono distribuite tra pubblico, privato e comunità, costruire partnership strategiche è fondamentale per rispondere ai bisogni complessi della povertà sanitaria.
Ma oltre ai protocolli, ai partenariati e agli accordi istituzionali, esiste un altro elemento strutturale, spesso meno visibile ma decisivo: la comunità locale. Intesa non solo come luogo geografico, ma come insieme di relazioni, fiducia, partecipazione e prossimità.
La Banca delle Visite, in questo senso, non è semplicemente un servizio da attivare, ma una piattaforma civica che vive dentro i territori. È attraverso la mobilitazione di “Amici Sostenitori”, Point, volontari e professionisti locali che il progetto assume forma e significato. La comunità non è il pubblico passivo dell’intervento, ma la condizione stessa della sua riuscita.
La struttura operativa della Banca delle Visite si fonda su un principio essenziale: essere presenti anche senza una presenza fisica centralizzata. È attraverso una rete diffusa di Amici Sostenitori, Amici Point e associazioni locali che il progetto prende vita, si adatta ai contesti, intercetta i bisogni. Ognuno, per la sua città, diventa un presidio civico di punto di riferimento per entrare in connessione con Banca delle Visite, capace di ascoltare, orientare, connettere. È un welfare leggero, flessibile, ma radicato: costruito non sulla base di sportelli, ma di relazioni fiduciarie.
Molti progetti, in Italia e nel mondo, confermano il valore strategico di questa dimensione comunitaria. Dalle unità mobili di INTERSOS, ai presidi diffusi della Casa della Carità, fino ad esperienze come The Living Room a Melbourne, emerge un punto chiave: quando una comunità si riconosce in un progetto, lo protegge, lo alimenta, lo trasforma in bene comune.
In questo capitolo vogliamo quindi esplorare la mappa delle relazioni della BdV: capire come si scelgono i partner, quali sono i criteri di collaborazione, che ruolo giocano le istituzioni, ma anche quale forma assume la fiducia sociale che ogni giorno permette al progetto di funzionare, di radicarsi, di crescere e, nel tempo, trasformarsi in una vera infrastruttura pubblica di prossimità.
Mario Flavio Benini. La rete della Banca delle Visite coinvolge centinaia di attori: donatori, medici, enti del terzo settore, volontari. Come costruite e alimentate queste relazioni? Nascono da contatti spontanei, da accordi strutturati o da una strategia di attivazione mirata?
E poi vorrei chiederle qualcosa in più sul ruolo delle comunità territoriali nella vita quotidiana del progetto. Come fate in modo che non siano solo “luoghi di erogazione” delle prestazioni, ma veri soggetti attivi del cambiamento?
Lo chiedo anche alla luce di alcune esperienze che sto analizzando: sto portando avanti una ricerca sul nuovo welfare di prossimità e ho incontrato in giro per l’Italia circa venti realtà molto interessanti. In particolare, a Torino, ho approfondito due progettualità che secondo me hanno diversi punti in comune con il vostro approccio.
La prima sono le Portinerie di Comunità, un modello che nasce da una sperimentazione francese e che oggi è presente in diverse città italiane. Si tratta di luoghi fisici di ascolto e attivazione, un po’ come portinerie civiche di quartiere: raccolgono i bisogni, orientano, accompagnano, facilitano l’accesso ai servizi comunali o del terzo settore, e attivano piccole pratiche di welfare condiviso. A Torino, il progetto è supportato da un lavoro di rete solido, anche attraverso un modello di social franchising e con figure di riferimento importanti, come la sociologa Chiara Saraceno.
La seconda esperienza è quella delle Case di Quartiere, sempre a Torino, coordinate da Roberto Arnaudo. Anche in questo caso parliamo di spazi ibridi, abitati dalla cittadinanza, dove le persone possono non solo partecipare a iniziative proposte, ma anche progettare direttamente. Le Case di Quartiere offrono supporto, mentoring, accompagnamento, aiuto nella ricerca di fondi. Sono luoghi abilitanti, che fanno da incubatore di progettualità civiche.
In questa prospettiva, mi sembra che anche la vostra rete di Amici Sostenitori, Point e operatori locali possa essere letta come un sistema distribuito di presidio e cura sociale. Mi interessa capire meglio come si costruisce, come funziona, e se secondo lei è possibile creare ponti operativi tra la vostra esperienza e altre realtà di prossimità attiva.
Michela Dominicis. Assolutamente, quello che dice è molto interessante e vicino alla nostra visione. Anche per noi la comunità non è solo il luogo in cui si eroga un servizio, ma è il cuore stesso del progetto.
Parto dagli Amici Sostenitori. Si tratta di persone comuni, che fanno tutt’altro nella vita, ma che decidono, con grande generosità, di mettere a disposizione un po’ del loro tempo e della loro rete per far conoscere la Banca delle Visite sul proprio territorio.
Non sono volontari in senso formale: non abbiamo una struttura di volontariato “classica”, con tesseramento o turni. Ma chiediamo loro di compilare un modulo, così da sapere chi sono, dove operano, e come possiamo metterli in rete. Sono le nostre antenne, le nostre voci sul posto, persone che vanno a parlare con le associazioni, con i Comuni, con i centri sportivi, con i medici di base, e fanno conoscere la nostra iniziativa. In alcuni casi attivano convenzioni, segnalano situazioni di difficoltà, o semplicemente passano parola.
Poi ci sono gli Amici Point, che fanno la stessa cosa ma in un luogo fisico: può essere una parrocchia, un negozio, un’associazione, un CAF, una palestra, un centro anziani, una pro loco… insomma, qualsiasi spazio riconoscibile, accessibile, che possa diventare un punto di riferimento locale per il progetto.
Questi point hanno una funzione doppia: da una parte, possono segnalare persone in difficoltà, dall’altra possono diventare luoghi di attivazione. Abbiamo avuto, ad esempio, una palestra che ha organizzato una riffa solidale a Pasqua e ha donato il ricavato alla Banca delle Visite. Oppure un bar a Nepi, in provincia di Viterbo, che per l’anniversario di apertura ha organizzato un “caffè sospeso solidale”: 300 caffè offerti e trasformati in una donazione di 300 euro, così come un centro sportivo può organizzare un torneo di solidarietà o un gruppo di amici possono organizzare una pizzata con un piccolo extra da mandare in donazione.
In questi contesti, la comunità non è solo il destinatario dell’aiuto, ma anche il soggetto attivo che lo rende possibile. Ogni raccolta fondi spontanea, ogni iniziativa locale, ogni gesto di reciprocità diventa parte della sostenibilità del progetto.
Tutto questo nasce dalla comunità, non da un ufficio centrale, e per noi è fondamentale. È un sistema di mutuo aiuto locale, dove chi può aiuta chi non può, e lo fa nel proprio quartiere, nel proprio Comune, in un sistema di prossimità e riconoscimento reciproco.
Al momento non potremmo permetterci di “fare pubblicità” come i grandissimi nomi del nostro settore, preferiamo usare ogni euro per erogare visite. E allora ci sviluppiamo un po’ più lentamente, ma, speriamo, in modo radicato.
Queste figure chiave – amici sostenitori, Point, referenti locali – sono la nostra rete viva. Sono loro che ci rappresentano sul territorio, che portano la nostra voce, che attivano alleanze, dialogano con i medici,mobilitano piccole economie solidali, trasformano il progetto in un gesto quotidiano.
Da questo punto di vista, esperienze come le Portinerie di Comunità o le Case di Quartiere mi sembrano davvero vicine al nostro spirito. Anche noi funzioniamo come “recettori” sociali, capaci di intercettare bisogni che sfuggono ai radar delle istituzioni. E lo facciamo senza strutture pesanti, ma con un modello leggero, civico, partecipativo.
Sarebbe interessante entrare in relazione con quei progetti che ha citato: credo davvero che fare rete con realtà affini possa aiutarci tutti a essere più efficaci, più radicati, e soprattutto a costruire quel welfare di comunità di cui abbiamo così tanto bisogno.
Guardando al futuro, la rete della Banca delle Visite potrebbe evolversi in una vera e propria infrastruttura civica nazionale, capace di connettere in modo stabile Terzo Settore, istituzioni e cittadini. Non solo uno strumento di erogazione, ma un modello replicabile di welfare partecipato, fondato su fiducia, prossimità e responsabilità condivisa.
L’impatto del progetto.
Nel tempo, i progetti vivi cambiano forma, crescono, si adattano. Quello che all’inizio può sembrare un piccolo gesto – una visita donata – diventa parte di un sistema più ampio di contrasto alla povertà sanitaria, capace di mobilitare migliaia di persone, di costruire nuove reti e di ridefinire il concetto di accesso alle cure.
L’evoluzione della Banca delle Visite racconta non solo una crescita organizzativa e territoriale, ma anche un rafforzamento della consapevolezza collettiva attorno a un bisogno spesso invisibile. Oggi, grazie al lavoro svolto, è più facile parlare di povertà sanitaria in modo concreto e misurabile.
In questo capitolo, vogliamo ripercorrere le tappe più importanti dell’evoluzione del progetto e riflettere su quali sono stati i momenti di svolta, le scelte strategiche più significative, e l’impatto raggiunto – non solo in termini numerici, ma anche culturali, relazionali, umani.
Mario Flavio Benini. Nel corso degli ultimi anni la crescita della Banca delle Visite è stata significativa. Quanti beneficiari avete raggiunto? Quali sono oggi i dati più rappresentativi dell’impatto? E come vi state espandendo sul territorio nazionale? In quali regioni siete più radicati e dove invece state cercando di rafforzarvi?
Michela Dominicis. La crescita è stata importante. Tra il 2022 e il 2024 abbiamo erogato complessivamente 6.883 prestazioni mediche gratuite, raggiungendo 3.624 utenti unici censiti. Abbiamo calcolato che, considerando una media di 2,5 beneficiari per ciascun utente – quindi includendo il contesto familiare – il nostro intervento ha raggiunto circa 9.000 persone.
Un dato che per noi è molto significativo, perché dietro ogni prestazione c’è spesso un intero nucleo che ne beneficia indirettamente: una visita donata significa anche un sollievo economico, un problema di salute risolto, una preoccupazione in meno per tutta la famiglia.
Il numero delle prestazioni è aumentato progressivamente. Solo nei primi quattro mesi del 2024, al 30 aprile, abbiamo già erogato 723 visite, di cui 260 solo ad aprile. E questa tendenza positiva riguarda anche la varietà degli interventi, con una crescente attenzione verso la prevenzione e il sostegno alle fasce più fragili. Nel 2023 abbiamo visto un aumento delle richieste nella fascia 0-18 anni, soprattutto per bisogni legati alla logopedia, al supporto psicologico, alla psicomotricità e ai disturbi dello spettro autistico. Per gli over 65, invece, abbiamo avviato campagne di screening cardiologici e odontoiatrici, anche grazie alla collaborazione con centri medici e iniziative territoriali dedicate.
Mario Flavio Benini. E dal punto di vista territoriale? Dove siete più radicati oggi e quali sono le aree in cui state cercando di rafforzare la vostra presenza?
Michela Dominicis. Attualmente siamo particolarmente radicati in Lazio, Lombardia e Piemonte. È lì che il progetto ha preso piede per primo, e sono le regioni dove abbiamo costruito più convenzioni, attivato più Amici Point, e dove la rete degli Amici Sostenitori è più solida. In queste zone, semplicemente, ci conoscono di più, e questo naturalmente genera più richieste, più segnalazioni, più opportunità.
Stiamo però lavorando molto anche su altre aree del Paese, con particolare attenzione al Sud. A Napoli, ad esempio, siamo in fase di espansione: abbiamo avviato una collaborazione con la Croce Rossa locale, attivato una convenzione con il Banco Alimentare Campania, e prossimamente presenteremo il progetto insieme alla Fondazione Cannavaro Ferrara, coinvolgendo associazioni del territorio. Anche da lì ci stanno arrivando tanti segnali di interesse, e c’è la volontà di strutturare meglio la presenza locale.
Un impulso importante è arrivato anche da ANCI – Associazione Nazionale Comuni Italiani: il 22 aprile ha inviato una comunicazione a tutte le sedi regionali segnalando la nostra attività, e da allora abbiamo ricevuto circa 15 richieste da Comuni italiani interessati ad aderire. Il passaparola funziona, e la rete si allarga ogni giorno.
Naturalmente, con la crescita delle richieste, cresce anche la responsabilità. Perché non possiamo garantire assistenza a tutti senza rafforzare anche la raccolta fondi. Lavoriamo sempre per creare un equilibrio tra la domanda che emerge e le risorse che riusciamo a raccogliere, sia a livello nazionale che locale. Per questo costruiamo alleanze con enti, associazioni, aziende, ma anche con cittadini attivi, che vogliano sostenere e promuovere il progetto nei propri territori. Solo così possiamo crescere in modo sostenibile, continuando a garantire prestazioni gratuite di qualità a chi ne ha davvero bisogno.
Mario Flavio Benini. Uno degli aspetti che colpisce della Banca delle Visite è la capacità di costruire un sistema di accesso alla cura che funziona anche senza una presenza fisica diretta sul territorio. Questo è possibile grazie a una rete diffusa di associazioni, amici sostenitori e punti locali, che diventano veri e propri presìdi civici di prossimità.
In particolare, mi ha colpito la modalità con cui riuscite a intercettare una nuova fascia di vulnerabilità, meno visibile rispetto a chi vive in strada: famiglie che affrontano un momento di crisi, persone che rinunciano a una visita per pagare una bolletta, situazioni temporanee di disagio che rischiano però di cronicizzarsi.
Come riuscite a raggiungere queste persone? In che modo la rete sociale attorno a voi vi aiuta a scoprire ciò che non si vede, a entrare nelle pieghe della nuova povertà urbana e a creare percorsi di cura che siano realmente accessibili, non solo economicamente, ma anche culturalmente e logisticamente?
Michela Dominicis. La nuova povertà di cui parliamo oggi non è quella visibile, non è sempre la persona che dorme per strada. Spesso abita la porta accanto, ma non la vediamo. È la famiglia che non riesce più a sostenere i costi delle cure, la madre sola che rinuncia a un controllo per il figlio, l’anziano che non ha nessuno che lo accompagni, il padre disoccupato che rimanda una visita perché deve scegliere tra mangiare o curarsi.
E queste situazioni non ci arrivano da sole. Sono le associazioni territoriali che ce le segnalano, sono loro i nostri occhi e le nostre orecchie. È lì che entrano in gioco gli Amici Point, le parrocchie, i centri culturali, le palestre, le biblioteche, tutte quelle realtà che conoscono il territorio meglio di chiunque. Non abbiamo presidi fisici nostri, quindi per definizione dobbiamo fare rete.
E questo, più che un limite, è la nostra forza.
Penso spesso a un episodio accaduto a Napoli, dopo una presentazione pubblica. Era avanzato tantissimo cibo da un evento a Palazzo Salerno, in Piazza Plebiscito. Abbiamo pensato: portiamolo ai senzatetto che sono sotto il colonnato. E sa qual è stata la risposta?
“Grazie, ma abbiamo già mangiato. Andate più avanti, c’è altra gente.”
Continuavano a dirci che erano già passate altre associazioni, che in quella zona, in quella notte, nessuno sarebbe rimasto senza cena. È stato un momento illuminante: il bisogno non è sempre dove ce lo aspettiamo.
Il vero dramma spesso si consuma nel silenzio delle case, in quelle famiglie che non chiedono aiuto finché non arriva l’urgenza. Lì il nostro ruolo è fondamentale: intercettare, ascoltare, attivare una risposta prima che il problema si trasformi in tragedia. E lo possiamo fare solo insieme alle realtà che vivono il territorio, che conoscono i volti dietro i numeri.
Il nostro è un progetto civico, corale, integrato. Non lavoriamo per lasciare un “marchio”, ma per costruire alleanze, facilitare accessi, attivare prossimità. E ogni volta che una persona riceve una visita, non è solo un servizio erogato: è un’intera rete che ha funzionato.
La visione culturale.
Parlare di salute oggi significa confrontarsi con un sistema sanitario sotto pressione, con disuguaglianze crescenti e con un’idea di cura che deve tornare ad avere un significato umano, relazionale, accessibile. La Banca delle Visite, pur non essendo un servizio pubblico, agisce in una zona di frontiera tra il diritto e il bisogno, tra la solidarietà e l’assenza di risposte istituzionali.
Il progetto, dunque, non è solo una piattaforma di matching tra bisogni e risorse, ma è anche un gesto culturale. Dice qualcosa su chi siamo come comunità, su quanto valga oggi una visita medica, e su cosa accade quando a qualcuno viene negata per motivi economici.
In un tempo segnato da isolamento, solitudine e diffidenza, parlare di visite sospese è anche un modo per ripensare le categorie di cittadinanza, di mutualismo e di responsabilità sociale.
Mario Flavio Benini. Nel vostro lavoro quotidiano, sentite di avere anche una responsabilità pedagogica, nel costruire una nuova cultura dell’attenzione e del diritto alla cura?
Mi spiego meglio. In Italia il tema della sanità è sempre più centrale e drammatico. Eppure, nonostante la povertà sanitaria sia ormai una realtà diffusa, non c’è ancora una piena consapevolezza da parte dei cittadini rispetto a cosa si può e si deve fare. Sembra quasi che, di fronte alla progressiva inaccessibilità del sistema sanitario pubblico, la società resti immobile.
I progetti come il vostro – che uniscono welfare di prossimità, mutualismo e solidarietà attiva – non sono solo risposte operative, ma potrebbero anche diventare strumenti educativi, capaci di promuovere un nuovo spirito civico. Parlando con Antonio Mumolo, presidente di Avvocato di Strada, è emersa proprio questa idea di “responsabilità pedagogica”: far conoscere i propri diritti, educare all’impegno, coinvolgere i cittadini a partire dalle scuole, con percorsi che parlino di giustizia sociale, sanità accessibile, solidarietà concreta.
Mi chiedo quindi: la Banca delle Visite si sta muovendo anche in questa direzione? Ci sono progetti di informazione, sensibilizzazione o formazione nelle scuole, nelle comunità locali?
Michela Dominicis. È un tema molto importante. La responsabilità pedagogica, come la chiama lei, è reale, e in parte la stiamo già esercitando, anche se forse in modo ancora non strutturato come vorremmo.
Ogni volta che attiviamo un protocollo d’intesa con un Comune o un Municipio, cerchiamo di mettere il nostro progetto a disposizione non solo per erogare prestazioni, ma anche per fare informazione, sensibilizzazione, educazione alla salute. Lo diciamo chiaramente: non basta essere operativi. Bisogna fare cultura della cura, costruire consapevolezza. E questo significa far conoscere i servizi che esistono, spiegare come accedere, ma anche educare a una prevenzione attiva, a uno stile di vita più sano, a riconoscere la salute come bene collettivo.
Il problema, però, è anche culturale. Oggi viviamo in una società molto frenetica, individualizzata, dove le persone si interessano ai servizi solo quando ne hanno bisogno. Finché non ti ammali, non ti chiedi dove potresti fare un controllo, né ti informi su cosa offre il tuo territorio. Eppure magari c’è un’associazione sotto casa tua che potrebbe aiutarti, ma tu non la conosci. Anche per questo sarebbe utile mettere in rete le buone pratiche, creare guide ai servizi accessibili, strumenti semplici che orientino i cittadini.
D’altra parte, non possiamo neanche biasimare le persone: oggi siamo sommersi da stimoli, presi da mille urgenze. E quindi, spesso, si inizia a cercare risposte solo quando il bisogno è già esploso. Lo vediamo con le famiglie con bambini piccoli che scoprono un disturbo dello sviluppo, o con gli anziani che rimandano i controlli finché non è troppo tardi.
Noi cerchiamo di intervenire prima, di fare prevenzione e costruire una cultura della salute accessibile. Un esempio? In collaborazione con Mutua MBA e AVIS, stiamo portando un progetto nelle scuole superiori per parlare di cultura del dono, mutualismo, e welfare di prossimità. Lì abbiamo notato una cosa che ci ha colpito molto: alla domanda se qualcuno facesse del volontariato, pochissimi hanno alzato la mano. In un’aula che raccoglieva una cinquantina di studenti, forse un paio hanno alzato la mano. I social hanno reso le persone più chiuse, più “asociali”, paradossalmente. Tutti collegati, ma ognuno nel proprio mondo.
Per questo, educare al senso civico è urgente. Non è solo una questione di risorse economiche, ma di coinvolgimento attivo: far capire che anche una piccola donazione, una giornata dedicata, una visita sospesa, possono cambiare una vita.
E soprattutto, far capire che la salute non è un tema distante o tecnico: è qualcosa che riguarda tutti noi, ogni giorno. Ma ce ne rendiamo conto solo quando la perdiamo. Quando manca, allora sì che capiamo che la salute è il bene più prezioso.
Quindi sì, c’è una responsabilità educativa, e noi la sentiamo tutta. Vogliamo fare di più in questa direzione, e siamo pronti a collaborare con chiunque voglia costruire cultura della cura, fin dalle scuole, nei quartieri, dentro le comunità.
Mario Flavio Benini. Il volontariato è spesso inteso come un atto individuale di dono, ma forse oggi dovremmo fare un passo in più. Non si tratta solo di “dare qualcosa”, ma di esserci: di riconoscere che salute, lavoro, istruzione sono beni comuni, che vivono solo se le persone partecipano.
Parliamo di cittadinanza attiva: non aspettarsi tutto dallo Stato, ma sentire che la comunità è anche responsabilità nostra. Ecco, in questa direzione, che cosa serve per rimettere al centro un’idea collettiva di salute? E come la Banca delle Visite prova a costruire, nella pratica, questo tipo di coinvolgimento?
Michela Dominicis. Sono assolutamente d’accordo: la comunità non può funzionare se la si vive solo come spettatori. E la salute, come dice lei, è un bene comune per eccellenza, ma troppo spesso ce ne rendiamo conto solo quando la perdiamo o quando il bisogno tocca qualcuno vicino a noi.
Nella nostra esperienza, quello che proviamo a fare ogni giorno è riattivare quel legame tra cura e partecipazione. Non è solo questione di donare una visita, ma di riconoscere che anche il gesto più semplice – come raccontare il progetto al proprio Comune o coinvolgere una palestra locale – può generare accesso alle cure per qualcuno che non se le può permettere.
E questo non è solo volontariato: è esercizio di cittadinanza. È dire “io ci sono, per quanto posso”, senza aspettare che tutto sia perfetto. È accettare che possiamo essere parte della risposta, anche se piccola. Perché se ciascuno mette in moto la propria parte, la rete cresce, e la cura si fa più vicina, più accessibile, più umana.
Questa consapevolezza cerchiamo di trasmetterla anche quando entriamo nelle scuole o incontriamo nuovi amici sostenitori: l’idea che la solidarietà non sia un gesto straordinario, ma un modo ordinario di vivere la propria cittadinanza.
E sì, certo, il sistema dovrebbe funzionare meglio, e lo vorremmo tutti. Ma finché non lo fa, è nostro dovere aiutare chi ha bisogno adesso. Perché ogni pasto donato, ogni visita pagata, ogni esame garantito è una persona in meno che resta sola. E per me, già questo, è un buon motivo per esserci.
Evoluzione futura.
Un progetto sociale di successo non resta mai uguale a sé stesso. Si adatta, cambia forma, intercetta nuovi bisogni, ridefinisce priorità e linguaggi. Non segue la logica dell’espansione meccanica, ma quella della maturazione organica: cresce dove trova terreno fertile, si trasforma in risposta alle domande che emergono dalla realtà.
La Banca delle Visite, nata da un’intuizione solidale, è diventata in pochi anni un’infrastruttura civica d’importanza nazionale. Ma oggi si trova davanti a nuove sfide: garantire sostenibilità, radicarsi ancora di più nei territori, costruire ampie alleanze, confrontarsi con i bisogni emergenti della povertà sanitaria, senza perdere la sua vocazione mutualistica e partecipativa.
Guardare al futuro significa interrogarsi non solo su “cosa fare in più”, ma anche su cosa preservare, cosa trasformaree quale orizzonte culturale costruire insieme. In questo capitolo vogliamo esplorare lo sguardo lungo della Fondazione: quali sogni la animano, quali limiti vuole superare, quali strumenti intende adottare per restare fedele alla sua missione e, al tempo stesso, rilevante per le comunità a cui si rivolge.
Mario Flavio Benini. Qual è la visione strategica della Banca delle Visite per i prossimi tre anni? E per i prossimi dieci? Quali obiettivi desiderate raggiungere a breve termine, e quali invece fanno parte di una trasformazione più profonda, di lungo periodo?
Michela Dominicis. Quello che auspico – e che sentiamo come direzione chiara – è che la Banca delle Visite possa consolidarsi in modo stabile e omogeneo su tutto il territorio nazionale. Ci sono ancora molte zone d’Italia dove il nostro progetto è poco conosciuto, e uno degli obiettivi principali dei prossimi anni è raggiungere queste aree, attivare nuovi Amici Sostenitori, costruire nuove alleanze con le comunità locali, e creare presìdi concreti di prossimità.
In prospettiva, vedo anche una naturale evoluzione verso progetti di inclusione sociale più ampi, non solo legati strettamente alla sanità. O meglio: progetti in cui la salute sia inserita dentro un’idea più larga di benessere e dignità, dove si possano attivare sinergie tra sport, cultura, prevenzione, educazione, stili di vita sani.
E, in parallelo, mi piacerebbe vedere crescere la collaborazione con il Servizio Sanitario Nazionale, proprio perché il Terzo Settore può portare quell’agilità, quella rapidità di intervento e quella capillarità che spesso mancano nelle istituzioni. Noi possiamo arrivare dove altri non arrivano, non per sostituirci, ma per integrare, facilitare, connettere. Peraltro da gennaio 2024 da Onlus siamo divenuti ETS, con l’iscrizione nel registro del RUNTS (Registro Unico del Terzo Settore), quindi queste connessioni-ponte sono ancor più auspicabili.
Oggi, se dovessi usare un’immagine, direi che la Banca delle Visite è ancora un bambino piccolo. Nei primi tre anni abbiamo fatto un’enorme crescita, soprattutto in termini di visibilità, rete e impatto operativo. Ma siamo ancora agli inizi: abbiamo costruito le fondamenta, ora c’è un mondo da esplorare.
Ci sono territori da raggiungere, dialoghi da attivare, reti da tessere, modelli da sperimentare. Il nostro sogno è che ogni persona che entra in contatto con la Banca delle Visite non si limiti a dire “che bella iniziativa”, ma possa diventarne parte attiva. Perché è questo il senso: non un’associazione che fa qualcosa per gli altri, ma una comunità che si prende cura di sé stessa.
Alla fine, non è “la mia” o “la tua” associazione. È la nostra rete di cura, la nostra prossimità condivisa. Proprio come lei diceva poco fa: una comunità che include, che connette, che costruisce bene comune. Insieme.
Mario Flavio Benini. È una visione che riporta il sociale al suo significato più pieno: non solo prestazione, ma connessione, dignità, ascolto.
Mi sembra allora naturale concludere con una domanda aperta, ma fondamentale: come possiamo far sì che esperienze come la vostra non restino isolate, ma diventino parte di un cambiamento strutturale nel modo di intendere il welfare in Italia?
Michela Dominicis. Io credo che serva una nuova alleanza tra pubblico, privato e comunità, fondata non solo su protocolli formali, ma su fiducia, visione e capacità di ascolto reciproco. Oggi troppe esperienze di valore lavorano in parallelo, senza comunicare, senza integrarsi. Ma il welfare, se vuole essere davvero efficace, non può essere fatto a compartimenti stagni.
Per questo come dicevo prima, noi cerchiamo, ogni volta che possiamo, di costruire ponti: con i Comuni, con le ASL, con le fondazioni, con le aziende, con le scuole. Ma anche con il vicino di casa, con il medico del quartiere, con chi decide di diventare Amico Sostenitore.
Il cambiamento non nasce da una grande riforma, ma dalla somma di tanti piccoli atti di responsabilità condivisa.
La Banca delle Visite non è solo un progetto, è un invito: unisciti, fai la tua parte, prendi per mano qualcuno che oggi non ce la fa da solo.
E se un giorno arriveremo a non servire più, vorrà dire che la società sarà diventata davvero capace di prendersi cura di sé stessa.
Quel giorno sarà il nostro più grande successo.

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