Resistere è curare. Sokos e la dignità della salute nella marginalità urbana.

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Sokos, la cura come atto politico. Tra povertà sanitaria, diritti negati e resistenze quotidiane.

In un Paese in cui il diritto alla salute è formalmente sancito dall’articolo 32 della Costituzione, ma nei fatti sistematicamente eroso da disuguaglianze economiche, burocratiche e culturali, la povertà sanitaria rappresenta oggi una delle forme più gravi di esclusione sociale. Significa, innanzitutto, per chi vive sotto la soglia di povertà o in quella che viene definita grave marginalità adulta, scoprire che la cittadinanza — quella piena, fatta di diritti concreti e accessibili — può essere sospesa, negata, ritardata. Sotto la superficie delle leggi e dei modelli sanitari universalistici, la realtà materiale di migliaia di persone — migranti privi di documenti, persone senza dimora, soggetti vulnerabili — ci mostra una sanità a doppio binario, dove l’accesso alle cure diventa un privilegio selettivo, non più un diritto inalienabile.

Nel contesto italiano — e in particolare a Bologna — si è sviluppato un arcipelago eterogeneo di pratiche civiche e professionali che hanno cercato di rispondere a questo paradosso. Realtà come Piazza Grande, con i suoi progetti di accoglienza e reinserimento sociale, o Avvocato di Strada, che ha trasformato la tutela legale in uno strumento concreto di ricostruzione della cittadinanza, rappresentano esperienze di frontiera del welfare. E in altre città italiane, organizzazioni come Naga a Milano, Medicina Solidale e Banca delle Visite a Roma, Emergency e Medu (Medici per i Diritti Umani) hanno dato corpo a una medicina altra, una medicina del margine che mette al centro le persone più vulnerabili. In questa geografia della cura, l’associazione Sokos di Bologna rappresenta una delle forme più mature e politicamente consapevoli di medicina sociale in Italia.
Fondata nel 1993 da un gruppo di medici volontari, Sokos si è sviluppata come risposta concreta all’esclusione di migranti e persone marginalizzate dal Servizio Sanitario Nazionale. Non si è mai trattato solo di offrire cure gratuite, ma di restituire diritto, voce e presenza a chi è stato reso invisibile, costruendo un sistema sanitario parallelo che integra competenze cliniche, ascolto interculturale e responsabilità territoriale. L’ambulatorio di via Gorki, 12 con oltre 140.000 pazienti assistiti dalla sua apertura, è diventato un laboratorio vivente di medicina della dignità: un luogo in cui il confine tra cura e giustizia si assottiglia e in cui il gesto medico ritrova la sua natura di atto profondamente politico.

A inquadrare teoricamente l’esperienza Sokos è utile evocare i lavori di Michael Marmot, tra i principali teorici delle disuguaglianze sanitarie. Con il concetto di Status Syndrome, Marmot ha dimostrato che “la posizione di una persona nella gerarchia sociale è uno dei maggiori determinanti della salute nelle nazioni affluenti”: più basso è il tuo status sociale, peggiori saranno le tue condizioni di salute, indipendentemente da fattori genetici o comportamentali. In questa prospettiva, Sokos si presenta come traduzione operativa di un principio di equità, che cerca di disinnescare gli effetti perversi dello status attraverso la riappropriazione del diritto alla cura come diritto di cittadinanza sostanziale.

Ma il lavoro di Sokos può essere letto anche attraverso le lenti della biopolitica contemporanea, come ci insegnano autori come Didier Fassin e Paul Farmer: la medicina non è mai neutra, è sempre inscritta in rapporti di forza, in relazioni di potere, in logiche di inclusione/esclusione. Laddove il sistema pubblico talvolta “traccia linee” — decidendo chi è meritevole di cura e chi no — l’azione di Sokos agisce come contro-pratica, come forma di riappropriazione collettiva del bene comune della salute. In questa visione, il volontariato medico non è un atto caritatevole, ma una forma di “resistenza clinica”, una rivendicazione politica che si esprime attraverso lo stetoscopio, la parola, la continuità dell’ascolto.
L’intervista che segue con Angelo Rossi, responsabile dei progetti territoriali di Sokos, nasce con l’intento di indagare le implicazioni profonde di questo modello. Come si costruisce una sanità realmente accessibile? Quali competenze, reti e visioni sono necessarie per praticare la medicina nella marginalità? Quali ostacoli culturali, istituzionali ed economici restano da superare per affermare una medicina della persona, e non solo del paziente?

In un mondo che produce scarti umani con efficienza crescente, Sokos non offre solo risposte, ma pone domande scomode al sistema sanitario, alla politica, alla società civile. E nel farlo, riafferma che la cura non è mai neutra: è scelta, conflitto, gesto poetico e presa di posizione.

Le origini e l’identità di Sokos. Quando la cura incontra la solidarietà. Bologna, anni ’90, e l’emergere di una medicina civile.

L’esperienza di Sokos si radica in un tempo e in un luogo precisi, ma il suo significato eccede entrambi. Nasce a Bologna nel 1993, in una fase storica in cui la fine della medicina “riparativa” e monocausale – quella centrata sulla malattia, sulla specializzazione, sulla cura episodica – incontra nuove forme di povertà, nuove traiettorie migratorie e una crisi crescente del principio universalistico. La città, da decenni laboratorio politico e sociale, diventa così anche terreno fertile per una medicina della solidarietà, capace di agire là dove lo Stato esita, ritrae o esclude.
Nel primo dopoguerra, la sanità in Italia si era strutturata attorno a istituzioni pubbliche fortemente gerarchizzate. Ma alla fine degli anno ‘70 e gli anni ’90, la scena cambia. Il la riforma Basaglia e la chiusura dei manicomi, l’avvento dell’AIDS, l’immigrazione transcontinentale e la trasformazione del lavoro urbano impongono una nuova domanda di salute: non più solo cura della malattia, ma diritto alla cura, si trasforma in un diritto alla cittadinanza.
È in questo contesto che Sokos prende forma. Il suo nome – che evoca il “soccorso” ma anche la “solidarietà” – non è solo una dichiarazione d’intenti. È una posizione politica. Una risposta a ciò che Michel Foucault aveva chiamato “biopolitica”: il potere che decide chi può vivere e chi può morire, chi merita cura e chi ne resta escluso. Sokos si inserisce in questa frattura, proponendo una medicina civile, volontaria, accessibile, gratuita – una medicina che resiste alle logiche selettive del sistema.

Ma Bologna è anche una città che, negli stessi anni, vede nascere esperienze come Piazza Grande, Avvocato di Strada, le Mense autogestite, le prime case per rifugiati politici. Sokos si muove in questo stesso paesaggio culturale, in dialogo con le istanze di giustizia sociale, antirazzismo, antimilitarismo, che permeano la società civile post-77.
In fondo, come ricorda Ivan Illich, “La medicina moderna rappresenta la negazione della salute. Non è organizzata per servire la salute umana, ma solo se stessa, come istituzione. Fa ammalare più persone di quante ne guarisca”, (Nemesi medica ,1977). Sokos nasce per rinegoziare quella soglia, mettendo al centro non la prestazione ma la relazione, non il codice sanitario ma la narrazione biografica della persona. Una medicina della soglia, in senso fisico e simbolico: tra casa e strada, tra visibilità e invisibilità, tra Stato e cittadino.
Le prime domande dell’intervista si concentrano dunque sulle radici culturali e storiche del progetto: da dove nasce, quale Bologna lo ha reso possibile, come si è trasformato nel tempo e quali sono i principi che, nonostante i mutamenti, restano irrinunciabili per chi lo anima.

Mario Flavio Benini. Sokos nasce nel 1993, in una fase storica segnata da nuove vulnerabilità sociali e da un mutamento nel rapporto tra salute e cittadinanza. Ci racconta quali urgenze hanno dato origine al progetto e con quale visione è stato concepito?

Angelo Rossi. Nei primi anni ’90, a Bologna, cominciavano ad arrivare numerosi migranti privi di documenti regolari. Erano persone senza permesso di soggiorno, spesso in fuga da guerre o da condizioni di povertà estrema, che si trovavano improvvisamente catapultate in una città che non era preparata ad accoglierle. In quel periodo, a Bologna, il Comune era amministrato da una maggioranza divisa: c’erano due persone che si occupano di sanità à – Antonio Berlcastro, di area socialista con un ruolo alle Politiche Sociali e l’altro Alessandro Ancona, Assessore alla Sanità di area comunista – che avevano visioni diverse su come gestire l’accoglienza. Il risultato fu un’impasse: nessuno prendeva una decisione, e intanto quelle persone restavano abbandonate a sé stesse.
Molti migranti vivevano in rifugi improvvisati, fatti di cartone, lamiera o teli di plastica, accampati lungo gli argini dei canali, nelle zone periferiche della città. Famiglie intere, bambini compresi, esposti al caldo torrido dell’estate e al gelo umido dell’inverno bolognese. Per una città come Bologna, che si è sempre considerata accogliente e solidale, era una situazione indecente. Non solo da un punto di vista sanitario, ma umano.
Fu in quel contesto che un gruppo di colleghi – per lo più medici di base, tutti liberi professionisti, affiancati da due infermieri – decise di non restare a guardare. Sentivano che bisognava fare qualcosa. Iniziarono a recarsi direttamente nei luoghi più critici, sugli argini del fiume, per incontrare le persone, ascoltarle, visitarle, portare farmaci e assistenza di base. Non c’era ancora una sede, né un’organizzazione definita: solo la volontà di rispondere a un’urgenza reale con gesti concreti.
Così è nata Sokos. Con il tempo siamo cresciuti, abbiamo trovato uno spazio fisico, costruito una rete, dato forma a un progetto strutturato. Ma lo spirito originario è rimasto: l’idea che curare chi è escluso non sia solo un atto medico, ma un dovere civile. Bologna meritava una risposta diversa. E noi abbiamo cercato di costruirla.

Mario Flavio Benini. Quanto ha pesato il contesto bolognese – con la sua tradizione di attivismo, solidarietà, movimenti sociali e risposte autogestite – nella costruzione dell’identità di Sokos?

Angelo Rossi. Secondo noi ha pesato moltissimo. Bologna è sempre stata una città aperta, dove tutto sembrava possibile, dove chiunque poteva arrivare e trovare uno spazio. Era una città che, anche per tradizione politica e culturale, si distingueva per una forte vocazione alla solidarietà. In quegli anni nasceva, ad esempio, il Cassero, istituito dal Comune come spazio di incontro e riconoscimento per le persone omosessuali – quello che poi sarebbe diventato un punto di riferimento per la comunità LGBT+. Questi segnali non erano isolati: facevano parte di un tessuto sociale e politico in fermento, dove l’accoglienza non era solo una parola, ma una pratica diffusa.
In questo contesto, molte persone in difficoltà, migranti in particolare, si sono riversate su Bologna più che in altre città. Era come se percepissero che qui ci fosse una possibilità in più. E in effetti c’era. Ma proprio per questo, di fronte all’aumento delle fragilità, si sentiva anche più forte una necessità morale, oltre che sanitaria, di intervenire. Non era solo questione di curare chi stava male, ma anche di evitare che la sofferenza si trasformasse in abbandono, in degrado umano.
Sokos nasce anche da questo: dallo spirito cooperativo e mutualistico di Bologna, che è sempre stata un crocevia di esperienze collettive. È stata una risposta spontanea, forse inevitabile. Qualcuno avrebbe potuto pensarci anche prima, ma è stato in quel momento – in quel clima – che l’idea ha preso forma. 

Mario Flavio Benini. Nel corso degli anni, Sokos ha attraversato mutamenti profondi nel sistema sanitario, nelle politiche migratorie e nella composizione sociale dei territori. Quali sono stati i momenti di svolta più significativi nella sua storia?

Angelo Rossi. Il vero spartiacque, la svolta che ha cambiato tutto, è stata l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, nel luglio del 2002. Quella legge ha avuto un impatto devastante sulle persone migranti, soprattutto su chi si trovava in una condizione di irregolarità. Fino ad allora noi ci muovevamo in modo più informale: eravamo un gruppo di amici, volontari, che si organizzavano alla buona, andando dove c’era bisogno. Ma con la Bossi-Fini è cambiato tutto. È diventata una necessità, quasi un’urgenza, strutturarci.
Ricordo che quella legge introdusse misure molto dure, al punto che si arrivò a ipotizzare che chiunque avesse rapporti con stranieri irregolari avrebbe dovuto segnalarli alle autorità. Questo generò paura. Le persone non venivano più da noi, temevano che potessimo denunciarle. E questo, per un ambulatorio che si basa sulla fiducia e sull’accoglienza, era un colpo durissimo.
Fu allora che capimmo di dover fare qualcosa. Una sera, parlando con un utente che ci disse apertamente che non sarebbe più tornato per paura, decidemmo di reagire. Scrivemmo su uno striscione, a grandi lettere: “Noi non denunciamo. Noi curiamo.” Lo appendemmo all’ingresso dell’ambulatorio. Quel gesto simbolico ebbe un effetto immediato. Un po’ alla volta, la gente ricominciò a fidarsi, a tornare.
Quello fu il momento in cui Sokos smise di essere solo un gruppo spontaneo e diventò un’organizzazione vera, con una sede, una struttura, una presenza stabile. La legge Bossi-Fini, per paradosso, ci ha costretto a crescere, a prendere posizione, a trasformare la nostra risposta in qualcosa di più forte e visibile.

Mario Flavio Benini. Ci sono stati altri momenti che hanno segnato, diciamo, un passaggio importante, sempre da un punto di vista del rapporto con la legislazione e con i cambiamenti sociali?

Angelo Rossi. Sì, direi che dopo la Bossi-Fini c’è stato un passaggio quasi naturale, una sorta di continuità dettata dai flussi migratori e dai cambiamenti sociali. Ricordo in particolare l’arrivo massiccio delle persone albanesi, e poi, con l’ingresso della Romania nell’Unione Europea, quello dei cittadini rumeni. Si trattava di trasformazioni importanti, ma a quel punto Sokos aveva già avviato un percorso più strutturato, quindi abbiamo cercato di adattarci gradualmente.
Un’altra svolta, questa volta dal punto di vista organizzativo, è arrivata quando le istituzioni hanno iniziato ad accorgersi davvero di noi. Hanno visto che stavamo facendo qualcosa che loro, per vari motivi, non riuscivano o forse non volevano fare. E così hanno cominciato a darci una forma di riconoscimento concreto.
All’inizio ci assegnarono un piccolo spazio in un quartiere, un ambulatorio piccolissimo, ma per noi fu un segnale importante. Poco dopo, capirono che quello spazio era troppo stretto per le attività che stavamo portando avanti e ci offrirono una sede un po’ più grande. È stato un processo lento ma costante, che ci ha permesso di costruire relazioni sempre più stabili con il Comune, con il quartiere, con l’Azienda Sanitaria. Oggi quel rapporto si è consolidato: c’è un riconoscimento reciproco, un’interazione più organica. Ma tutto è nato da quella spinta iniziale, dal bisogno di rispondere a un’urgenza che altri avevano lasciato inevasa.

Mario Flavio Benini. Quali principi o valori considera oggi non negoziabili per continuare a definire Sokos non solo come un ambulatorio solidale, ma come una pratica politica di cura?

Angelo Rossi. Sì. A dire la verità, mi riconosco in questi valori da moltissimi anni, ben prima di entrare in Sokos. Quando ero ancora all’università, tra gli ultimi esami e la laurea, ho avuto il piacere – anzi, l’onore – di frequentare Giulio Maccacaro, che per me è stato un maestro. Maccacaro, medico e scienziato, è stato il fondatore di Medicina Democratica e uno dei primi a sostenere in Italia l’idea che la medicina non fosse neutrale, che la scienza stessa non fosse neutrale. Con lui ho imparato una cosa fondamentale: che la medicina è sempre anche una scelta politica.
Questo insegnamento mi ha accompagnato in tutta la mia vita professionale, e l’ho portato anche in Sokos. Per noi, curare significa anche prendere posizione, dire le cose come stanno. Quando ci troviamo nel contesto giusto, lo facciamo senza esitazione. Non ci tiriamo indietro.
Ricordo che una volta siamo stati convocati dalla Commissione Sanità del Consiglio Comunale. La Presidente mi conosceva e mi aveva invitato a intervenire. Quando sono andato, ho portato con me i dati sulla sanità e i problemi degli italiani. Lì per lì hanno fatto una faccia perplessa: “Come? Gli italiani?”. E io ho spiegato che sì, a Bologna ci sono anche cittadini italiani in difficoltà estrema, che vivono in strada, che dormono sotto i portici, che non hanno accesso alle cure, e nemmeno da mangiare. Il problema è che molte persone nelle istituzioni, pur con le migliori intenzioni, stanno dentro al palazzo e non vedono cosa accade fuori.
Per noi, invece, la cura è anche questo: prendere parola, dare visibilità, non tacere. È quello che ci spinge ogni giorno.

Mario Flavio Benini. Quali riconoscimenti pubblici e sfide attuali caratterizzano oggi Sokos, e come si manifesta la tensione tra militanza originaria e professionalizzazione?
Una cosa che ho notato – e che non è affatto scontata, neanche tra le organizzazioni del Terzo Settore attive in ambito sanitario – è che voi avete scelto consapevolmente di non seguire la strada della professionalizzazione. Sokos continua a fondarsi interamente sul volontariato. Se sbaglio, mi corregga, ma mi pare che non ci siano persone assunte. Questa scelta mi sembra affine alla filosofia di Avvocato di Strada, che anch’esso opera solo con volontari. È un’impostazione civica molto forte, un’idea di servizio alla comunità che avete saputo mantenere nel tempo. Ma immagino non sia stato semplice: formare, inserire, sostituire volontari richiede un lavoro continuo. Come avete fatto a custodire questo impianto originario senza snaturarlo?

Angelo Rossi. Posso confermarlo con assoluta certezza: ad oggi, nel 2025, nessuna delle persone che lavora in Sokos riceve un solo centesimo. Tutto viene portato avanti su base volontaria. Dal Presidente al Direttore Sanitario, da chi si occupa dell’accoglienza a chi sta in segreteria, tutti dedicano gratuitamente parte del proprio tempo all’associazione.
E non solo tempo: a volte anche risorse personali. Le faccio un esempio. Qualche anno fa, tra il 2021 e il 2022, ci siamo trovati nella necessità di installare l’aria condizionata nei locali dell’ambulatorio. Avremmo potuto farne a meno, certo, ma lavorare meglio – soprattutto nei mesi estivi – significava anche garantire condizioni adeguate per tutti. Non avevamo fondi esterni, così abbiamo fatto una colletta interna tra i soci. Ognuno ha dato quello che poteva e così siamo riusciti a coprire i costi dell’impianto. È stato un gesto collettivo, spontaneo, che racconta bene lo spirito con cui portiamo avanti Sokos.
Riguardo al tema del ricambio – che lei giustamente ha sollevato – ci siamo dotati di un sistema preciso. Abbiamo codificato delle procedure scritte, che ci aiutano a garantire un inserimento graduale e consapevole. Chi vuole iniziare, non comincia il primo giorno mettendosi a lavorare: che si tratti di accoglienza, di attività infermieristica o medica, c’è un periodo di affiancamento. Anche i medici, per esempio, prima di iniziare devono stare per un po’ accanto ai colleghi, osservare, capire il contesto, cogliere le particolarità dell’ambiente e delle persone che si incontrano.
Solo dopo questo periodo, si inizia a operare in autonomia. È un meccanismo che ci permette di mantenere coerenza nei modi, nelle pratiche, nei valori. Ciascuno porta con sé la propria individualità, certo, ma lo fa dentro un impianto comune, riconoscibile, condiviso.

Mario Flavio Benini. La scelta di mantenere negli anni questa cifra fondativa del volontariato – di lavorare solo con persone volontarie – è una delle particolarità più forti di Sokos. Non siete mai scesi a compromessi in questo senso, mentre molte altre associazioni sanitarie, anche molto impegnate con rifugiati e persone senza dimora, hanno adottato modelli misti, delegando funzioni, attivando contratti o inserendo figure retribuite. Mi chiedo allora: quali sono i motivi profondi di questa scelta? Perché, pur potendo forse semplificare la gestione economica o organizzativa, avete deciso di mantenere l’impianto del volontariato puro, come servizio civico donato alla comunità?

Angelo Rossi. A dire la verità, non ce lo siamo mai posti come problema. Mai. E questo per un motivo molto semplice: abbiamo sempre avuto abbastanza persone. A volte addirittura dobbiamo chiedere a qualche collega di non venire, perché gli ambulatori sono già tutti coperti. Nonostante oggi disponiamo di una sede più ampia, anche da un punto di vista della metratura, continuiamo ad avere una partecipazione volontaria costante, generosa. Non abbiamo mai sentito il bisogno di retribuire qualcuno o di offrire un gettone di presenza. Nessuno di noi lavora per denaro. Tutti operano con uno spirito autenticamente volontario.
E le racconto un episodio, che secondo me dice molto di questa atmosfera. Poco tempo fa si sono avvicinati a noi due figure di spicco della sanità bolognese: un professore universitario, Direttore di Istituto, e il Direttore del Dipartimento di oncologia di un importante ospedale della città. Erano prossimi alla pensione. Ci hanno chiesto se, una volta concluso il loro incarico, sarebbe stato possibile venire a lavorare con noi. E così hanno fatto. Sono arrivati con umiltà, si sono affiancati ad altri medici per osservare, per imparare il funzionamento dell’ambulatorio. Due professionisti con una carriera immensa alle spalle che si sono messi in gioco come “scolari”, come li chiamo io, pronti a rimettersi in ascolto. Oggi fanno ambulatorio di medicina generale, come dei qualsiasi medici di campagna.
Questo per dire che lo spirito originario è rimasto intatto, sia in chi c’era già, sia in chi arriva adesso. E d’altra parte, chi cerca altro – chi va in associazioni dove c’è un gettone di presenza – fa un’altra scelta, legittima. Ma non è la nostra. Noi non lo abbiamo mai previsto, e non abbiamo nessuna intenzione di iniziare ora.

Diritto alla salute tra crisi, povertà e ruolo del Terzo Settore.

Negli ultimi decenni, la crisi del diritto alla salute si è manifestata in modo crescente nei sistemi di welfare europei, Italia inclusa, sotto la spinta di trasformazioni demografiche, politiche di austerità e progressiva frammentazione della sanità pubblica. Come ha mostrato Michael Marmot nella sua teoria della Status Syndrome, la posizione sociale di un individuo è uno dei più forti predittori del suo stato di salute: a ogni gradino più basso della scala sociale, corrisponde un rischio più alto di malattia, sofferenza e morte prematura.
Questa realtà non è solo biologica o clinica, ma profondamente politica e strutturale. Le cosiddette cause delle cause (Wilkinson & Pickett, 2009) – povertà, instabilità abitativa, isolamento sociale, mancanza di lavoro – determinano l’accesso alla cura molto più del sistema sanitario in sé. In questo scenario, si acuisce il fenomeno della povertà sanitaria, che colpisce chi, per motivi economici, giuridici, sociali o culturali, non riesce ad accedere a cure adeguate.
All’interno di questa frattura, il Terzo Settore ha progressivamente assunto un ruolo ibrido e strategico, operando tanto come supplenza a un servizio pubblico impoverito quanto come laboratorio di innovazione sociale. Esperienze come Sokos a Bologna, Naga a Milano, Medu a Roma, Medicina Solidale, progetti di Emergency e Caritas, o progetti di stampo mutualistico come Banca delle Visite a Roma, hanno contribuito a riformulare l’idea stessa di salute come diritto incarnato: concreto, situato, accessibile.
Lungi dal colmare semplicemente un vuoto, queste realtà mostrano che la medicina può essere anche un dispositivo di riconoscimento, in grado di restituire cittadinanza simbolica e sociale a chi ne è stato escluso. Ma quali sono oggi i limiti strutturali del sistema sanitario? Qual è il ruolo che associazioni come Sokos possono o devono giocare per rilanciare una visione universalistica e solidale della cura?

Mario Flavio Benini. Vorrei ora affrontare un tema più generale. Oggi, in Italia e in Europa, stiamo assistendo a una crisi evidente del diritto alla salute. Questo fenomeno colpisce sempre più persone che, per ragioni economiche o strutturali, non riescono ad accedere alle cure. In molte aree, soprattutto quelle meno centrali o metropolitane, i servizi sanitari diventano sempre più difficili da raggiungere. E non parliamo solo di migranti o cittadini stranieri, ma anche di un numero crescente di italiani. Dal vostro osservatorio quotidiano, quali sono – secondo lei – i meccanismi di esclusione che colpiscono maggiormente le persone più vulnerabili? Penso, ad esempio, alle persone senza dimora, ai migranti, a chi vive in condizioni di estrema fragilità.

Angelo Rossi. Quando parliamo di esclusione, pensiamo subito alla grave marginalità adulta e ai senza dimora, ma anche agli “irregolari”, ai “sans papier” a quelli che chiamiamo gli invisibili. Sono persone che nessuno sa che esistono, proprio perché – come dicevamo prima – spesso non hanno una casa, non hanno un documento, non hanno un luogo dove stare. E questo ha conseguenze enormi. Se riescono a mangiare, lo fanno grazie a qualche mensa. Se riescono a dormire, è solo quando trovano accoglienza temporanea. A Bologna, per esempio, il Comune attiva il “Piano Freddo” e apre alcuni dormitori invernali, ma non basta. Le loro condizioni di vita sono precarie, instabili, e questa fragilità abitativa li espone inevitabilmente a un rischio sanitario molto più alto. Vivere all’aperto, al freddo, senza un riparo, significa ammalarsi più facilmente, avere meno difese, peggiorare la condizione di salute più in fretta.
Ma non si tratta solo di stranieri o persone senza documenti. Negli ultimi anni abbiamo visto crescere in modo preoccupante anche il numero di italiani che si rivolgono a Sokos. Le do un dato concreto: nel 2023 abbiamo avuto 71 italiani che sono venuti per la prima volta. L’anno dopo, nel 2024, sono diventati 131. Parliamo di 131 cittadini italiani, a Bologna, che si trovano in condizioni così difficili da dover venire da noi per avere un minimo di assistenza sanitaria. È un numero enorme, e per una città come Bologna – che storicamente è stata un simbolo di welfare e accoglienza – è qualcosa che fa riflettere, e anche un po’ paura.
Io sono pugliese, ma vivo a Bologna da oltre sessant’anni, da quando mi sono trasferito per l’università. Bologna era un mito, un punto di riferimento. Ma oggi ci sono oltre cento italiani che non riescono più a curarsi, che si rivolgono a un ambulatorio volontario perché non possono permettersi il medico o non hanno più diritto a ricevere le cure. A questi si aggiungono, ovviamente, gli irregolari, le persone escluse da ogni circuito formale. Ecco il contesto reale in cui operiamo.

Mario Flavio Benini. Come si configura oggi la crisi del diritto alla salute in Italia ed Europa, e quali sono i meccanismi di esclusione che colpiscono maggiormente le popolazioni più vulnerabili?
Dal vostro punto di osservazione quotidiano, quali sono oggi i principali ostacoli che impediscono l’accesso alle cure, sia per le persone italiane che per quelle straniere? In che modo questi fattori si manifestano concretamente nella vostra esperienza?

Angelo Rossi. Per quanto riguarda gli italiani, il problema è molto semplice: non possono permettersi di pagare. Non è tanto una questione di ticket in sé – anche se, come sa, qualche anno fa la Regione Emilia-Romagna li aveva aboliti – ma il fatto è che lo Stato non ha garantito le risorse necessarie, e quindi la Regione è stata costretta a reintrodurli. Il risultato è che molte persone non riescono più a pagare nemmeno il ticket, e allora si rivolgono a Sokos. A Bologna le strutture sanitarie ci sono, l’organizzazione è sempre stata buona, ma non basta. Se non hai i soldi, non accedi nemmeno a quelle strutture. E questo vale per almeno 131 persone italiane che, solo nell’ultimo anno, sono venute da noi per la prima volta.

Per quanto riguarda gli stranieri, è ancora più complicato. Parliamo spesso di persone irregolari, che non hanno nessun documento, nessuna carta che possa garantirgli l’accesso ai servizi. Sono invisibili. Anche quando cercano di andare al pronto soccorso, spesso vengono mandati via. È successo, succede ancora oggi: un uomo del Bangladesh si presenta con un problema respiratorio e viene rimandato a casa. Nessuno lo guarda. E questo non accade solo in qualche piccolo paese del Sud, succede anche qui, a Bologna.
In questi anni abbiamo provato a lavorare per cambiare le cose. Ad esempio, Antonio Mumolo, di Avvocato di Strada, ha promosso una legge che riconosce il diritto di ogni migrante ad avere un medico di base. È stata approvata, ma nei fatti resta lettera morta. La verità è che non ci sono medici. A Bologna c’è una carenza spaventosa: proprio oggi, sui giornali, leggevo che su 1100 posti disponibili nel concorso per medici di base, non si è presentato nessuno. Nessuno. E quindi anche volendo garantire un medico, non ci sono professionisti disponibili.
Abbiamo cercato soluzioni alternative. Durante l’inverno scorso, per esempio, ci siamo accorti che molte persone arrivavano con febbre e tosse. C’era la paura del Covid, il timore di focolai. Ma come fare per fargli fare una lastra al torace, se al pronto soccorso non li accettano? E senza un’impegnativa, le strutture non gliela fanno. Allora abbiamo stipulato una convenzione con una casa di cura privata: pagavamo noi, come Sokos, un certo numero di esami del torace per le persone che inviavamo. Abbiamo anche cercato di estendere questa possibilità, proponendo alle Case della Salute una collaborazione con tariffe calmierate, che avremmo sempre sostenuto noi. Ma stiamo ancora aspettando una risposta. L’inverno è alle porte e, intanto, nessuno si muove.
Ecco, le difficoltà più grandi, oggi, le abbiamo proprio con l’azienda sanitaria locale. È lì che si crea il collo di bottiglia. È da lì che passano – o meglio, non passano – le possibilità di collaborazione, di accesso, di costruzione di percorsi più giusti. E le assicuro che, dopo tanti anni, questa lotta ci stanca. A volte, davvero, ci sfianca.

Mario Flavio Benini. Nel corso di questa conversazione abbiamo parlato molto del contesto istituzionale, delle difficoltà crescenti nell’accesso alle cure e del ruolo di Sokos. Ma se allarghiamo lo sguardo, oggi il Terzo Settore sembra agire come una diga fragile di fronte alla piena di esclusione sociale e sanitaria. Esistono modelli diversi, come la Banca delle Visite a Roma o gli ambulatori rete di Caritas in varie città, NAGA o Post Acute di Fondazione ARCA a Milano, che cercano di offrire prestazioni gratuite o calmierate, costruendo anche alleanze con medici e cliniche per garantire visite a chi non può permettersele. Tuttavia, l’impressione è che queste esperienze, pur lodevoli, siano spesso slegate tra loro e incapaci di incidere su una narrazione politica sempre più indifferente verso chi ha meno. Dal vostro punto di vista, e anche osservando il lavoro delle altre realtà con cui collaborate, cosa riesce davvero a fare oggi il Terzo Settore per le fasce più vulnerabili della popolazione?

Angelo Rossi. Purtroppo, la verità è che viaggiamo in ordine sparso. E questo, come lei diceva, non è mai una tattica vincente. Uniti si vince, ma se ognuno procede per conto suo, anche con le migliori intenzioni, alla fine si riesce a fare solo quello che si può, e spesso non basta.
A Sokos, abbiamo sempre cercato di seguire una logica di continuità: quando una persona entra nel nostro ambulatorio, non la “lasciamo andare” dopo la prima visita. Cerchiamo di accompagnarla fino alla conclusione del percorso di cura, di prenderci carico della sua situazione per intero. Ed è anche per questo che abbiamo più medici specialisti che generalisti. Ogg abbiamo praticamente tutte le specializzazioni in sede. E dove non arriviamo da soli, costruiamo alleanze.
Ad esempio, abbiamo avviato una collaborazione con un’associazione di oculisti che visitano gratuitamente i nostri pazienti come se fossero all’interno di Sokos. Con l’ambulatorio della Caritas di Bologna abbiamo creato una rete: noi gestiamo le cure odontoiatriche anche per i loro pazienti, loro si occupano delle visite dermatologiche anche per i nostri. È una forma di interscambio molto concreta, quotidiana.
E poi abbiamo sviluppato delle pratiche comuni: per esempio, condividiamo informazioni su pazienti che magari abusano di certi farmaci. Cerchiamo di monitorare i percorsi per evitare doppi accessi o abusi: se uno prende un farmaco da noi, non può prenderlo anche da loro, e viceversa. È un lavoro delicato, ma necessario.
Il nostro obiettivo è costruire, almeno a Bologna, una sorta di comunità sanitaria diffusa, in cui il paziente non sia “di Sokos” o “della Caritas”, ma di tutti noi. Dove ogni realtà del Terzo Settore mette a disposizione quello che può per garantire un accesso il più completo possibile, con le risorse che ha.

Certo, sappiamo che questo approccio dovrebbe essere esteso, magari anche a livello nazionale, con contatti regolari tra noi e le realtà di Milano, Firenze, Roma, Torino… ma, lo dico con onestà, non lo facciamo ancora. Non per mancanza di volontà, ma proprio per mancanza di tempo. È anche una questione di spazio mentale e organizzativo.

Mario Flavio Benini. Probabilmente è anche un problema di energie, immagino. Tenere insieme tutto questo richiede risorse che non sempre si hanno.

Angelo Rossi. Sì, assolutamente. Però con alcune realtà ci siamo riusciti. Con il NAGA di Milano, ad esempio, abbiamo costruito una relazione ormai organica. E soprattutto con il Banco del Farmaco: lì il dialogo è costante, molto strutturato. Ma con tante altre realtà, anche importanti, fatichiamo. E la responsabilità, glielo dico chiaramente, è nostra. Perché non riusciamo a trovare il tempo. Il desiderio c’è, ma le giornate sono di ventiquattro ore anche per noi.

Il modello operativo e organizzazione del lavoro a Sokos.

Nel panorama italiano del volontariato sanitario, Sokos rappresenta un caso unico per ampiezza, continuità e strutturazione dell’offerta clinica, riuscendo a coniugare l’accesso gratuito alle cure con un modello organizzativo democratico e multidisciplinare. La sua governance partecipativa, che coinvolge volontari e volontarie nella definizione delle scelte strategiche, si integra con un approccio clinico fondato sulla prossimità, sull’interdisciplinarietà e su una logica di presa in carico a lungo termine.

L’ambulatorio offre oggi ben 17 specializzazioni mediche, affiancate da servizi psicologici, sociali e di mediazione culturale, configurandosi come un presidio sociosanitario completo capace di rispondere a bisogni complessi attraverso un’equipe coordinata e flessibile. Questo assetto consente di intercettare anche quelle fasce di popolazione che solitamente restano escluse dai circuiti di cura – migranti senza permesso di soggiorno, persone senza dimora, minori stranieri – offrendo loro non solo assistenza, ma strumenti di empowerment e accompagnamento sociale.

Il modello Sokos si inserisce nel solco della Primary Health Care delineata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a partire dalla Conferenza di Alma-Ata (1978) e aggiornata con la Dichiarazione di Astana (2018), secondo cui la salute è un processo sociale oltre che medico, e richiede una presa in carico globale e continuativa. In questo senso, l’esperienza Sokos si avvicina anche ai principi proposti da Barbara Starfield, secondo cui un buon sistema di cure primarie è capace di combinare accessibilità, continuità, globalità e coordinamento (teoria delle 4c).

Non meno importante è il riferimento a Ivan Illich, che nella sua critica alla medicalizzazione della società individuava nella “medicina conviviale” un’alternativa basata su relazioni paritarie e saperi condivisi. Sokos, pur operando con strumenti clinici avanzati, sembra recuperare proprio questa idea: la cura come relazione, ascolto, responsabilità reciproca. Il lavoro quotidiano dell’équipe – composta da medici, psicologi, farmacisti, assistenti sociali, mediatori e personale amministrativo – si fonda su meccanismi informali di fiducia, cooperazione e mutualità, valorizzando il sapere esperienziale e relazionale.
Infine, l’integrazione con il territorio e le reti locali – USL, enti pubblici, associazioni – rappresenta non solo un requisito tecnico, ma una dimensione politica dell’agire sanitario, che riconosce nella salute un diritto relazionale e contestuale, da costruire insieme alla comunità.

Mario Flavio Benini. Come si articola concretamente la governance democratica e partecipativa di Sokos? Quali sono i meccanismi decisionali e come si garantisce la partecipazione attiva dei volontari?

Angelo Rossi. In Sokos esiste da sempre un Consiglio Direttivo composto da sei persone, più un Direttore Sanitario, che insieme diventano sette membri in tutto. Il Consiglio viene eletto dall’Assemblea generale dei soci, che è l’organo sovrano. Di norma ci riuniamo circa una volta al mese, ma se ci sono urgenze, il Consiglio Direttivo può assumere decisioni rapide, ovviamente sempre condivise in un secondo momento.

Negli ultimi anni abbiamo sentito il bisogno di rafforzare ancora di più la partecipazione interna, anche in seguito ad alcune difficoltà che abbiamo attraversato e superato. Per questo motivo abbiamo aumentato la frequenza delle assemblee generali: oggi ne convochiamo una ogni due o tre mesi al massimo. Sono momenti importanti, in cui si discute apertamente di tutto. Partecipano quasi tutti i soci: le assenze sono davvero poche, e raramente qualcuno è assente in modo sistematico.

Mario Flavio Benini. Quanti soci ha Sokos oggi?

Angelo Rossi. I soci sono tutte le persone che lavorano nell’associazione, quindi volontari attivi. Oggi siamo più di sessanta, tra medici, infermieri, personale sanitario e amministrativo. Tutti sono coinvolti nelle decisioni e sanno cosa accade all’interno dell’associazione.
Per favorire ancora di più la condivisione, utilizziamo due strumenti interni. Il primo è una casella email comune, “InfoSokos”, che leggono tutti i soci. È uno spazio dove chiunque può sollevare un problema o proporre qualcosa. Chi vuole risponde, commenta, propone alternative. Alcuni magari non intervengono subito, ma sono comunque aggiornati su tutto.
Il secondo strumento è più recente: una cartella fisica presente in sede, dove chiunque può lasciare un messaggio, una segnalazione, un dubbio. Anche i volontari che passano per pochi giorni possono scrivere qualcosa lì. Il nostro Direttore Sanitario, che è uno dei soci fondatori e la vera memoria storica di Sokos, consulta quotidianamente questa cartella e spesso risponde direttamente via mail, oppure porta il tema in discussione collettiva.
Cerchiamo davvero di essere una comunità dove ogni voce può essere ascoltata. A volte discutiamo animatamente – ci “azzuffiamo”, per modo di dire – ma poi troviamo una sintesi. Quando necessario votiamo, ma spesso si arriva a una condivisione piena. Questo è il nostro modo di decidere, ed è rimasto costante negli anni.
Inoltre, proviamo anche a coinvolgere chi riceve le cure. A ogni assemblea interna affiggiamo in bacheca dei cartelli per invitare anche gli utenti a partecipare. Alcuni lo fanno. Magari non capiscono tutto, soprattutto se ci sono barriere linguistiche, ma per noi è importante aprire anche questo spazio. Non è solo simbolico: è un tentativo concreto di allargare il cerchio della partecipazione.

Mario Flavio Benini. Quali sono le principali specializzazioni offerte oggi dall’ambulatorio e come si garantisce la continuità assistenziale? In che modo vengono coordinati i diversi specialisti e quali protocolli clinici si seguono?

Angelo Rossi. Tutto parte sempre dai medici di medicina generale. Sono loro il primo riferimento, il punto d’ingresso per ogni percorso di cura. Lo specialista entra in gioco solo in un secondo momento, quando il medico di base ritiene necessario un approfondimento. Ascolta il paziente, valuta i sintomi, raccoglie il desiderato – e poi, se serve, lo indirizza allo specialista più adeguato.
Ogni specialista fornisce anticipatamente alla segreteria le sue disponibilità, con date e orari. Quando il medico di base decide che è necessaria, per esempio, una visita cardiologica, il paziente esce dall’ambulatorio con l’appuntamento già fissato. Non ci sono tempi morti: il giorno, l’ora e il nome del medico sono già definiti.
Dopo la visita specialistica, viene redatto un referto in due copie. Una viene consegnata al paziente – che, va detto, spesso la smarrisce – mentre l’altra resta agli atti, archiviata nella sua cartella clinica. Idealmente, il paziente torna subito dal medico di base, che riprende in carico il percorso terapeutico. A volte è lo stesso specialista a impostare direttamente la terapia, se il quadro è chiaro e urgente.
Tutto è gestito in un programma informatizzato, dove ogni paziente ha un dossier clinico consultabile da qualsiasi medico o specialista interno a Sokos. Così chiunque può accedere a esami, referti, diagnosi, terapie, annotazioni. Se un paziente torna dopo un mese, chi lo prende in carico ha davanti tutta la sua storia: niente va perso, tutto è documentato. E se ci sono esami fatti fuori da Sokos, vengono comunque archiviati nella cartella cartacea. L’obiettivo è un accompagnamento completo, integrato, continuo.

Mario Flavio Benini. Mentre per quanto riguarda le specializzazioni attive oggi all’interno di Sokos?

Angelo Rossi. Praticamente tutte. Abbiamo cardiologi, gastroenterologi, fisiatri e fisioterapisti, immunologi, nefrologi, urologi, geriatri, chirurghi, ematologi, diabetologi, pneumologi. L’unica specializzazione che purtroppo non siamo riusciti ad attivare è la pediatria, che resta un nostro limite. Curare bambini richiede un’esperienza particolare, e finora non siamo riusciti a colmarla.
Dal 2018 abbiamo anche un servizio di odontoiatria molto strutturato, con due postazioni complete e tre dentisti che si alternano. Non possiamo fare protesi, ma per il resto copriamo tutte le esigenze di base. Siamo attrezzati anche con una piccola radiologia interna per ortopantomografie. Insomma, possiamo dire che da questo punto di vista siamo davvero ben messi. Sokos oggi non è più solo un ambulatorio: è una struttura sanitaria solidale complessa e articolata.

Mario Flavio Benini. Come vengono intercettati e supportati i principali target vulnerabili – come migranti senza permesso di soggiorno, persone senza dimora, lavoratrici domestiche e minori? Quali strategie di outreach e di empowerment mettete in atto concretamente?

Angelo Rossi. La maggior parte delle persone che arriva da noi lo fa grazie al passaparola. È ancora questo, nel bene e nel male, il canale più efficace. Ma il problema vero, da parte nostra, è sempre stato quello della comunicazione. Sokos non è conosciuta come dovrebbe: non tutti sanno che a Bologna esiste questa associazione, e questo dipende anche da una nostra storica difficoltà a promuoverci. Farci conoscere, raccontare quello che facciamo: su questo siamo sempre stati carenti.
Poi ci sono altri meccanismi che si sono attivati nel tempo, alcuni spontaneamente, altri li abbiamo costruiti. Tra quelli spontanei ci sono, per esempio, i casi in cui una persona si rivolge a una mensa o a un pronto soccorso e lì viene indirizzata a Sokos. È diventato quasi un passaggio abituale: chi opera in quei contesti ormai sa che ci siamo e che possiamo offrire un supporto sanitario gratuito, e così ci manda le persone. È un passaggio informale, ma consolidato.
Altri percorsi invece li abbiamo avviati noi. Uno di questi riguarda le carceri. In accordo con la direzione e con le istituzioni penitenziarie, andiamo a incontrare le persone che verranno rilasciate nei mesi successivi. Andiamo dentro, spieghiamo cosa facciamo, lasciamo un contatto. Diciamo loro: “Se uscite e avete problemi di salute, noi ci siamo. Sokos è questo, facciamo questo, vi possiamo aiutare”.
Questo intervento nelle carceri era nato da un progetto ministeriale lanciato quando Roberto Speranza era Ministro della Salute. Si chiamavano “dimittendi”, cioè le persone che nei sei mesi successivi sarebbero state dimesse. C’era un piccolo team che andava in carcere a spiegare cosa c’era fuori ad attenderli: c’erano anche operatori per l’inserimento lavorativo e e Avvocato di Strada per l’assistenza legale. Quel progetto, però, è scomparso subito dopo il Covid. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo deciso di portarlo avanti comunque. Anche se entrare in carcere da volontari è molto più difficile che da detenuti – passi la battuta – siamo riusciti a mantenerlo attivo.
Ma resta, davvero, un grande nodo quello della comunicazione. Le racconto un episodio: lo scorso maggio, a Bologna si è tenuto il Festival della Salute, un’iniziativa importante che si svolge ogni anno in diverse città italiane. Quest’anno il festival si è tenuto nel nostro quartiere e, attraverso la richiesta di patrocinio, gli organizzatori hanno scoperto l’esistenza di Sokos. Ci hanno contattato per invitarci, e io sono andato il giorno dell’inaugurazione convinto di assistere come pubblico. Invece mi hanno chiamato sul palco e mi hanno chiesto di portare un saluto e raccontare chi siamo e cosa facciamo.
Alla fine dell’intervento, un giornalista mi si è avvicinato e mi ha detto: “Ma com’è possibile che non si sappia niente di voi?”. Io ho risposto: “Facciamo quel che possiamo”. E lui: “Avete un problema serio di comunicazione. Se siete d’accordo, potrei occuparmene io”. Mi è sembrata la classica proposta di facciata, una di quelle che finiscono lì. E invece no: la sera stessa mi ha chiamato e mi ha detto che aveva già organizzato un incontro con un’associazione, che sarebbe venuto con la sua troupe a girare un video su Sokos.
E così ha fatto. Il video è uscito il 7 luglio scorso e si intitola “Cos’è Sokos. È molto bello, commovente direi. Lo ha realizzato Franz Campi e lo si può trovare su YouTube. Da lì si sono attivati nuovi contatti e nuove possibilità di far conoscere quello che facciamo. A volte basta una scintilla per accendere una nuova rete di relazioni.

Mario Flavio Benini. Come si relaziona oggi Sokos con il territorio e con le reti sociosanitarie locali? Qual è il rapporto con USL, istituzioni pubbliche e altre realtà del Terzo Settore?

Angelo Rossi. Oggi siamo parte integrante della governance della Casa della Salute: un organismo nel quale siamo stati inseriti e con cui ci confrontiamo periodicamente. Non è un incontro mensile fisso, ma ci vediamo con una certa regolarità e manteniamo uno scambio costante di informazioni e report, in particolare con il quartiere e con la sua Presidente.
Quando il Comune o il quartiere organizzano eventi o tavoli istituzionali, siamo quasi sempre presenti, non solo tra gli invitati ma spesso anche tra i relatori. Quindi da questo punto di vista, la relazione con le istituzioni territoriali funziona abbastanza bene.
Dove invece incontriamo difficoltà è nel rapporto con l’Azienda Sanitaria Locale. Qui la situazione è più complicata. Cambiano spesso i referenti interni, le funzioni si rimescolano di continuo: un giorno dovremmo far parte delle cure primarie, un altro siamo considerati bassa soglia, un altro ancora nessuno sa bene dove collocarci. È tutto molto sfilacciato, molto precario.
Con l’USL ci vediamo in particolare quando c’è da discutere la convenzione. Ma ogni volta sembra di ricominciare da zero: un giorno c’è un interlocutore, venti giorni dopo ce n’è un altro che non sa nulla di quanto discusso prima. E quindi si riparte daccapo. È frustrante.

Mario Flavio Benini. Secondo lei è un problema di volontà politica o più semplicemente di disorganizzazione?

Angelo Rossi. Da medico, e da persona che si è sempre occupata anche di qualità e di comunicazione nelle istituzioni, le posso dire che è un problema di organizzazione e di comunicazione. Scarsa, su entrambi i fronti.
Solo quando gli si presentano dati concreti iniziano a comprendere la portata della situazione. Per esempio, se diciamo: “L’anno scorso a Sokos abbiamo visto 5.000 pazienti”, e li invitiamo a immaginare cosa succederebbe se quei 5.000 pazienti si riversassero sul pronto soccorso – che già lavora in condizioni di stress permanente – allora qualcosa si muove. Allora capiscono. Ma ci vuole ogni volta uno sforzo enorme per portare questi elementi all’attenzione.

Utenza, accesso e cura.

Nel cuore dell’esperienza Sokos si trovano le persone che attraversano la soglia dell’ambulatorio. Non solo pazienti, ma biografie spezzate, vite segnate da povertà, esclusione, violenza sistemica. Comprendere chi sono queste persone, come accedono al servizio e quale tipo di relazione terapeutica si costruisce con loro, significa entrare nel vivo del significato profondo della cura per Sokos.

La grave marginalità sanitaria, infatti, non si manifesta solo come assenza di accesso formale ai servizi, ma come condizione di invisibilità sociale. In questa prospettiva, la salute non è semplicemente un bene da restituire, ma un diritto da riconoscere, spesso negato a soggetti considerati “non degni” o “non legittimi” di riceverlo. Didier Fassin, nella sua analisi sulla “biopolitica dell’abbandono”, ci ricorda che esiste un potere selettivo di vita e morte che attraversa i dispositivi di cura: chi viene assistito, chi viene escluso, chi viene dimenticato (“Life: A Critical User’s Manual”, 2018).
Sokos si propone come contro-dispositivo in questo scenario, offrendo una cura accessibile, gratuita e incondizionata. Ma ancora di più: l’ambulatorio si propone come spazio di riconoscimento narrativo, dove la storia di vita della persona – e non solo la diagnosi – diventa elemento centrale della relazione terapeutica. Qui la medicina narrativa assume un valore politico oltre che clinico: è lo strumento con cui i soggetti riacquistano voce, nome, presenza, appartenenza.
Questa sezione dell’intervista esplora le modalità di accesso ai servizi, le strategie relazionali adottate dagli operatori, la composizione dell’utenza e il significato attribuito al racconto nella pratica clinica.

Mario Flavio Benini. Chi sono oggi le persone che si rivolgono a Sokos? Quali sono le loro caratteristiche principali?

Angelo Rossi. Nel nostro report del 2024 abbiamo analizzato in dettaglio questo aspetto, ma le faccio un riassunto. Nell’ultimo anno abbiamo preso in carico 2.800 pazienti, di cui 841 erano nuovi ingressi: persone che si rivolgevano a Sokos per la prima volta. Di questi, 131 erano italiani. È un dato importante, che conferma un trend in crescita che ci colpisce ogni anno di più.
Per la prima volta, nel 2024, il numero degli uomini ha superato quello delle donne, invertendo una tendenza consolidata. Le provenienze più frequenti sono l’Europa dell’Est e il Sud-Est asiatico, in particolare Bangladesh e Pakistan, ma non mancano cittadini italiani, soprattutto uomini, anche se tra le donne italiane la presenza è minore.
Ma più che alle nazionalità, dobbiamo guardare alla condizione esistenziale di queste persone: sono gli invisibili. Gente senza permesso di soggiorno, senza documenti, senza alcuna iscrizione nei registri ufficiali. Persone che, da un punto di vista istituzionale, non esistono. Eppure hanno bisogno di cure, spesso urgenti. Sono lavoratori migranti che magari riescono a “slavoricchiare”, ma che non hanno alcun diritto formale, nemmeno quello alla salute.
Negli ultimi tempi, si sono attivate anche forme di collaborazione con alcune strutture per minori non accompagnati, in particolare con realtà che accolgono ragazzi sbarcati ad esempio a Pozzallo e poi trasferiti in strutture dell’area metropolitana bolognese. Sono state le stesse strutture a indicarci come medici di fiducia, e da allora portano da noi i ragazzi per le visite e i controlli.
Un’altra categoria che incontriamo spesso è quella dei lavoratori rumeni, che vivono una situazione legislativa assurda. Nonostante lavorino e, teoricamente, potrebbero richiedere un medico di base, si trovano incastrati in problemi burocratici complessi, legati alla distinzione tra STP (Straniero Temporaneamente Presente) e ENI (Europeo Non Iscritto). Chi ha un codice ENI è tenuto a pagare il ticket, e spesso non se lo può permettere.
È un caos normativo che non creiamo noi: è il frutto delle ambiguità e delle rigidità del sistema. Gli amici di Avvocato di Strada, che conoscono bene queste dinamiche, ci aiutano spesso a orientarci in questa giungla.

Mario Flavio Benini. Negli anni, a seconda delle ondate migratorie, sono cambiate le provenienze geografiche delle persone che si rivolgono a Sokos. Ma chi sono, in sostanza, gli utenti di oggi? E come si è trasformato nel tempo il profilo delle persone che accogliete?

Angelo Rossi. All’inizio erano soprattutto donne provenienti dall’Est Europa, in particolare donne che venivano in Italia per fare le badanti: ce n’erano tantissime, ed erano le più numerose. Poi, per un certo periodo, sono arrivati soprattutto nordafricani, sia uomini che donne. Oggi, invece, il flusso si è spostato verso il Sud-Est asiatico: parliamo di persone provenienti da Siria, Afghanistan, Bangladesh, Pakistan, Filippine. A questo si aggiunge un gruppo importante che arriva dal Sud America, in particolare una grossa comunità peruviana. Sono migranti che spesso vivono in condizioni di precarietà, sfruttamento lavorativo e marginalità sociale, molti dei quali senza documenti o permesso di soggiorno.

Mario Flavio Benini. E rispetto alla relazione con la medicina, come si rapportano queste persone — provenienti da contesti culturali diversi — ai percorsi di cura e alle pratiche sanitarie? Incontrate difficoltà legate a barriere culturali o linguistiche?

Angelo Rossi. Il problema più grande lo incontriamo con le donne di cultura araba, specialmente quelle appena arrivate in Italia. Vale anche per molte donne del Bangladesh e del Pakistan: arrivano accompagnate dai mariti o da altri uomini della famiglia, e questi pretendono di entrare nella stanza della visita, di rimanere presenti, di controllare tutto. In molti casi, le donne non si lasciano nemmeno guardare la pancia, mostrare le gambe, anche se hanno lividi, patologie visibili o necessità di accertamenti. È molto difficile per loro esporsi, soprattutto se davanti hanno un medico uomo.
Personalmente ho vissuto due episodi che non dimenticherò mai. Il primo è stato con due ragazze appena sbarcate, con due bambine che avevano subìto violenze terribili, cose che non avevo mai visto né sentito raccontare prima. Una delle due aveva una tale difficoltà a rapportarsi con me — probabilmente perché, come uomo, rappresentavo ciò che l’aveva traumatizzata — che sembrava impossibile avviare qualsiasi visita.

Un’altra volta, una giovanissima ragazza pakistana, sposata a 13 o 14 anni con un uomo molto più grande, non riusciva nemmeno a parlarmi, figurarsi lasciarsi visitare. A quel punto mi è tornato in mente qualcosa che avevo visto anni prima, durante un’esperienza in Africa. In un film, Viaggio a Kandahar, si vedeva un medico visitare una donna da dietro un telo, per rispettare le sue credenze. Allora ho fatto lo stesso: ho spento la luce, ho messo un paravento e ho eseguito la visita al buio, da dietro la tenda. Solo così è stato possibile curarla.
Ecco, queste sono le difficoltà che affrontiamo. Ma, devo dire, con un po’ di buon senso e rispetto per le culture altrui, sono problemi che si possono gestire. Non sono insormontabili.

Mario Flavio Benini. Capita che in alcune situazioni, accanto alla componente medica, venga coinvolto anche qualcuno che si occupa della parte psicologica? Avete all’interno figure dedicate o collaborazioni con professionisti?

Angelo Rossi. Sì, certo. Abbiamo un servizio di psicologia attivo e anche due neuropsichiatri che seguono i pazienti. In molti casi, soprattutto quando si tratta di persone che arrivano da case di accoglienza, c’è già un educatore che le accompagna, se non è presente un familiare. A volte è lo stesso educatore a essere psicologo, oppure ci sono psicologi che li seguono esternamente. Ma noi, all’interno di Sokos, abbiamo sia psicologi volontari che neuropsichiatri, e questo ci permette di dare una prima risposta anche su quel fronte.

Mario Flavio Benini. Vorrei affrontare un tema che mi sta molto a cuore, e che ho riscontrato essere cruciale anche in tante altre realtà del Terzo Settore: quello della narrazione. Quando una persona si rivolge a un servizio come il vostro, spesso è chiamata a raccontarsi — non solo dal punto di vista sanitario, ma anche umano, personale, esistenziale. A volte questo racconto emerge spontaneamente, a volte con fatica o reticenza. C’è chi mischia verità e immaginazione, chi rimuove, chi seleziona cosa dire e cosa no, anche per difesa.
Quello che mi chiedo è: come vivete voi questo aspetto? Che significato ha per Sokos la narrazione biografica dei pazienti? Riuscite a costruire relazioni in cui la persona si sente ascoltata, riconosciuta, anche al di là del dato clinico?

Angelo Rossi. ÌÈ un tema che mi interessa moltissimo, anche a titolo personale. Mi piace moltissimo l’idea di raccogliere le storie di vita, di andare oltre la cartella clinica, l’anamnesi, i numeri. Purtroppo, però, devo essere sincero: non sempre ci riusciamo. E la responsabilità è anche nostra. Non sempre siamo in grado di entrare in empatia profonda con le persone che accogliamo. Qualche volta ci riusciamo, e quando accade è bellissimo.
Alcuni di questi pazienti, nel tempo, sono diventati volontari a Sokos: oggi fanno accoglienza, fanno parte dell’organico, ci aiutano a capire meglio le loro storie e i loro mondi. Con loro abbiamo conosciuto anche le famiglie: padri, madri, zii, nonni che ci vengono a trovare, ci portano le persone care, si fidano di noi.
Penso, ad esempio, a una studentessa iraniana che vive a Bologna e ha parenti che hanno serie difficoltà ad accedere alle cure. Quando arrivano parenti dall’Iran, li porta da noi per farli visitare. Come se l’incontro con Sokos fosse diventato parte del suo mondo di fiducia.
Queste narrazioni sono toccanti, affascinanti, ma anche difficili da gestire, almeno per me. Devo fare una mea culpa: io mi immedesimo troppo. Quando ascolto certe storie, mi commuovo. Faccio fatica a mantenere la distanza emotiva. E questo, a volte, mi rende complicato affrontare tutto con lucidità.

Mario Flavio Benini. Mi diceva che alcune di queste persone, una volta costruito un rapporto di fiducia, restano come volontarie. Ne approfitto per chiederle: avete all’interno anche mediatori culturali, persone che facilitano il dialogo, soprattutto quando ci sono ostacoli linguistici o culturali importanti?

Angelo Rossi. Collaboriamo con diversi mediatori culturali, provenienti da paesi e lingue diverse, che ci danno una mano preziosa. Ce n’è una araba, altri da diversi paesi africani e asiatici. Sono madrelingua ma parlano bene l’italiano, e questo è fondamentale. Perché se con i giovani e con alcuni uomini spesso riusciamo a comunicare anche in inglese, francese o spagnolo — lingue che un po’ tutti noi mastichiamo — con molte donne è più difficile.
Alcune parlano solo Pashtun, o dialetti africani che non coincidono nemmeno con le lingue ufficiali dei paesi da cui provengono. In quei casi il mediatore è indispensabile.
Il vero problema però lo abbiamo con i pazienti cinesi. Non abbiamo mediatori culturali cinesi, e quindi spesso ci troviamo in situazioni complicate. Loro arrivano con un parente, un cugino magari, che dice di parlare italiano o inglese. Ma poi ci parlano in cinese, si scambiano frasi tra di loro, e poi ci mostrano il telefono: hanno usato Google Translate o un’app di traduzione automatica per farci leggere il messaggio in italiano. È l’unico modo che hanno per farsi capire.

Alleanze, reti e relazioni territoriali.

Ogni intervento sulla salute non avviene mai in uno spazio vuoto. Si colloca invece all’interno di una rete complessa di relazioni, istituzioni, conflitti e collaborazioni che definiscono la possibilità stessa di agire. Sokos, da questo punto di vista, non è solo un ambulatorio, ma un nodo attivo di una costellazione urbana di cura, che si muove tra pubblico, privato sociale e cittadinanza attiva.

La città può essere tanto un luogo di cura quanto uno spazio di esclusione e disuguaglianza. Le discontinuità nei servizi, le barriere amministrative, l’assenza di coordinamento tra attori sono spesso elementi che cronicizzano la vulnerabilità. In questo contesto, Sokos assume un ruolo interstiziale, di terzietà operativa, facendo da ponte tra istituzioni sanitarie, Terzo Settore, Case della Comunità e popolazioni escluse. È in questa funzione di mediazione territoriale che l’ambulatorio si configura come una delle “infrastrutture del comune”, nel senso attribuito da Chiara Marchetti e Nancy Fraser: dispositivi ibridi, spesso informali, che garantiscono diritti dove le istituzioni falliscono.
Non si tratta solo di fornire prestazioni mediche, ma di costruire relazioni di sistema, spazi di dialogo, conflitto, convergenza. La capacità di Sokos di generare alleanze – con l’USL, con altre organizzazioni del Terzo Settore, con le nuove Case della Comunità – diventa così un indicatore fondamentale della sua efficacia sistemica e della sua intelligenza territoriale.
Questa sezione dell’intervista esplora il posizionamento di Sokos nel tessuto urbano bolognese, le sue reti di collaborazione, e le tensioni creative che ne derivano.

Mario Flavio Benini. In che modo dialogate con le altre realtà del Terzo Settore che si occupano di salute sul territorio? Esistono spazi di coordinamento o percorsi condivisi?

Angelo Rossi. Negli ultimi tempi sono stati avviati alcuni incontri promossi dall’Ordine dei Medici, con l’obiettivo di realizzare una mappatura delle realtà del Terzo Settore attive nell’ambito sanitario nella provincia di Bologna. È un’iniziativa importante, e devo dire che in questo percorso dobbiamo riconoscere il ruolo prezioso dei Quartieri, che hanno saputo creare occasioni di confronto e di visibilità.
In particolare, il Quartiere Navile–Corticella, dove ha sede il nostro ambulatorio, è molto attivo da questo punto di vista. Periodicamente organizza feste di quartiere, chiudendo le strade per trasformarle in spazi di socialità e partecipazione. In queste occasioni non ci invita soltanto, ma — direi con affetto — ci “costringe benevolmente” a partecipare: a tenere aperta la sede, a raccontare cosa facciamo, a renderci visibili alla cittadinanza.
Queste iniziative hanno fatto sì che Sokos diventasse un punto di riferimento non solo per i migranti, ma anche per molti cittadini del quartiere, in particolare anziani e pensionati. Vengono da noi a misurare la pressione, a farsi controllare se hanno mal di testa, magari perché il medico di base non è disponibile. Il nostro ambulatorio è diventato uno spazio di prossimità aperto a tutti, ed è proprio grazie alla fiducia costruita nel tempo con il Quartiere che questa relazione si è rafforzata.
Per quanto riguarda il dialogo con le altre strutture sanitarie del Terzo Settore, abbiamo qualche interazione istituzionale, ma al momento non esiste una rete strutturata, ad eccezione della collaborazione più consolidata con gli Ambulatori Biavati e con Caritas. Il Quartiere, in questo senso, è stato e continua a essere un vero collante, capace di favorire sinergie e di creare spazi di prossimità che vanno ben oltre la logica emergenziale. Sta facendo davvero un lavoro interessante e generativo.

Mario Flavio Benini. Che tipo di rapporto avete con le nuove Case della Comunità e, più in generale, con la medicina territoriale che si sta riorganizzando a seguito del PNRR?

Angelo Rossi. A Bologna questo processo è ancora in fase iniziale, direi che sta appena partendo. Se ne parla molto, ma da un punto di vista operativo siamo ancora lontani da un reale consolidamento. Prima si chiamavano Case della Salute, poi sono diventate Case di Quartiere, oggi si parla di Case della Comunità. Le etichette cambiano, ma il lavoro sul campo procede a rilento. Noi, come Sokos, siamo stati formalmente invitati a far parte della governance: partecipiamo al gruppo di lavoro ristretto che si occupa della progettazione e della ristrutturazione di queste nuove strutture. A Bologna ce ne sono diverse in fase di avvio e, devo riconoscere, che sia i dirigenti sanitari, sia in particolare il Quartiere Navile, che coordina questa trasformazione, ci coinvolgono regolarmente. Siamo stati inseriti d’ufficio nella governance, un segno di fiducia e riconoscimento importante.
Tuttavia, al di là delle riunioni e delle intenzioni dichiarate, sul piano pratico è stato fatto molto poco. Si discute, si pianifica, si annuncia: “faremo”, “sentiremo”, “progetteremo”… ma i bisogni reali delle persone non aspettano.
Le faccio un esempio concreto: abbiamo chiesto mesi fa un collegamento operativo con la Casa della Comunità del Navile, la più grande di Bologna, per poter accedere in casi urgenti al servizio di radiologia, ad esempio per effettuare toraci a persone senza dimora con sintomi sospetti. Stiamo ancora aspettando risposta.
Il problema, in sintesi, è che i tempi della politica e dell’amministrazione non coincidono con i tempi delle necessità sanitarie. E quando si ha a che fare con persone fragili, che vivono in strada o in condizioni precarie, ogni attesa rischia di diventare una rinuncia.

Sokos e i modelli italiani di medicina sociale.

Nel panorama italiano, il diritto alla salute si trova oggi a fare i conti con una crisi che non è solo economica o organizzativa, ma culturale e politica. L’universalismo faticosamente costruito nel secondo dopoguerra mostra oggi le sue fragilità, in particolare quando si confronta con le vite spezzate dalla marginalità estrema. Le fratture del sistema pubblico, i vuoti lasciati dalla sanità territoriale, e la crescente medicalizzazione delle disuguaglianze hanno aperto spazi inediti in cui è emersa una costellazione di pratiche alternative: reti di volontariato, ambulatori sociali, cliniche mobili, presìdi di prossimità che non solo tamponano i fallimenti del sistema, ma propongono altre forme di cura, fondate su prossimità, autodeterminazione e riconoscimento.
L’esperienza di Sokos si colloca in questo scenario come un esperimento peculiare, capace di combinare accessibilità radicale, rigore clinico e democrazia interna. Ma non è sola. Al suo fianco operano modelli affini come Emergency, che ha portato la medicina gratuita nei contesti urbani italiani; Naga, che da Milano ha costruito un sapere profondo sull’interculturalità e la condizione giuridica dei migranti; Medicina Solidale, legata a un universo più ecclesiale ma altrettanto presente nelle periferie; Medu, che ha fatto della mobilità, della testimonianza e dell’advocacy la propria cifra distintiva e Banca delle Visite che nasce da esperienze storiche di assistenza mutualistica. Accanto a queste esperienze, il sistema delle Case della Comunità previsto dal PNRR rappresenta oggi la grande sfida pubblica per un ritorno alla sanità territoriale, ma resta segnato da ambiguità, lentezze e zone d’ombra.
Confrontare Sokos con queste realtà non significa costruire una classifica, ma interrogare le differenze profonde che attraversano il campo della medicina sociale: chi decide, quali servizi si offrono, come si reggono economicamente, quale impatto generano. Nelle parole di Angelo Rossi esploreremo il posizionamento strategico di Sokos rispetto a questi modelli, indagando come si possa tessere una trama comune tra approcci differenti, senza perdere la specificità di ciascuno. Perché la sfida non è solo garantire più servizi, ma costruire un’architettura solidale della cura capace di resistere nel tempo, di contaminare il sistema pubblico e di restituire dignità a chi ne è stato privato.
A partire da questo scenario, la conversazione si apre con una riflessione sul ruolo di Sokos rispetto ad altri modelli di medicina sociale in Italia. In che modo l’associazione si differenzia, cosa condivide e cosa può insegnare o apprendere da esperienze come Emergency, Naga, Medicina Solidale, Medu o Banca delle Visite? Si passa poi a discutere delle possibili sinergie: quali sono le relazioni attivate, le collaborazioni in corso, le difficoltà incontrate nella costruzione di alleanze stabili? L’attenzione si sposta quindi sul rapporto con le istituzioni pubbliche, in particolare con le Case della Comunità: che tipo di convergenze o conflitti esistono? E infine, ci si interroga sulla possibilità di costruire una rete nazionale capace di unire queste esperienze, trasformando la frammentazione in una forza sistemica.

Mario Flavio Benini. Dal vostro punto di vista, in che modo l’esperienza di Sokos si differenzia – o si avvicina – ad altre realtà italiane che operano nell’ambito della salute e dell’accesso alle cure per persone vulnerabili, come Emergency, Naga Milano, Medicina Solidale, Banca delle Visite a Roma o Medu? Ci sono elementi di convergenza nei valori e nelle pratiche operative, oppure differenze rilevanti nei modelli e nel rapporto con il sistema pubblico?

Angelo Rossi. Se dovessi rispondere in base all’affetto, direi subito Emergency. Perché ci sono stato, ho vissuto nove anni in Africa con loro, dentro un progetto importante, e come si dice… il primo amore non si scorda mai. Con Emergency ho condiviso esperienze profonde e una visione della salute come diritto universale, che ancora oggi mi porto dietro.
Dal punto di vista organizzativo, però, il modello che più sento vicino è sicuramente quello del Naga di Milano. Non ho mai avuto l’occasione di visitarlo personalmente, ma ci siamo confrontati più volte a distanza, scambiandoci informazioni, materiali, buone pratiche. Alcuni dei volontari più anziani di Sokos lo considerano un punto di riferimento. Ad esempio, di recente abbiamo dovuto affrontare un problema legato all’assicurazione dei volontari, a causa delle nuove normative sul Terzo Settore, e ci siamo rivolti proprio al Naga per capire come si fossero organizzati. Ci hanno dato una mano.

Mario Flavio Benini. Quindi, almeno per le realtà che conoscete direttamente, possiamo dire che ci sia una certa coerenza nei modelli operativi?

Angelo Rossi. Sì, esatto. Per quelle che conosco più da vicino, direi che ci muoviamo tutti lungo la stessa traiettoria. Certo, ognuno con le proprie specificità, ma in linea generale condividiamo gli stessi valori di solidarietà, di gratuità, di prossimità. E soprattutto lo stesso intento: offrire un’alternativa reale a chi è escluso dal sistema sanitario pubblico.

Mario Flavio Benini. La collaborazione tra Sokos e Caritas Bologna sembra oggi particolarmente solida. Ci racconta com’è nata, come si è evoluta e che ruolo ha avuto il Cardinale Zuppi in questo rapporto?

Angelo Rossi. La collaborazione con Caritas Bologna è nata in modo del tutto inaspettato, e il merito principale è senza dubbio del Cardinale Matteo Zuppi, che all’epoca era Arcivescovo della città e oggi è Presidente della CEI.

Tutto è cominciato quando, qualche anno fa, ci siamo presentati alla Caritas come associazione ancora poco conosciuta, chiedendo semplicemente un incontro. Non ci aspettavamo una risposta così immediata: il Cardinale ci ha ricevuti di persona, con grande apertura, e ci ha chiesto chi fossimo, cosa facessimo, quali persone seguissero le nostre cure. Si è mostrato entusiasta del nostro lavoro.
Pochi giorni dopo è venuto a visitare la nostra sede. Non in forma ufficiale, ma da cittadino semplice, accompagnato solo dal suo segretario. È passato in un giorno di ambulatorio aperto, si è fermato a lungo, ha parlato con tutti, ha visitato gli spazi, ha osservato le attività in corso. Ricordo che ha incontrato alcuni pazienti angolani e si è messo a parlare con loro nella loro lingua, perché anni fa era stato nunzio apostolico in Angola. È rimasto con noi per tutto il pomeriggio. Un gesto di grande umanità e vicinanza.
È grazie a lui che il rapporto con Caritas si è strutturato. Da semplici vicini – perché la nostra sede è accanto agli ambulatori – siamo diventati partner organici. Zuppi ha individuato un sacerdote di riferimento, oggi responsabile della Caritas, con cui ci incontriamo quasi ogni mese, per coordinarci sulle attività sanitarie e condividere percorsi di cura per le persone più fragili.
A un certo punto era stata ipotizzata anche una sorta di coordinamento formale tra ambulatori, con sede proprio presso Caritas. Ma il sacerdote ha preferito non accentrare, dicendo chiaramente: “Se volete incontrarvi, bene. Ma il coordinamento non lo facciamo noi. Se serve, veniamo da voi.”
Oggi posso dire che i rapporti sono davvero ottimi. Collaboriamo con regolarità, ci scambiamo specialisti (noi facciamo odontoiatria, loro ci supportano con la dermatologia), condividiamo pazienti e casi complessi. Ma ripeto: tutto è nato da una visita sincera e informale, e dalla volontà di un uomo – Zuppi – che ha saputo ascoltarci e metterci in rete. È stato fondamentale.

Sguardo globale: modelli internazionali di medicina sociale.

In un’epoca di crescente disuguaglianza globale, la salute emerge sempre più chiaramente come barometro delle ingiustizie sociali, ma anche come campo fertile per pratiche di trasformazione. Guardare ai modelli internazionali di medicina solidale e comunitaria non significa solo confrontare soluzioni operative, ma interrogarsi sulle forme attraverso cui la cittadinanza, i diritti e la cura prendono corpo in diversi contesti socio-politici.

A seconda della geografia, della storia coloniale, dei sistemi di welfare e delle culture politiche, le esperienze di sanità per le persone escluse – homeless, migranti, lavoratori informali, popolazioni indigene – assumono caratteristiche radicalmente diverse, ma condividono una tensione comune verso l’universalismo praticato. Dagli Health Care for the Homeless statunitensi ai servizi comunitari del NHS britannico, dai modelli mutualistici latinoamericani alla medicina aborigena australiana, si disegnano paesaggi sanitari alternativi, talvolta nati dal basso, che mettono al centro la dignità, l’accessibilità e la prossimità.
Nel lavoro di Paul Farmer e di Partners In Health, nella Street Medicine di Jim Withers o nel modello delle Community Health Workers in Africa e Sudamerica, si ritrova una costante: la salute come bene comune, che non può essere disgiunta da giustizia sociale, equità e partecipazione. Anche la teoria dei determinanti sociali della salute – in particolare il lavoro di Michael Marmot – si è imposta a livello internazionale come cornice per ripensare la relazione tra status sociale, povertà e salute, influenzando policy pubbliche e pratiche del Terzo Settore in molte parti del mondo.
In questo orizzonte globale, l’esperienza di Sokos si colloca come esempio locale di una medicina trans-locale, che condivide pratiche e valori con reti internazionali pur mantenendo una forte radicazione territoriale. Il confronto con queste esperienze internazionali può offrire elementi di ispirazione, apprendimento e riconoscimento reciproco, contribuendo a consolidare un movimento globale per la salute come diritto incarnato.

Mario Flavio Benini. Quali esperienze internazionali considerate particolarmente affini o stimolanti per Sokos, sia dal punto di vista clinico che organizzativo? Ci sono modelli, pratiche o progetti in altri Paesi che vi hanno ispirato o che ritenete interessanti per sviluppi futuri?

Angelo Rossi. Devo ammettere che, come Sokos, non abbiamo ancora sviluppato un confronto sistematico con esperienze internazionali, né abbiamo instaurato collaborazioni dirette con realtà all’estero. È un ambito che ci interessa e che sarebbe molto stimolante approfondire, ma per ora è rimasto sullo sfondo, probabilmente anche per questioni di tempo e di risorse.
Tuttavia, sul piano personale, ho vissuto per anni un’esperienza che mi ha profondamente segnato e che ha influenzato anche il mio modo di intendere il lavoro clinico, relazionale e comunitario. Per nove anni ho lavorato in Africa con Emergency, seguendo un progetto sanitario in Sierra Leone, dedicato in particolare alla cura dei bambini vittime di gravi ustioni e danni esofagei.
In Sierra Leone, infatti, è purtroppo prassi comune che i bambini bevano soda caustica – una sostanza distribuita gratuitamente dal governo alle famiglie per produrre sapone in casa. Il problema nasce quando, per disattenzione o ignoranza, questa sostanza viene lasciata alla portata dei più piccoli. Le conseguenze sono drammatiche: ustioni interne, stenosi esofagee, malnutrizione, dolore cronico.
In quel contesto, insieme a una straordinaria pediatra locale – una delle poche formate nel Paese – andavamo settimanalmente nei villaggi più remoti, non solo a curare, ma a fare prevenzione, educazione sanitaria, sensibilizzazione. Spiegavamo alle madri come maneggiare la soda in sicurezza, come nutrire i bambini in modo corretto con i pochi alimenti disponibili, come riconoscere i primi segnali di pericolo.
Quello che mi colpiva ogni volta era la partecipazione collettiva: quando arrivavamo, interi villaggi si mobilitavano, nessuno restava a casa. La pediatra conosceva tutti per nome, c’era un rapporto profondo, una fiducia autentica. Non era solo medicina: era cura della comunità nel senso più pieno del termine.
Ecco, se dovessi dire quale esperienza internazionale porto con me come riferimento, direi proprio questa: una medicina radicata, che si fa prossimità, educazione, relazione stabile e riconoscibile. Un’esperienza che, pur molto diversa da quella che viviamo ogni giorno a Bologna, ha lasciato un segno profondo anche nel modo in cui oggi penso al lavoro con i pazienti a Sokos.
Credo che, in futuro, sarebbe bello aprire un confronto più strutturato con realtà simili – penso al lavoro di Emergency, di Medici Senza Frontiere, ma anche a esperienze di medicina comunitaria in America Latina o nei paesi del Nord Europa. Ci aiuterebbe a uscire dal nostro orizzonte locale e a trovare stimoli nuovi per affrontare sfide che ormai sono globali.

Sokos come soggetto politico e culturale.

La cura, nella sua forma più piena, è un gesto che eccede la tecnica e si inscrive nella sfera del riconoscimento. In questa prospettiva, l’azione di Sokos assume una portata che non si esaurisce nell’intervento clinico, ma si traduce in una forma di resistenza quotidiana alle disuguaglianze prodotte da un sistema sanitario sempre più selettivo. Prendendo le mosse da Cornelius Castoriadis e da Joan Tronto, potremmo dire che Sokos pratica una cura intesa come atto di auto-organizzazione e cittadinanza attiva, come costruzione collettiva di spazi dove la dignità della persona viene riaffermata contro l’indifferenza sistemica.
In una società segnata da quello che Didier Fassin definisce una “biopolitica dell’abbandono”, in cui le vite di alcune persone vengono sistematicamente rese sacrificabili, Sokos rivendica un altro paradigma: quello della cura come diritto inalienabile e della medicina come forma di advocacy incarnata. Judith Butler ha osservato che riconoscere la vulnerabilità altrui significa anche riconoscere la nostra interdipendenza: l’ambulatorio Sokos diventa così un luogo in cui questa interdipendenza si traduce in prassi politica.
Da qui, l’interrogativo cruciale: in che misura può un presidio sanitario di volontariato diventare anche soggetto di trasformazione culturale e istituzionale? La riflessione si apre a un piano più ampio, che connette l’esperienza di cura con le politiche dell’ascolto, i processi partecipativi, e la ridefinizione del welfare come spazio di diritti condivisi e costruzione collettiva.

Mario Flavio Benini. Secondo lei, Sokos ha anche una funzione politica oltre che clinica? Il vostro lavoro può essere letto come un’azione civile e sociale che interroga le istituzioni e la collettività sui diritti e sull’accesso alla cura?

Angelo Rossi. Sì, io ne sono convintissimo. Sokos ha una funzione politica profonda, anche se non nel senso partitico del termine. È una medicina che si fa cittadinanza, che mette in discussione il sistema quando questo lascia indietro le persone. Le parlavo prima di Antonio Giulio Maccacaro: la sua visione di una medicina “altra”, etica e situata, è ancora oggi un faro. Personalmente, nel mio ruolo nel Consiglio Direttivo, sono responsabile delle relazioni con il territorio e con le istituzioni. E ogni volta che mi trovo a rappresentare Sokos, porto numeri, storie, volti. Non solo per far vedere che il problema esiste, ma per dire chiaramente: è inaccettabile ignorarlo. Le persone che accogliamo esistono davvero, sono “invisibili” solo per chi sceglie di non vedere. Eppure bussano. E bussano forte. E se un giorno bussassero ancora più forte, se diventassero moltitudine, potrebbero anche incrinare la quiete ipocrita con cui la società rimuove queste ingiustizie.

Mario Flavio Benini. Dal vostro osservatorio privilegiato, perché secondo lei le istituzioni, anche nei territori più solidali e progressisti, continuano a ignorare questi problemi o a trattarli solo come emergenze croniche? Cosa impedisce un vero cambiamento?

Angelo Rossi. Vorrei che le mie parole fossero comprese nella loro verità, senza mezzi termini. Dopo 48 anni di lavoro nella sanità pubblica, posso dirle con certezza: non è un problema di soldi. O almeno, non è solo quello. La politica si rifugia sempre nella giustificazione del bilancio: “non ci sono fondi”, “il budget è limitato”. Ma questa è una scusa, non una causa. Il vero ostacolo è la mancanza di volontà politica. Davvero affrontare questi problemi significa prendersi delle responsabilità scomode, fare scelte impopolari, mettersi in conflitto con interessi consolidati. Significa ammettere che la povertà esiste anche qui, in una città come Bologna. E questa ammissione, per molti, è intollerabile.
Guardi, le racconto un fatto che non riesco a dimenticare. Una notte di Capodanno, un bambino è morto di freddo sotto un portico a Bologna. Non a Gaza. A Bologna. E non possiamo accettare che si dica: “gli assistenti sociali non se ne sono accorti”, “non c’erano le risorse”. Un bambino vale più di qualunque macchina diagnostica. Non ci sono scuse.
La verità è che i tempi della politica non coincidono con i tempi dei bisogni, e il problema è che la politica, oggi, non ha il pallino dei bisogni. Non li vede, non li ascolta. E questo, mi lasci dire, mi rende profondamente pessimista.

Mario Flavio Benini. Eppure fa riflettere che anche in territori come il vostro – con una tradizione forte di solidarietà, partecipazione e cultura civica – si fatichi ancora a rispondere in modo efficace a questi bisogni. In teoria, dovrebbe esserci terreno fertile per azioni più radicali e strutturali.

Angelo Rossi. Infatti, è questo che rende tutto ancora più grave. Non parliamo di un contesto difficile del Sud, dove già ci si aspetta una sanità più fragile. Parliamo di Bologna. Eppure, lo scorso anno, 131 cittadini italiani si sono rivolti a Sokos perché non riuscivano ad accedere alle cure.
Non stiamo parlando solo di migranti senza documenti, ma di persone nate e cresciute in Italia, che il sistema ha lasciato indietro. Quei 131 nomi sono un boato, un grido che dovrebbe scuotere le coscienze. E invece nulla.
La politica dovrebbe cospargersi il capo di cenere, riconoscere l’errore, e ripartire. Invece, spesso, preferisce continuare a voltarsi dall’altra parte. Ma noi, nel nostro piccolo, continueremo a battere il pugno sul tavolo. E a dire che no, questa non è civiltà. Questa è rimozione. E la rimozione, prima o poi, presenta il conto.

Mario Flavio Benini. Guardando al percorso di Sokos, vi è mai capitato di avere la percezione – o magari anche la conferma concreta – di aver contribuito a modificare pratiche o politiche pubbliche nel vostro territorio?

Angelo Rossi. Sì, direi di sì, almeno in parte. All’inizio eravamo davvero una vox clamantis in deserto, come si suol dire: nessuno ci ascoltava, sembravamo fuori dal radar istituzionale. Oggi, invece, qualcosa è cambiato. Le istituzioni ci riconoscono, sanno che ci siamo, sanno che lavoriamo ogni giorno con le persone più fragili della città, e – se non altro – cominciano a chiederci un parere, a coinvolgerci.
Un esempio concreto è il Piano Inverno, il progetto comunale per l’accoglienza notturna delle persone senza dimora nei mesi più freddi: oggi veniamo consultati, ci viene chiesto cosa pensiamo, se ci sono criticità, se possiamo dare un contributo. Non è scontato.
Insomma, si è aperto uno spazio di ascolto. Forse piccolo, forse ancora insufficiente, ma reale. E questo per noi è già un risultato importante: significa che il lavoro silenzioso di tanti anni ha lasciato un segno.

Mario Flavio Benini. Stiamo parlando di tavoli e spazi di confronto tra operatori, tra chi è già coinvolto nei servizi e nei sistemi di welfare. Ma forse quello che manca di più è uno sforzo capace di andare oltre quel perimetro e raggiungere direttamente i cittadini, costruendo consapevolezza pubblica. Sappiamo che questa dovrebbe essere una funzione primaria delle istituzioni: orientare lo sguardo collettivo, nutrire valori, educare alla cura. Ma quando le istituzioni non lo fanno, o lo fanno male, è importante che qualcun altro se ne faccia carico.
A Bologna, rispetto ad altre città, c’è sicuramente una tradizione più viva di cittadinanza attiva, e sono nate esperienze che hanno avuto un impatto anche nazionale. Ma resta il nodo di fondo: come parlare alla città? Come far sì che temi come il diritto alla salute e la povertà sanitaria diventino parte del discorso pubblico, magari già a partire dalle scuole?

Angelo Rossi. Ha perfettamente ragione: serve una comunicazione che vada oltre gli addetti ai lavori, che raggiunga la cittadinanza e renda visibili questioni che troppo spesso restano ai margini.
Per quanto ci riguarda, a livello di quartiere stiamo provando a fare proprio questo. Come dicevo prima, il quartiere Navile, dove ha sede Sokos, ci ha coinvolto in diverse sue iniziative pubbliche, e noi abbiamo fatto altrettanto: c’è un rapporto di collaborazione molto vivo. Le faccio un esempio concreto.
Nel nostro quartiere c’è il Teatro Centofiori, una sala molto conosciuta a livello locale. Ogni primavera ospita una rassegna teatrale importante, con compagnie di improvvisazione che arrivano anche da fuori Bologna. Quest’anno, senza che lo avessimo chiesto, gli organizzatori ci hanno invitato come ospiti d’onore della serata finale. Hanno deciso di devolvere tutto l’incasso a Sokos, e io sono stato chiamato a raccontare in pochi minuti chi siamo e cosa facciamo.
Quella sera il teatro era gremito. Centinaia di persone ci hanno ascoltato, e alla fine abbiamo ricevuto un’accoglienza calorosissima, che ci ha sinceramente commossi. Gli organizzatori stessi ci hanno detto che non avevano mai visto un incasso così alto. È stato un momento di grandissimo valore simbolico: un pezzo di città ha preso coscienza della nostra esistenza e del problema che affrontiamo ogni giorno.

Ma non è tutto. C’è anche un secondo canale, per me ancora più importante: quello della scuola.
Mia figlia insegna lettere in una scuola media, un istituto piuttosto grande, e da alcuni anni mi invita regolarmente a tenere delle lezioni. All’inizio si trattava soprattutto di raccontare le mie esperienze in Africa, con Emergency. Ma piano piano, anche perché sono anni che non torno più in Africa, abbiamo spostato il focus su Sokos.
Nell’ultimo anno scolastico ho fatto sette, otto incontri con tutte le classi terze della scuola. Alcune classi mi hanno chiesto di tornare una seconda volta. I ragazzi sono molto ricettivi, fanno domande, ascoltano con interesse. È un pubblico difficile ma sinceramente curioso.
E poi è successa una cosa bellissima. Una ragazzina di terza media ha deciso di dedicare la sua tesina finale a Sokos.
È partita dall’Africa, ha parlato della salute, della povertà, della mia esperienza, e ha concluso raccontando cosa facciamo oggi nella nostra città. Un lavoro davvero toccante.
Per me è stato un segnale chiaro: quando parli davvero alle persone, soprattutto ai più giovani, qualcosa rimane.
E questo mi dà speranza. Nonostante tutto, mi fa credere che se il Terzo Settore ci mette impegno, può dare un contributo affinché una trasformazione culturale sia possibile.

Sostenibilità, sfide e possibilità di replicazione.

Ogni esperienza trasformativa è attraversata da fragilità. Sokos, come molte organizzazioni di medicina sociale, si trova oggi al crocevia tra due tensioni: da un lato la forza generativa del volontariato strutturato, dall’altro la vulnerabilità derivante dalla mancanza di fondi liberi e da un modello economico ancora largamente basato sulla gratuità del lavoro. In questo scenario, la sostenibilità – economica, organizzativa, relazionale – non può più essere intesa solo come capacità di “tenere aperto”, ma come equilibrio dinamico tra identità politica e adattamento sistemico.
Paul Farmer ha spesso sottolineato che non esistono cure efficaci senza un sistema che le sostenga: “l’equità sanitaria richiede infrastrutture”. Allo stesso modo, Sam Tsemberis, ideatore del modello Housing First, ha mostrato come i progetti ad alto impatto sociale debbano trovare forme di radicamento istituzionale, senza però perdere l’anima. Questo è il nodo che anche Sokos si trova ad affrontare: come continuare a essere spazio libero e politico di cura, evitando di diventare né un servizio residuale né una fragile eccezione?

A ciò si aggiunge una riflessione cruciale: è possibile replicare Sokos? E a quali condizioni? La replicabilità non può essere meccanica. Richiede un’attenzione al contesto, una capacità di modulare risorse e governance, e la volontà di radicarsi in una comunità. La questione non è solo “se” Sokos si possa ripetere, ma quale forma potrebbe assumere altrove, senza snaturarsi.

Mario Flavio Benini. Come si sostiene oggi Sokos, dal punto di vista economico e organizzativo?

Angelo Rossi. Sokos si regge su un equilibrio delicato, ma tutto sommato stabile. Il pilastro principale è una convenzione attiva con l’Azienda Sanitaria Locale fin dal 2014. Si rinnova di anno in anno e copre una quota fissa — purtroppo non negoziabile al rialzo, nonostante i nostri tentativi. La USL da questo punto di vista è piuttosto rigida, direi “teutonica”
La cifra prevista dalla convenzione include le spese fisse di gestione: utenze, telefono, pulizie, materiali, cancelleria, insomma tutto quello che serve per tenere aperta la struttura. Ma tutto ciò che eccede — anche di un solo centesimo — è a carico nostro.
Questo vuol dire che ogni attrezzatura medica, ogni intervento straordinario, ogni sostituzione o aggiornamento tecnologico è fuori convenzione.
Oltre alla convenzione, riceviamo donazioni da privati cittadini, o in occasioni particolari, come per esempio l’incasso devoluto dal Teatro Centofiori, che ha organizzato una serata benefica per Sokos. Poi c’è il 5 per mille, che raccogliamo come ente del Terzo Settore, e qualche contributo da fondazioni.
Lo scorso anno, per esempio, abbiamo ricevuto un importante sostegno dalla Chiesa Valdese, che ha finanziato un nostro progetto, così come già aveva fatto in passato coprendo buona parte delle spese per il nostro ambulatorio di odontoiatria nel 2018.
Quando proprio non riusciamo a coprire le spese, ricorriamo a una colletta interna tra i nostri soci: siamo una sessantina, ognuno contribuisce come può. È una forma di autofinanziamento di ultima istanza, ma che, finora, ci ha permesso di non interrompere mai i servizi.
Faccio un esempio concreto: il nostro ecografo — attivo da 18 anni — si è rotto. Essendo fuori convenzione, abbiamo dovuto cercare una soluzione. Fortunatamente, un fornitore ha riconosciuto il valore sociale del nostro lavoro e ci ha offerto un nuovo apparecchio a meno della metà del prezzo di listino. È stato un gesto di grande generosità che ci ha permesso di andare avanti.
Per dare un’idea complessiva: il budget totale annuo si aggira intorno ai 60.000 euro, e di questi l’80% deriva dalla convenzione con la USL. Il restante 20% è coperto da donazioni, 5 per mille, eventi e contributi straordinari come quelli della Chiesa Valdese.

Mario Flavio Benini. Partecipate anche a bandi pubblici o europei per sostenere le vostre attività?

Angelo Rossi. Mi permetta una battuta: per partecipare ai bandi ci vuole la laurea in “bandologia”.
Sono procedure complesse, spesso molto tecniche, e noi non abbiamo mai avuto una persona che potesse dedicarsi stabilmente a questo.
Tuttavia, qualcosa sta cambiando. Recentemente è entrato nel nostro gruppo un nuovo socio con esperienza in Africa — ci conosciamo dai tempi dei progetti con Emergency — la cui compagna ha lavorato come responsabile di progetti europei in ambito sanitario. Ora è in pensione, e si è offerta di aiutarci come consulente per la progettazione. Questo potrebbe finalmente aprirci delle possibilità in più anche sul fronte dei bandi. 

Mario Flavio Benini. Quali sono oggi le principali criticità economiche? In quali ambiti avreste bisogno di maggiori investimenti?

Angelo Rossi. La voce di spesa più critica sono le attrezzature. Come per altre organizzazioni simili alla nostra — penso ad Emergency, Naga, Medicina Solidale — tutto ciò che è strumentazione è escluso dalle convenzioni.
Questo significa che la manutenzione ordinaria e straordinaria è a nostro totale carico, e i costi sono spesso elevati.
Anche solo la manutenzione su chiamata di un ecografo, o la taratura di un elettrocardiografo, sono spese significative che rischiano di ricadere direttamente sul servizio, se non si trovano fondi dedicati.
Oltre a questo, abbiamo bisogno di rafforzare la comunicazione, come dicevo prima, e vorremmo investire in formazione e rafforzamento organizzativo. Ma senza un budget più strutturato, è difficile fare programmazione a lungo termine.

Mario Flavio Benini. Pensa che il vostro modello sia replicabile anche in altri territori italiani? Esistono, secondo voi, le condizioni per esportarlo o adattarlo altrove?

Angelo Rossi. Io me lo auguro fortemente. Anzi, credo che ci siano territori in cui un’esperienza come Sokos sarebbe ancora più necessaria di quanto non lo sia a Bologna. Ma tutto dipende dalla volontà locale. Non è una questione tecnica o strutturale, almeno per quanto mi riguarda: è una questione di volontà politica, civica, personale.
Non vedo grandi ostacoli oggettivi che impediscano di replicare un modello simile altrove. Le competenze ci sono, le persone motivate anche. Manca spesso solo il riconoscimento dell’urgenza e la determinazione nel costruire una risposta concreta. Serve la consapevolezza che questi luoghi di cura sono necessari, che l’accesso alla salute non può restare un privilegio. Mi viene in mente una frase che Gino Strada, il fondatore di Emergency, ripeteva spesso — anche durante i nostri lunghi confronti serali.
Gino era una figura importantissima nella sanità umanitaria internazionale: un chirurgo, un attivista, un uomo radicale nelle sue scelte, generoso ma anche spigoloso. E diceva sempre:“Io vorrei essere inutile.”
Ecco, quel desiderio di “inutilità” è diventato un po’ anche il mio mantra.
Perché un ambulatorio come Sokos non dovrebbe esistere: il sistema pubblico dovrebbe essere così equo, così accessibile, da renderci superflui.
Fino a quando però non sarà così, esperienze come la nostra restano fondamentali — e, sì, credo possano nascere e crescere ovunque. Basta volerlo.

Futuro desiderabile e utopia concreta.

“Preferirei che l’ambulatorio fosse chiuso per inutilità”. Riprendiamo quello che ci ha appena detto Angelo Rossi perché riteniamo che condensi una tensione che attraversa ogni progetto animato da giustizia e visione: lavorare per rendere se stessi superflui. In questa prospettiva, Sokos non è solo un ambulatorio, ma una utopia concreta – per dirla con Ernst Bloch – che si realizza nelle pratiche quotidiane di cura, accoglienza, ascolto. Un esperimento sociale che non si limita a riparare le ferite del sistema, ma ne svela le fratture e immagina mondi diversi.
L’orizzonte è quello di una medicina come bene comune, accessibile e universale, dove non sia più necessario offrire cure alternative o di seconda fascia per chi è fuori dal sistema. David Graeber sostiene che il compito dell’analisi utopica non sia prevedere il futuro, ma ampliare il nostro senso delle possibilità e spalancare nuove prospettive. In questo senso, Sokos incarna un’utopia pratica: mostra cosa accade quando la cura è liberata dal vincolo economico, quando la competenza si piega all’umanità, e quando il volontariato si fa atto politico.

A questo punto, interrogarsi sul futuro di Sokos significa interrogarsi sul futuro stesso della società: quale sistema sanitario vogliamo costruire? Quale relazione tra cittadino e istituzioni, tra medicina e giustizia sociale? Come scriveva Ivan Illich, “Superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione e comincia la grande reclusione” (La convivialità, 1974) . Sokos, nel suo piccolo, è già parte di questa transizione.

Mario Flavio Benini. Quale futuro immaginate per Sokos nei prossimi cinque anni? Quali sono le sfide e gli obiettivi che sentite più urgenti?

Angelo Rossi. Come le dicevo il mio desiderio, che ormai è diventato una sorta di mantra, è che un giorno Sokos possa diventare inutile. Sì, inutile. Perché significherebbe che il sistema pubblico è in grado di prendersi cura davvero di tutte e tutti. Purtroppo, vista l’aria che tira, so bene che non sarà così semplice. Ma è lì che vogliamo andare.
La sfida più concreta che ci siamo dati per il prossimo futuro, almeno qui a Bologna, è quella di rendere visibili gli invisibili, facilitando per tutte le persone irregolari il rilascio del permesso di soggiorno.
Sembra poco, ma oggi è una battaglia quotidiana.
Non chiediamo case, stipendi o privilegi: chiediamo solo che queste persone abbiano accesso a un documento che consenta loro, ad esempio, di andare in farmacia con una nostra ricetta e non dover pagare un ticket che non possono permettersi.
Eppure, anche questo semplice diritto è spesso negato.
Dietro ogni permesso di soggiorno c’è un intreccio di pratiche complesse, che coinvolgono Questura e USL, due istituzioni che spesso non si parlano.
Noi vorremmo riuscire, almeno, a semplificare questo passaggio. Perché oggi perdiamo ore — settimane — a rincorrere carte che dovrebbero essere garantite.
E nel frattempo i nostri farmaci, purtroppo, non bastano: diamo il contributo che possiamo, grazie a USL, Banco del Farmaco, donazioni… ma restano fuori molte cose.
Avere accesso alla farmacia, per queste persone, significa poter davvero curarsi.

Mario Flavio Benini. Questa battaglia per il permesso di soggiorno mi ricorda molto quella che, qualche anno fa, Avvocato di Strada ha condotto sulla residenza anagrafica per le persone senza dimora: un passaggio semplice solo in apparenza, ma che ha cambiato la vita a migliaia di persone.
Ma tornando a Sokos: se guardate ai prossimi cinque anni non solo in termini di urgenze, ma di crescita possibile, di trasformazione desiderata, che prospettiva immaginate per la vostra associazione?

Angelo Rossi. In termini molto concreti, ci piacerebbe avere qualche risorsa in più. Non per crescere in grandezza, ma per avere strumenti più adeguati, più aggiornati. Le faccio un esempio banale: vorremmo cambiare tutto il parco computer.
Oggi usiamo ancora dispositivi obsoleti, che rallentano il lavoro.
Con qualche fondo in più, potremmo affrontare queste spese senza dover sempre ricorrere alla colletta tra soci.
Ma l’aspetto più importante, secondo me, sarebbe un riconoscimento naturale da parte del sistema sanitario locale.
Vorremmo che Sokos fosse considerata parte integrante del sistema, come lo sono la guardia medica o la farmacia di turno.
Non che dobbiamo proporci ogni volta, o essere invitati.
Vorremmo che fosse automatico pensare: “Per quella fascia di popolazione c’è anche Sokos”.
È lì che vogliamo arrivare.

Mario Flavio Benini. Se dovesse riassumere Sokos in una sola immagine, una parola, qualcosa che possa raccontare chi siete a chi ancora non vi conosce… cosa direbbe?

Angelo Rossi. C’è un’immagine che mi porto dentro da tanto tempo, e che descrive bene quello che siamo stati e quello che continuiamo a essere:

“Siamo stati un piccolo ruscello che, nel suo cammino, ha incontrato tanti affluenti… e si è ingrossato sempre più.”Non siamo partiti con grandi mezzi, né con un progetto definito.
Ma lungo il percorso abbiamo incontrato persone, energie, fiducia, e tutto questo ci ha fatto crescere.
Ora quel ruscello è diventato un fiume — non enorme, non imponente — ma un fiume vivo, che continua a scorrere e a portare cura, dignità e presenza.

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