PsyPlus: ripensare la cura nella grave marginalità adulta (1° parte).

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Fotografie: PsyPlus

La casa come punto di partenza.

Nel tempo della marginalità strutturale, della precarizzazione dei diritti e del fallimento delle risposte istituzionali, interrogarsi sul senso della cura diventa un gesto politico e culturale prima ancora che clinico o amministrativo. Abitare, come ci ha ricordato Marc Augé, non è solo occupare uno spazio, ma produrre significato. E quando l’abitare viene negato, viene negata anche la possibilità di costruire identità, relazioni, futuro. Non stupisce, allora, che la homelessness – oggi sempre più cronicizzata, medicalizzata, e gestita attraverso dispositivi di controllo e contenimento – rappresenti una delle manifestazioni più radicali della rottura del legame sociale, e con essa della disgregazione del senso civico come fondamento della convivenza. Una rottura che interroga non solo le politiche pubbliche, ma anche la cultura, l’immaginario, le forme istituzionali e relazionali del prendersi cura.

Da questa frattura ha preso avvio il lavoro di PsyPlus ETS sulla grave marginalità adulta, un’associazione di clinici, sociologi, educatori e ricercatori che da oltre un decennio opera per reintegrare la dimensione psichica e simbolica nei contesti dell’intervento sociale. A differenza di molte realtà che agiscono con un approccio prevalentemente assistenziale o gestionale, PsyPlus lavora per riconnettere la psicologia con la comunità, la clinica con la città, la sofferenza con i dispositivi simbolici capaci di accoglierla. Il progetto Housing First – e la sua declinazione in chiave Housing Plus! – rappresenta uno dei laboratori più interessanti di questa ricerca applicata, dove le categorie dell’abitare, del trauma, della cura e della soggettività vengono rimesse al centro.

In questa lunga conversazione con Giulio Ciucci, sociologo e responsabile dell’Area Inclusione Sociale di PsyPlus ETS, e con Beatrice Simmi, psicologa e psicoterapeuta, referente clinica dell’Area Inclusione Sociale, e Giulia Paoloni, psicologa e coordinatrice del progetto Libera Mente (intervento di supporto psicoeducativo a persone in condizione di vulnerabilità economica), abbiamo cercato di attraversare i nodi fondamentali di questo modello. A partire da un’idea di casa non come contenitore logistico, ma come spazio affettivo e trasformativo, e da una nozione di “responsabilità psichica” che restituisce agli operatori il compito di farsi interpreti di un lavoro relazionale che, nel vuoto lasciato dalle istituzioni, assume anche una funzione politica: generare legami, assumersi responsabilità, e costruire forme concrete di cura.

L’intervista esplora la genealogia di PsyPlus e la sua evoluzione verso un soggetto clinico-politico di nuova generazione; la declinazione del modello Housing First a Roma, con tutte le tensioni tra radicalità teorica e compromesso operativo; le alleanze inter-istituzionali e civiche necessarie per rendere praticabile l’inclusione; le sfide del lavoro clinico con persone che portano corpi e storie ferite, che vivono la città come un non-luogo abitato, uno spazio frammentato in cui il tempo quotidiano si dissolve e l’identità viene continuamente messa alla prova.
Ci siamo soffermati sulle implicazioni della salute mentale nei percorsi di homelessness, sul legame tra casa e trauma, sul valore politico e trasformativo del lavoro di rete, sulla formazione degli operatori, sulla replicabilità dei modelli, sulle criticità sistemiche e sulla necessità – sempre più urgente – di un cambiamento strutturale delle politiche pubbliche.

Abbiamo scelto di non ridurre questo dialogo, perché riteniamo che la complessità non vada semplificata ma attraversata, ascoltata, interrogata. L’intervista verrà dunque suddivisa in quattro sezioni, non per frammentarla, ma per riconoscere la sfida che ogni pensiero complesso ci pone: quella di accogliere l’incertezza, le ambivalenze, le intersezioni tra dimensioni diverse dell’esperienza, senza ridurle a formule lineari.
Come scrivono The Care Collective, “la cura è ciò che tiene insieme la società, ma anche ciò che ne rivela le fratture” (The Care Manifesto, 2020). Se portata fino in fondo, la cura diventa un principio politico trasformativo: non una risposta riparativa, ma una tensione organizzativa che riguarda l’economia, le istituzioni, l’immaginario. Non possiamo più relegarla alla sfera del privato, o considerarla un supplemento morale ai dispositivi di governo. Prendersi cura, nel tempo della disuguaglianza estrema, significa ridefinire radicalmente le priorità collettive: è una questione di redistribuzione materiale, di prossimità strutturata, di responsabilità condivisa per le vulnerabilità comuni.

È dentro questa cornice che va collocata ogni riflessione sulla homelessness: non come “devianza da correggere” o problema da gestire, ma come sintomo politico di un mondo disabitato dalla cura. Parlare di persone senza dimora significa, allora, mettere in discussione l’architettura intera del nostro vivere insieme.

Origini, Missione, Trasformazioni.

Nata nel 2011, PsyPlus ETS è una realtà anomala nel panorama italiano del Terzo Settore. Non nasce da un bisogno gestionale o da un’urgenza assistenziale, ma da una riflessione politica e culturale sulla psicologia come pratica sociale. Fondata da un gruppo di giovani psicologi e psicoterapeuti legati all’Università La Sapienza, e guidata dalla visione di Claudio Dalpiaz, l’associazione ha fin dall’inizio rifiutato l’idea che la cura potesse limitarsi alla relazione duale, alla stanza d’analisi, al trattamento individuale. La sofferenza psichica, come ci ha insegnato Ulrich Beck, è anche un prodotto del sistema. E come tale va affrontata.
In un contesto segnato dal ritiro dei servizi pubblici, dalla medicalizzazione della povertà e da una crescente marginalità urbana, PsyPlus ha scelto di costituirsi come servizio sanitario per la salute mentale, portando lo sguardo clinico nei territori più fragili. A differenza di molte organizzazioni che si muovono in una logica prevalentemente assistenziale (offrendo pasti, letti, beni di prima necessità) o educativa (attivando laboratori e percorsi formativi), PsyPlus lavora per ricucire la frattura tra clinica e comunità, intrecciando psicoterapia, progettazione sociale e lavoro d’equipe.
In questa prima parte dell’intervista, Giulio Ciucci racconta le origini dell’associazione, la trasformazione della sua missione alla luce di eventi cruciali (dal post-terremoto del Centro Italia alle collaborazioni con Save the Children e INMP), e il significato concreto dell’espressione “psicologia accessibile”. Ne emerge una visione di cura come bene relazionale, diritto non negoziabile e strumento di giustizia sociale, che trova il suo banco di prova proprio nei luoghi dove le biografie si spezzano: strada, povertà, abbandono istituzionale.
A introdurre questa visione, una frase potente dello psichiatra Giuseppe Riefolo:

“Le persone senza dimora non sono altro da noi, ma portano alla luce ferite della condizione umana che ci accomunano. La casa è psichica prima ancora che architettonica.”


Mario Flavio Benini. PsyPlus è nata nel 2011 in un contesto segnato da profonde trasformazioni nel mondo del lavoro sociale e sanitario, e da una crescente domanda di psicologia accessibile e critica. Quali sono stati, secondo te, i bisogni, le tensioni e le visioni che hanno portato alla fondazione dell’associazione? In che modo il desiderio di autonomia, qualità e libertà professionale si è tradotto in un progetto collettivo capace di generare nuove pratiche cliniche e sociali?

Giulio Ciucci. PsyPlus è nata nel 2011 come espressione di un desiderio condiviso di cambiamento. Non ero presente in quella fase iniziale — sono entrato in contatto con l’associazione nel 2017 e ne sono diventato socio stabile nel 2020, per poi entrare nel Consiglio Direttivo. Per come mi è stato raccontato, l’associazione è nata dall’iniziativa di un gruppo di giovani universitari iscritti a Psicologia alla Sapienza, che avvertivano l’urgenza di creare un’alternativa credibile alle forme precarie e spersonalizzanti di lavoro nel sociale, in particolare al sistema cooperativistico dominante.
Si trattava di studenti tra i venti e i venticinque anni, riunitisi attorno a Claudio Dalpiaz — attuale Presidente dell’associazione — che all’epoca aveva una decina d’anni in più e rappresentava una figura capace di ispirare e tenere insieme una comunità in formazione. Ciò che mi ha colpito, anche nel mio primo incontro con PsyPlus, è stata la qualità e la coesione del capitale umano, intesa sia in senso professionale che relazionale.

Il mio incontro con PsyPlus è avvenuto in modo del tutto imprevisto: lavoravo — e tuttora lavoro — nell’unità di strada notturna della Sala Operativa Sociale del Comune di Roma. Lì ho conosciuto Giuseppe Scurci, uno dei soci fondatori, che all’epoca era impegnato nell’unità di strada diurna. Nel 2015, quando sono entrato nella notturna, anche lui ha fatto il passaggio al turno di notte: da quel momento abbiamo iniziato a incrociarci più spesso, fino a instaurare un dialogo di stima reciproca.Fu lui a parlarmi di PsyPlus e dell’idea, allora ancora in costruzione, di dar vita a un’esperienza che mettesse insieme autonomia, rigore e pensiero critico.
Un’esperienza che, come ho avuto modo di constatare in questi anni, può comportare anche difficoltà strutturali nei rapporti con le istituzioni pubbliche, proprio per la cura rivolta alla qualità del lavoro e per la forte indipendenza di pensiero e di azione che l’associazione difende con determinazione.
Oggi sono responsabile dell’area Inclusione Sociale, e posso dire che all’interno di PsyPlus godo di una grande libertà operativa. Questo è possibile non solo per la struttura snella e orizzontale dell’associazione, ma anche grazie a un clima di fiducia diffuso e profondo. Claudio Dalpiaz, oltre a essere uno straordinario professionista, è una persona di rara statura intellettuale e umana, e questo si riflette nel modo in cui l’organizzazione si prende cura delle persone, interne ed esterne.
Sin dall’inizio, l’obiettivo è stato quello di costruire uno spazio realmente cooperativo, dove il lavoro clinico, educativo e sociale potesse crescere collettivamente. I fondatori, pur ancora studenti, erano già coinvolti in esperienze significative: ricordo ad esempio che Giuseppe Scurci e Giuseppe Tolve avevano partecipato a una ricerca universitaria a Belgrado, incentrata sul lavoro con adulti affetti da disabilità, in particolare psichica.
I valori che guidano PsyPlus sono scritti chiaramente nello statuto e sono ancora oggi ben visibili nel quotidiano: libertà, solidarietà e promozione del benessere psicologico accessibile a tutte e tutti. Qui nel nostro centro clinico è possibile vederlo concretamente: psicoterapeuti e psicoterapeute offrono percorsi a tariffe calmierate — anche 30 o 35 euro a seduta — per persone con ISEE inferiore ai 20.000 euro.
Tuttavia, dal mio punto di vista, il benessere psicologico non basta da solo. Penso a Ulrich Beck, uno dei sociologi più rilevanti degli ultimi decenni, che già nel 1986, ne La società del rischio, metteva in guardia rispetto ai tentativi di fornire risposte individuali a contraddizioni sistemiche. È un errore che si ripete: cercare soluzioni biografiche a problemi che sono strutturali, sistemici, collettivi. Questo vale sul piano sociale, lavorativo, affettivo, ambientale. E sono problematiche oggi ancora più evidenti.
Per questo motivo, dentro PsyPlus, cerco di portare costantemente questa attenzione: la dimensione psicologica è fondamentale, ma non può funzionare se non accompagna una trasformazione concreta delle condizioni di vita. Le risposte individuali sono indispensabili — come ricorda spesso anche Dalpiaz — ma devono essere affiancate da un lavoro sistemico e strutturale. Questo è ciò che stiamo cercando di fare, in modo forse ambizioso ma essenziale, anche con l’Area Inclusione Sociale.
Questa prospettiva nasce anche dalla mia traiettoria personale. Ho una laurea in Scienze Politiche, indirizzo internazionale, e un dottorato in Sociologia. Ho approfondito il concetto di individualizzazione e il rapporto di dipendenza dalle strutture sociali, due nodi che oggi sento più che mai attuali. Anche se, probabilmente, la mia tesi di dottorato rimarrà chiusa in un cassetto, quegli studi tornano continuamente nel mio lavoro quotidiano — e nutrono anche il percorso che stiamo costruendo con il progetto Housing First.

Mario Flavio Benini. Nel corso degli anni, PsyPlus ha ampliato le proprie attività e ridefinito alcune priorità operative, passando dalla fase iniziale di sperimentazione a una maggiore strutturazione progettuale. Quali sono stati i momenti di svolta più significativi in questo percorso? E come si è evoluto il lavoro dell’associazione rispetto ai bisogni emergenti della società — come le emergenze post-sismiche, la dispersione scolastica, il disagio adolescenziale?

Giulio Ciucci. L’associazione è cresciuta molto nel tempo, anche se nei primi anni non saprei dire con precisione in che modo operasse. PsyPlus ha sempre avuto una struttura molto leggera, e questa è stata al tempo stesso una forza e una criticità. La trasformazione più significativa è arrivata in seguito ai terremoti del centro Italia: non tanto quello dell’Aquila, ma soprattutto quelli che hanno colpito Amatrice e, successivamente, le Marche e l’Umbria.
In quel periodo PsyPlus ricevette un finanziamento da Mediafriends (organizzazione no profit che promuove progetti sociali e di solidarietà) e avviò un intenso lavoro nella cosiddetta “zona del cratere sismico”, ovvero l’area che includeva Lazio, Umbria e Marche. Fu un momento decisivo, in cui l’associazione si consolidò soprattutto nell’ambito della psicologia dell’emergenza. Ancora oggi, se si guarda al sito, questa è una delle aree di intervento più organizzate, anche se nel concreto l’attività si è ormai fermata.
In quel contesto fu realizzato un progetto importante, inizialmente coordinato da Giuseppe Scurci e poi da Giulia Mastalli, la prima persona assunta da PsyPlus fuori da finanziamenti di progetto. Successivamente, Giulia lasciò per iniziare una collaborazione con ActionAid, ma è anche la persona con cui ho scritto il primo progetto Housing First. Nessuno dei due, all’epoca, conosceva davvero a fondo l’approccio, anche se personalmente era già da un anno che avevo cominciato a studiarlo e lavorandoci insieme è venuto fuori — lo dico senza retorica — un progetto davvero ben costruito, pur con alcune criticità, soprattutto a livello di budget. A distanza di anni, sento di poter dire che PsyPlus deve molto a quel progetto, e io personalmente a Giulia: è stato l’avvio di un percorso che oggi rappresenta ancora la spina dorsale del nostro lavoro.
Un altro passaggio fondamentale è stata la collaborazione, ormai stabile, con Save the Children Italia. Questa partnership è nata grazie al lavoro di Scurci e ha portato allo sviluppo di attività particolarmente strutturate contro la dispersione scolastica, soprattutto nel Comune di Aprilia. Tuttora, è una delle iniziative principali dell’associazione.
Sempre nell’ambito scolastico, pur operando sotto il “cappello” di Save the Children, abbiamo maturato competenze importanti. Da circa un anno, abbiamo attivato un progetto simile in Puglia, sempre con loro. E da un anno e mezzo collaboriamo con l’ASL per il supporto alle famiglie con adolescenti in situazioni complesse, attraverso il Punto Luce di Ostia Ponente. Anche in quel caso il lavoro sta funzionando molto bene.
Tutto questo è possibile grazie alla qualità del capitale umano che anima PsyPlus: persone molto preparate, ma anche capaci di grande dedizione. Si fa tanto volontariato. Le attività del Consiglio Direttivo, per esempio, sono interamente gratuite. Ora abbiamo una figura amministrativa retribuita, ma per il resto ci si sostiene con fondi di progetto.
L’area Inclusione Sociale, per fare un esempio concreto, ha lavorato per tre anni — da settembre 2020 a settembre 2023 — completamente a titolo gratuito. Non è stato facile, ma racconta bene la motivazione e il senso di appartenenza delle persone coinvolte. Oggi siamo una squadra di undici, dodici persone, e dietro a ogni progetto c’è una storia costruita con cura.

Mario Flavio Benini. Il concetto di “benessere psicologico” è spesso utilizzato in modo generico, rischiando di perdere il suo significato concreto. In che modo PsyPlus declina questo principio nei propri interventi, soprattutto in relazione alla marginalità sociale? E cosa significa per voi “rendere accessibile la psicologia” in termini non solo economici, ma anche culturali, clinici e territoriali?

Giulio Ciucci. All’interno dell’Area Inclusione Sociale di PsyPlus, il nostro obiettivo primario è promuovere il benessere psico-sociale e l’inclusione attiva delle persone in situazione di marginalità, in particolare attraverso il progetto Housing First. Questa area è nata proprio per portare il modello Housing First a Roma, ma fin dall’inizio abbiamo scelto di non limitarci a un solo campo di intervento.
Il nostro approccio è quello di lavorare con una visione intersezionale, consapevoli che la condizione di marginalità si intreccia con politiche abitative, sanitarie, scolastiche, lavorative. In questo senso, Housing First non è solo un modello di accoglienza abitativa, ma rappresenta per noi un laboratorio permanente di trasformazione e innovazione sociale.
L’ambizione dell’area è quindi crescere e consolidare interventi anche in altri ambiti, mantenendo però al centro del nostro operato la psicologia come strumento di giustizia e cambiamento sociale. Uno strumento che, se ben integrato in équipe multidisciplinari e radicato nei territori, può restituire senso, diritti e possibilità di ricostruzione alle persone escluse dai circuiti di cura tradizionali.
Oltre all’Housing First, recentemente abbiamo concluso un progetto molto interessante in collaborazione con l’INMP — l’Istituto Nazionale per la Promozione della Salute delle Popolazioni Migranti e per il Contrasto delle Malattie della Povertà. In quell’esperienza abbiamo costruito dei piani terapeutici-riabilitativi personalizzati, ispirati al modello del “budget di salute”, per persone con disagio mentale. Sebbene il target formale del progetto non fossero persone senza dimora, in realtà una delle persone prese in carico era un uomo che ha avuto un’esperienza di strada di quarant’anni, e che oggi è stato incluso nel nostro progetto Housing First. Questo dimostra quanto i confini tra marginalità, salute mentale e condizioni abitative siano porosi e intrecciati.
Quando parliamo di accessibilità della psicologia, ci riferiamo a uno dei principi fondativi di PsyPlus: l’idea che il benessere psicologico debba essere un diritto e non un privilegio. Lavoriamo affinché questo diritto sia effettivo, non solo formale, e per farlo cerchiamo di abbattere tutte quelle barriere — economiche, culturali, sociali — che rendono la psicoterapia spesso un servizio d’élite.
Questo impegno è visibile anche nella nostra attività clinica, come le dicevo: nel nostro centro, gli psicoterapeuti ricevono anche pazienti con ISEE basso, applicando tariffe agevolate.
Ma rendere la psicologia accessibile non significa solo ridurre i costi. Significa anche contestualizzare il disagio all’interno delle condizioni di vita. Personalmente, non credo che il benessere psicologico possa essere separato dal benessere sociale. Le condizioni materiali — abitative, relazionali, lavorative — influiscono profondamente sulla salute mentale.
Un esempio che può sembrare laterale, ma che secondo me è molto indicativo: leggevo uno studio che mostrava come la presenza attiva dei padri nei primi vent’anni di vita dei figli sia correlata a un maggiore benessere psichico dei figli stessi. Non è solo una questione di legge o di biologia, ma di cura, di relazioni, di tempo condiviso. Questo per dire che la salute mentale non è solo una questione clinica, è una questione sociale.
Per questo motivo, nel nostro lavoro, la casa non è mai solo un tetto. È un “contenitore”. È lo spazio che permette alla persona di ricostruire una quotidianità, un’identità, una relazione con il proprio corpo e con gli altri. Ma da sola non basta. Serve un contesto che sostenga e accompagni il cambiamento. Serve una rete. Serve una comunità. Solo così il benessere psicologico può diventare qualcosa di reale, concreto e duraturo.

Il contesto dell’homelessness in Italia e a Roma.

Ogni discorso sulla marginalità estrema, se vuole evitare l’astrazione o la retorica, deve partire da una lettura situata e critica del contesto. I numeri ufficiali, per quanto parziali e spesso non aggiornati, restituiscono un quadro allarmante: secondo le ultime stime disponibili, in Italia almeno 96.000 persone si trovano in condizione di grave esclusione abitativa. A Roma, la “Notte della solidarietà” del 2024 — promossa da Roma Capitale in collaborazione con ISTAT e alcune reti associative — ha contato più di 2.200 persone senza dimora. Ma si tratta di un censimento notturno, frammentario e non esente da criticità metodologiche, come segnalano molti operatori e ricercatori sul campo.
L’assenza di una rilevazione periodica e condivisa a livello nazionale rende difficile tracciare l’evoluzione reale del fenomeno. A essere invisibilizzate, in particolare, sono le situazioni più intermittenti o irregolari: chi vive in sistemazioni precarie, chi si sposta tra case occupate, chi alterna momenti di strada a ricoveri occasionali o a forme informali di ospitalità. L’homelessness, in questi casi, non assume la forma immediatamente riconoscibile del sacco a pelo sul marciapiede, ma si manifesta in modalità multidimensionali che hanno bisogni di analisi più accurate.
In questo scenario incerto e stratificato, diventa ancora più urgente interrogarsi su quali siano gli strumenti adeguati per leggere la realtà, per nominarla senza semplificazioni, per costruire risposte che non si limitino a tamponare l’esclusione, ma la mettano realmente in discussione.

Mario Flavio Benini. Dal tuo punto di vista di operatore di strada e formatore, come si è trasformata negli ultimi anni la condizione delle persone senza dimora in Italia e a Roma? Quali sono, oggi, secondo lei, le principali criticità legate alla definizione, alla rilevazione e al riconoscimento politico della grave emarginazione adulta?

Giulio Ciucci. Come operatore di strada, ho potuto osservare da vicino l’evoluzione del fenomeno della grave marginalità adulta. Negli ultimi anni, oltre all’intervento diretto, ho svolto un’intensa attività di formazione per fio.PSD  (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora), la principale rete nazionale impegnata nella promozione di politiche e pratiche innovative per il contrasto all’homelessness.
Gran parte del mio impegno formativo si è concentrato proprio sul lavoro di strada, sulle competenze relazionali e metodologiche necessarie per entrare in contatto con persone in condizioni di estrema esclusione.
Accanto a questo, tengo anche corsi sul modello Housing First e sulle Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta, un documento fondamentale approvato nel 2015, che per la prima volta in Italia ha collocato la casa come diritto incondizionato al centro delle politiche di intervento. Un testo a cui sono molto legato, perché ha segnato un passaggio culturale cruciale per tutto il settore.
Recentemente sono stato eletto nel Direttivo nazionale della fio.PSD. È un passaggio importante, perché mi auguro di poter contribuire non solo a rafforzare l’approccio Housing First, ma anche a stimolare un rinnovamento interno e a rilanciare l’attenzione su alcune tematiche che, secondo me, oggi rischiano di passare in secondo piano.
All’interno della rete fio.PSD esiste anche un gruppo di lavoro europeo, coordinato da FEANTSA (European Federation of National Organisations Working with the Homeless) con cui sono in contatto. Uno dei nodi più critici che emerge — comune a molti Paesi — riguarda la difficoltà strutturale nel produrre dati attendibili sul numero e sulle condizioni delle persone senza dimora. Non si tratta solo di una questione di precisione statistica, ma di un limite che coinvolge anche la definizione stessa del fenomeno.
In ambito europeo si fa spesso riferimento alla classificazione ETHOS, elaborata da FEANTSA, che distingue diversi gradi di disagio abitativo: dalla totale assenza di alloggio a forme più sfumate, come l’abitare temporaneo o precario. Pur non volendo mettere in discussione lo schema ETHOS in sé, credo sia fondamentale tenere sempre ben chiaro il target di riferimento, sia nella raccolta dei dati, sia — e soprattutto — quando si progettano politiche o strategie di intervento.
A target diversi corrispondono approcci diversi: strumenti, alleanze, tempistiche e linguaggi devono essere modulati in base alla specificità delle condizioni. Questo vale in modo particolare per la grave emarginazione adulta, che rischia di essere diluita o invisibilizzata se non viene riconosciuta come una realtà a sé, con bisogni, percorsi e risposte differenti da altri tipi di disagio abitativo.
Credo che oggi non esistano numeri davvero chiari e condivisi sul fenomeno delle persone senza dimora in Italia. Si tratta di una mia impressione, non di un dato di cui sono esperto, ma è un’impressione che riscontro spesso anche parlando con colleghi e operatori del settore. L’ultima rilevazione ufficiale strutturata di cui si ha notizia è quella dell’ISTAT del 2014-2015. Non so dire nel dettaglio come fu condotta, ma resta l’ultima “fotografia” sistematica del fenomeno in Italia.

Mario Flavio Benini. Nel 2021 non è stato avviato un nuovo censimento?

Giulio Ciucci. Sì, ma anche quel censimento presenta alcune criticità. Ad esempio, tra le persone registrate come “senza dimora” vengono spesso incluse anche quelle con una residenza fittizia, come nel caso a Roma degli iscritti all’indirizzo virtuale di via Modesta Valenti. Il problema è che non tutte queste persone vivono effettivamente in strada: molte abitano in case occupate o in sistemazioni precarie, che, pur fragili, mantengono un certo grado di stabilità. Questo può contribuire a una rappresentazione parziale o distorta del fenomeno, rendendo più difficile cogliere l’estrema vulnerabilità di chi è realmente privo di un alloggio.
A Roma, per esempio, circolano stime che parlano di circa 22.000 persone senza dimora. Se però si torna ai dati ISTAT del 2014-2015, il numero rilevato era attorno alle 8.000 unità. Questo scarto così ampio suggerisce che forse bisognerebbe interrogarsi sulle diverse metodologie adottate nel tempo per raccogliere i dati, e su come queste influenzino la rappresentazione del fenomeno. Comprendere meglio i criteri utilizzati potrebbe aiutare a restituire un quadro più realistico e condiviso della situazione.
Si cita spesso una rilevazione fatta nel 2024, la cosiddetta “Notte della solidarietà realizzata in collaborazione con ISTAT che però è rimasta pressoché invisibile: pochi la conoscono e i dati non sono mai stati realmente utilizzati. Sono fatte delle presentazioni pubbliche, ma poi tutto è rimasto fermo.
Sono emerse anche alcune criticità metodologiche riportate da chi ha partecipato o osservato da vicino l’esperienza. Ad esempio, censire le persone solo di notte può rendere più difficile intercettare chi non dorme all’aperto o tende a nascondersi, mentre alcuni operatori hanno segnalato che la mappatura dei territori non è stata sempre capillare come previsto, limitando la portata complessiva della rilevazione. Si tratta di osservazioni informali, raccolte sul campo, che sollevano interrogativi sull’efficacia e sull’affidabilità di queste operazioni, soprattutto quando non accompagnate da strategie di lungo periodo.
Come PsyPlus, all’epoca decidemmo di non aderire al censimento. È stata una scelta politica, non tecnica. Molto del mondo dell’associazionismo ha partecipato, ma noi abbiamo deciso di non esserci. Quel tipo di rilevazione rischiava di essere una grande occasione sprecata, oltre che uno spreco di risorse. Sia chiaro: non siamo contrari ai dati. Al contrario, pensiamo che senza dati non si possano costruire buone politiche. Ma quei dati devono essere affidabili, rilevati correttamente, comparabili nel tempo e soprattutto devono servire a produrre cambiamento. Altrimenti diventano autoreferenziali, fini a sé stessi. Si raccolgono numeri, si costruiscono report, ma poi non si mettono in campo strumenti adeguati. E così il sistema resta fermo.
Con il nostro lavoro, cerchiamo di fare proprio questo: cambiare l’approccio. Perché oggi, per chi vive in condizioni di marginalità estrema, il sistema non offre risposte concrete. E se non si cambia radicalmente l’impostazione, le cose non miglioreranno.

Mario Flavio Benini. Negli ultimi anni, la condizione delle persone senza dimora è rimasta intrappolata tra retoriche emergenziali e risposte frammentarie. Come leggi oggi l’evoluzione — o la mancata evoluzione — del fenomeno, non solo sul piano concreto delle politiche e dei servizi, ma anche sul piano della percezione sociale? È cambiato, secondo te, lo sguardo collettivo sulla marginalità estrema, o siamo ancora fermi a un paradigma assistenzialista ed emergenziale?

Giulio Ciucci. È una domanda che tocca un nodo centrale. Potrei rispondere in modo apparentemente deludente, ma credo sia importante essere chiari: dal mio punto di vista, in questi anni non ho visto cambiamenti significativi. Lavoro come operatore notturno da quasi dieci anni, sempre in strada, e oggi come allora Roma presenta un panorama estremamente frammentato e statico.
La realtà è che la condizione di grave emarginazione adulta non ha nulla a che fare con l’emergenza. Eppure, continua a essere trattata come tale. Questa è una delle critiche più profonde che rivolgo all’intero sistema. Già quindici anni fa avevo scritto un piccolo testo su questo tema. Ma lo penso ancora oggi: l’emergenza è una costruzione retorica, uno strumento attraverso cui le istituzioni evitano di assumersi responsabilità strutturali. Se si tratta tutto come un’emergenza, allora si può sempre giustificare l’inefficacia con la scusa della contingenza.
Ma la marginalità estrema non è affatto emergenziale: è una condizione cronica, ripetitiva, stabile. Le persone che incontriamo in strada vivono lì da dieci, quindici, vent’anni. Sono vite ferme. È una staticità che tocca anche i servizi: quando chiedo alle colleghe più esperte com’era la situazione anni fa, mi dicono che almeno allora c’erano più posti disponibili in accoglienza. Oggi, al contrario, l’accesso è sempre più difficile.
Non solo: i centri di accoglienza, che dovrebbero essere strumenti temporanei, sono diventati spesso luoghi di stazionamento indefinito. E questo è un altro problema strutturale. Le “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta” indicano chiaramente che l’accoglienza dovrebbe durare dai tre ai sei mesi al massimo. Prolungare la permanenza in strutture di bassa soglia, o in strutture che non hanno competenze adeguate, non fa che cronicizzare ulteriormente le persone.
Da qualche settimana stiamo seguendo una persona che,  in casa fa molta fatica a svolgere le attività di base in autonomia anche perchè per un anno aveva vissuto in un centro dove non era richiesto di fare nulla. Questo tipo di accoglienza genera dipendenza, immobilismo, perdita di motivazione. Non è solo questione di povertà economica: è soprattutto una questione di povertà relazionale, di isolamento profondo.
A Roma, la situazione non è sostanzialmente migliorata. I centri H15 — strutture a orario ridotto, in cui si può entrare solo la sera e si è obbligati a uscire al mattino — restano ancora molto diffusi. Si tratta di dispositivi profondamente disumanizzanti, che frammentano il tempo e rendono impossibile qualsiasi forma di stabilità. Il passaggio ai centri H24, sostenuto anche dal PNRR, rappresenta un passo avanti in termini di umanità, ma non rompe davvero la logica della risposta emergenziale. Rimane infatti ancorato a un modello temporaneo e sintomatico, che non affronta le cause strutturali dell’esclusione abitativa, né costruisce percorsi duraturi di riconquista della domiciliarità. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) poteva essere l’occasione per sostenere modelli innovativi, come l’Housing First, ma alla prova dei fatti i fondi sono stati dedicati quasi esclusivamente alla ristrutturazione degli immobili, non nell’accompagnamento educativo e psicologico delle persone. Se mancano le ore, le risorse e le competenze per un lavoro di prossimità serio, non si sta facendo davvero Housing First: ci si rivolge inevitabilmente a un target molto diverso.
E nel frattempo, il numero di persone che finiscono in strada sembra crescere, coinvolgendo situazioni sempre più fragili. Fino a pochi anni fa, era raro che una donna con minori si trovasse senza un tetto. Oggi non è più così. In un caso recente, mi è stato raccontato di una madre con una bambina molto piccola, costretta a lasciare un alloggio occupato in seguito a un intervento delle forze dell’ordine. Durante lo sgombero, la bambina — seduta in un angolo — è rimasta per ore con lo sguardo fisso su uno schermo. Un’immagine che dice molto, senza bisogno di commenti.
Può sembrare un dettaglio, ma racconta moltissimo: racconta una povertà educativa, una povertà relazionale, un’assenza totale di strumenti culturali per affrontare il trauma. La strada non è solo un problema abitativo: è il risultato di una concatenazione di esclusioni.
Molte persone ora vengono inserite nelle “tensostrutture”. Mi è stato detto informalmente più volte da colleghi e operatori: meglio dormire in macchina che in quelle strutture. Ho in mente un video che il sindaco Roberto Gualtieri ha pubblicato per annunciare l’apertura di una nuova tensostruttura. Alla fine, una persona senza dimora, ospitata lì, dice al sindaco: “Quando avrò una casa, la inviterò a pranzo.”
Ecco, è tutto lì. Non è la tensostruttura a cambiare la vita. È la casa. E finché non si metterà questo concetto al centro dell’azione politica, continueremo a girare in tondo.

Il ruolo della salute mentale nella marginalità estrema.

Numerose ricerche concordano nel riconoscere la centralità della dimensione psichica nella comprensione dei percorsi di esclusione abitativa. Secondo il position paper Mental Health & Homelessness across Europe pubblicato da FEANTSA nel 2023, le persone senza dimora presentano una prevalenza significativamente più alta di disturbi mentali, spesso non preesistenti ma conseguenti alla vita in strada:

“C’è una prevalenza significativamente più alta di problemi di salute mentale tra le persone senza dimora, e spesso questi problemi sono la conseguenza diretta della vita in strada.”
(FEANTSA Position Paper, 2023)

Tuttavia, ridurre il legame tra salute mentale e homelessness a una dinamica lineare o bidirezionale sarebbe fuorviante. Come sottolineano studiosi come Peter Dierinck (Community-Based Mental Healthcare for Psychosis, Springer 2021) e psichiatri come Giuseppe Riefolo, diventare senza dimora è spesso esso stesso un evento traumatico, capace di produrre fratture del sé, dissociazione, perdita di continuità narrativa e ritiro psichico.

“La homelessness può diventare una soluzione dissociativa per evitare la riattivazione di aree emozionali traumatiche… un meccanismo psichico di sopravvivenza più che un fallimento individuale.”
(Peter Dierinck, 2021)

In Italia, però, questa dimensione resta spesso sottovalutata. I servizi psichiatrici territoriali faticano a integrare il lavoro clinico con quello sociale, mentre l’assenza di residenza anagrafica continua a essere un ostacolo strutturale all’accesso alle cure — come documentato da fio.PSD e da più report del Ministero della Salute.
È in questo scenario che si colloca il lavoro di PsyPlus. L’associazione si distingue per l’assunzione di una responsabilità psichica e relazionale che va oltre l’intervento clinico, trasformandosi in presenza costante, ascolto, costruzione del legame. È un approccio che non psichiatrizza la sofferenza, ma cerca di comprenderla nel suo contesto esistenziale e sociale. Come ricorda Giovanna Teti, Psicologa e Psicoterapeuta:

“La sofferenza psichica della persona che vive in strada è il più delle volte ignorata o mal compresa: ridotta a sintomo, reificata in diagnosi, cristallizzata in uno stigma.”
(PsyPlus – Di stigmi e punture)

Mario Flavio Benini. In uno dei tuoi testi descrivi la strada come una gabbia e la casa come uno spazio di libertà. In che modo, secondo te, la vita in strada incide sulla salute psichica delle persone? Quali forme di disagio sono più frequenti e cosa ostacola una presa in carico reale ed efficace da parte dei servizi?

Giulio Ciucci. Ho provato a riflettere su questo tema anche in un breve testo che ho scritto per il blog di PsyPlus, intitolato Per i senza dimora la strada è una gabbia, la casa è libertà. Ecco, in quel titolo c’è già una parte della risposta.
Parlare di strada e di gabbia significa fare riferimento a un trauma che non è solo singolo o isolato, ma spesso cumulativo, stratificato nel tempo. La vita in strada non solo produce nuove forme di sofferenza psichica, ma tende anche ad amplificare condizioni già esistenti. Una depressione lieve, non trattata, può cronicizzarsi e degenerare; un disturbo d’ansia può evolvere in qualcosa di molto più invalidante.
Il punto però non è tanto che questa sofferenza sia difficile da intercettare. Anzi, molte volte è visibile, evidente. Il vero nodo, a mio avviso, è la volontà istituzionale e collettiva di riconoscerla. Non è questione di complessità tecnica o operativa, ma di sguardo. Le persone sono lì, presenti, vivono in luoghi ben noti. Non c’è nulla di nascosto, semmai c’è un sistema che preferisce non vedere.
Faccio un esempio che per me è molto emblematico. Qualche anno fa, nella zona di Ostiense, accanto a Eataly, era stato allestito un grande tendone, una delle tante “tensostrutture” pensate per l’accoglienza invernale. Durante una riunione, ricordo alcuni operatori che dicevano: “Ora finalmente riusciamo a intercettarli meglio.” All’epoca e non intervenni sbagliando, dentro di me pensavo: no, non è così che funziona.
La vera intercettazione della sofferenza psichica non si fa creando luoghi in cui sperare che le persone arrivino: si fa andando verso di loro. Si fa in strada. È lì che si costruisce la relazione, che si guadagna fiducia, che si aprono spazi per un possibile accompagnamento.
Il sistema che abbiamo oggi — e che personalmente vorrei cambiare in modo radicale — conserva comunque un elemento che va salvaguardato e potenziato: il lavoro di strada. Quello è il punto di contatto fondamentale, lo spazio dove si intercettano le persone che hanno rotto tutti i legami, anche con i servizi.
Oggi ci sono beneficiari del nostro progetto Housing First che vivono in casa, che sono inseriti in percorsi terapeutici o educativi, ma che fino a poco tempo fa non accedevano a nulla. Erano completamente fuori da qualsiasi circuito. Sono stati intercettati anche grazie a quella presenza costante e non giudicante sulla strada.
Non è semplice, richiede tempo, pazienza, risorse umane competenti. Ma è lì che può nascere un primo aggancio reale con chi ha vissuto — e vive — la marginalità più profonda.

Mario Flavio Benini. I servizi di salute mentale pubblici sembrano spesso incapaci di intercettare e accompagnare le persone senza dimora. Da cosa dipende, secondo te, questo “vuoto” tra clinica e marginalità? Si tratta di una mancanza di risorse, di strumenti o, più profondamente, di una scelta politica e culturale?

Giulio Ciucci. Su questo tema si potrebbe scrivere un libro. Ne parlavo recentemente anche con Giuseppe Riefolo, supervisore del nostro progetto Housing First.
Forse il punto non è nemmeno la presenza di psichiatri su strada: il problema è molto più a monte, ed è innanzitutto politico. Ricordo che prima di un intervento un intervento per fio.PSD a Torino, alcuni mi chiamavano con un filo di’ironia come “l’entusiasta”. Dopo quell’intervento, sono diventato per tutti “il pessimista”. Perché sì, possiamo parlare di Housing First, ma se la politica non decide di investire davvero, in modo strutturale e continuativo, nella salute mentale e nel sistema sanitario pubblico, non cambierà nulla.
Oggi in Italia esistono tanti progetti di Housing First, ma sono frammentati, isolati, a rischio di continuità (come dimostra l’esperienza di Bologna, una delle esperienze più luminose, dove parte dell’Housing First è stato trasformato in Housing temporaneo). Un esempio più strutturato è quello di Torino, che ha in carico una settantina di persone. Il problema è duplice: da un lato, la quantità di risorse investite; dall’altro, il modo in cui vengono utilizzate. Esiste una norma nazionale che prevede che almeno il 5% del fondo sanitario regionale sia destinato alla salute mentale. Nessuna Regione ci arriva davvero. Ad avvicinarsi alla soglia del 5% sono solo poche Regioni: Emilia-Romagna (4,6%), Friuli Venezia Giulia (4,5%) e la Provincia autonoma di Trento (4,4%), secondo i dati più recenti del Ministero della Salute.
Ma non è solo una questione di numeri: è fondamentale anche come si spendono quei fondi. In Friuli, per esempio, si lavora molto sulla domiciliarità e sulla prevenzione. Qui nel Lazio, invece, la maggior parte delle risorse finisce ancora nelle cliniche private convenzionate. In Friuli, i reparti SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) sono spesso sottoutilizzati, proprio perché si lavora in modo efficace sul territorio. Da noi, invece, si rimane ancora ancorati a una logica per molti versi manicomiale: si investe in strutture chiuse, si ricorre ancora alla contenzione fisica, e si delega una parte significativa dell’intervento alle cliniche private. Il risultato è che si interviene tardi, quando il disagio è già esploso, anziché costruire percorsi di cura continuativi e di prossimità.
Molti pensano che queste criticità siano legate solo a Roma. In realtà, si tratta di un problema nazionale. Anche in Friuli, spesso indicata come una regione “virtuosa” per la salute mentale, si stanno registrando segnali preoccupanti: alcuni Centri di Salute Mentale (CSM) vengono accorpati, riducendone la presenza territoriale. Anche lì, la situazione mostra segni di peggioramento. In fondo, tutto si gioca sulla volontà politica di investire davvero nella salute mentale e nei servizi di prossimità.
Si può parlare di Housing First quanto si vuole, ma se non si interviene sulle politiche abitative, sanitarie e scolastiche, si resta fermi. La scuola, in particolare, è un nodo cruciale: è l’unico ente che davvero lavora sul futuro. La sanità, certo, cura i corpi, ma la scuola dovrebbe garantire pari opportunità. Invece la stiamo distruggendo.
Se si vuole intercettare il disagio prima che diventi emarginazione adulta, bisogna intervenire nei contesti scolastici, con bambini di  famiglie fragili. Quando ero piccolo, per esempio, esisteva ancora il medico scolastico, una figura che svolgeva un ruolo di sentinella. Ora non c’è più nulla.
Molti adulti che oggi vivono per strada sono “care leavers”: persone uscite da percorsi di tutela minorile, che non hanno mai avuto una rete familiare stabile. Queste fragilità andavano intercettate prima. E chi meglio della scuola avrebbe potuto farlo?
Un discorso simile vale anche per gli assistenti sociali e i Centri di Salute Mentale. Per anni mi sono sentito frustrato di fronte a quella che percepivo come un’incapacità di dare risposte efficaci da parte dei servizi sociali. Poi ho capito che il problema non risiede nelle persone, ma nell’assenza di strumenti adeguati. È troppo comodo scaricare la frustrazione su chi, semplicemente, non ha mezzi per agire.
Oggi i CSM prendono in carico quasi esclusivamente i casi più gravi, quelli ritenuti pericolosi per sé o per gli altri. Se una persona è schizofrenica ma non rappresenta un rischio immediato, resta fuori. È diventata una prassi.
Per anni sono stato favorevole all’idea dello psichiatra su strada. Ne parlavo spesso con Riefolo. Ma poi? Si finisce per attivare un TSO — Trattamento Sanitario Obbligatorio — che è una misura estrema, una forma di violenza, anche se spesso travestita da aiuto.
E dopo il TSO cosa accade? La persona resta in reparto per pochi giorni poi viene dimessa e torna esattamente dove stava prima: per strada. È un meccanismo che non porta da nessuna parte. Il TSO diventa una misura di decoro pubblico, non di cura. Serve solo a “togliere” una persona visibile da un certo luogo.
Se si vuole davvero aiutare qualcuno, serve un percorso: una struttura, un lavoro educativo, una casa. Solo così ha senso.
Quando sento dire che “non si trovano case”, mi viene da rispondere: non è vero. Le case si trovano, se c’è la volontà politica. Conosci il progetto Porto Fluviale?

Mario Flavio Benini. Sì, conosco bene il progetto. Si tratta di uno storico spazio occupato a Roma, abitato per anni da una comunità composta da famiglie e persone in emergenza abitativa. Nato come occupazione e progressivamente strutturato in una forma di autogestione collettiva, Porto Fluviale ha rappresentato per oltre un decennio un’esperienza di resistenza e convivenza solidale. Negli ultimi anni è stato oggetto di un processo di regolarizzazione da parte del Comune, che ha previsto il trasferimento temporaneo degli abitanti in alloggi di transizione e, in prospettiva, l’assegnazione di case popolari. Il tutto in attesa della ristrutturazione definitiva dell’edificio, trasformato in progetto di cohousing sociale.

Giulio Ciucci. Quando sono andato a visitare Porto Fluviale, ho posto una domanda molto semplice: “Quando avete sgomberato lo stabile, siete riusciti a trovare un alloggio per tutte le persone?” La risposta è stata sì.
Questo dimostra una cosa fondamentale: quando c’è una reale volontà politica, le soluzioni si trovano. Le persone sono state temporaneamente inserite in alloggi stabili — case popolari o appartamenti pubblici — con l’impegno di restituire loro un’abitazione definitiva al termine dei lavori di ristrutturazione, previsti per dicembre 2025.
Ma Porto Fluviale apre anche un’altra grande questione. Spesso quando si verifica un’emergenza abitativa, la politica tende a “pescare” dalle case del patrimonio pubblico per dare una risposta immediata, bypassando le graduatorie. È successo con i campi rom, è successo in questa situazione. È comprensibile in alcuni casi, ma crea un precedente pericoloso e innesca nuove disuguaglianze. Senza una visione politica e amministrativa coerente, i problemi si spostano, si riciclano, si cronicizzano. Inoltre la politica può anche decidere, ma se non è seguita da un’amministrazione competente e coraggiosa, resta tutto fermo.
Anche il lavoro dei volontari su strada, per quanto prezioso, resta inefficace se non viene inserito in un sistema strutturato, capace di accogliere, curare, accompagnare.

Mario Flavio Benini. Quindi secondo te il lavoro che può essere fatto con psichiatri su strada, è inutile?

Giulio Ciucci. Abbastanza. Perché da soli, i servizi psichiatrici non possono fare molto. In effetti, l’intervento psichiatrico, senza un contesto adeguato — case, reti di supporto, servizi realmente territoriali — rischia di diventare sterile. Somministrare farmaci a una persona che dorme su una panchina non ha alcun senso: dopo pochi giorni, quella persona sarà esattamente dov’è sempre stata. Questo percorso di cura senza contesto attivo conduce a situazioni indegne, alle quali le persone tentano spesso di sottrarsi — passando da una clinica all’altra o scappando dai reparti. Questo tema è centrale anche nelle riflessioni di Piero Cipriano, il quale denuncia come in molte regioni italiane il sistema sanitario sia ridotto a un ciclo di diagnosi e somministrazione farmacologica, e come i pazienti spesso scelgano di fuggire proprio a causa delle condizioni carcerarie nelle quali si trovano. In parallelo, la giornalista Ludovica Jona ha documentato come la contenzione meccanica continui a essere utilizzata nei SPDC — anche con minori coinvolti — come pratica istituzionale, nonostante le linee guida nazionali e regionali suggeriscano alternative meno traumatiche  Non so se conosce Piero Cipriano.

Mario Flavio Benini. Sì, conosco bene i suoi libri.

Giulio Ciucci. Ho letto “La fabbrica della cura mentale di Cipriano e l’ho trovato potente, veritiero. Racconta com’è la realtà degli SPDC.
Noi — e credo anche i soci di  PsyPlus — siamo fortemente favorevoli alla deistituzionalizzazione.
Abbiamo collaborato anche in Serbia, con Naša Kuća, una realtà che lavora con persone con disabilità mentale. È stato uno dei primi filoni di lavoro dell’associazione. Recentemente abbiamo chiuso un progetto finanziato da Intesa Sanpaolo.
Il modello, però, è sempre lo stesso: mettere la casa al centro. Perché la grave emarginazione non è solo quella della strada. Esiste anche una profonda emarginazione domestica. E i principi dell’Housing First valgono per entrambe.

Mario Flavio Benini. PsyPlus adotta una logica di “presa in carico” e non di “intervento d’urgenza”. Cosa significa, nel concreto, lavorare con la salute mentale su tempi lunghi, in contesti instabili come quelli della marginalità urbana?

Giulio Ciucci. Come accennavo in precedenza, ritengo che i concetti di urgenza ed emergenza non siano realmente applicabili alla grave emarginazione adulta. Il sistema dell’emergenza, così come è concepito, ha senso in casi molto specifici, come ad esempio per donne con minori o vittime di violenza — situazioni che rappresentano una quota minoritaria nel panorama della marginalità estrema. Anche interventi come quelli della Sala Operativa Sociale possono avere una funzione, ma rispondono a dinamiche di pronto intervento, non a un lavoro strutturato e trasformativo.
Gli sfratti, per fare un esempio, vengono spesso trattati come emergenze, ma nella realtà sono eventi annunciati da mesi. È solo la mancanza di una gestione preventiva che li trasforma in crisi. Questo è uno dei grandi paradossi del nostro sistema: trattare come emergenza ciò che poteva e doveva essere affrontato per tempo.
Uno dei principi cardine del modello Housing First è proprio quello di garantire il supporto “per tutto il tempo necessario”. Questo principio rappresenta un cambio di paradigma fondamentale rispetto alla logica progettuale dominante, quella che potremmo definire “liberista”, basata su interventi a termine e su una concezione dell’autonomia che trovo profondamente errata.
Invece di parlare di autonomia, spesso intesa come indipendenza assoluta, bisognerebbe parlare di autodeterminazione: offrire alle persone strumenti per costruire la propria vita secondo i propri tempi, riconoscendo che non esiste un solo modello di autosufficienza.
Saper fare la spesa, cucinare, gestire la propria quotidianità: sono capacità che molte persone senza dimora già possiedono, perché vivere in strada richiede competenze, spesso sottovalutate.
L’altro punto chiave è proprio questo: non si può pretendere progettualità a breve termine da chi ha vissuto traumi complessi. Nella vita quotidiana nessuno ha progetti con scadenza a sei mesi. Perché lo si richiede proprio a chi è più fragile? Perché si impongono tempistiche rigide a chi ha bisogno invece di percorsi aperti, flessibili, capaci di adattarsi alla persona e non il contrario?
Il problema è che i finanziamenti, sia pubblici che privati, funzionano esattamente così: bandi annuali, progettazioni biennali. E quindi anche il terzo settore, nonostante le buone intenzioni, si trova spesso incastrato in questa logica a tempo. È una contraddizione strutturale che limita fortemente la possibilità di attuare progetti realmente trasformativi.

Mario Flavio Benini. Certo, e poi la temporaneità blocca anche a livello esistenziale. Non consente di costruire un orizzonte di senso.

Giulio Ciucci. Esattamente. Pensiamo a come viene giudicata l’incapacità dei giovani di uscire di casa: si parla con superficialità dei cosiddetti “bamboccioni”, dimenticando che chi riesce a costruire opportunità nella propria vita spesso lo fa grazie a reti familiari e sociali solide. Il mito del self-made man è un’illusione. In Italia, ma anche nei Paesi anglosassoni, la mobilità sociale è un privilegio, non una realtà diffusa. I Paesi che garantiscono realmente percorsi di mobilità sociale significativi — cioè la possibilità concreta di migliorare le proprie condizioni di vita partendo da posizioni svantaggiate — sono quelli dell’Europa centro-settentrionale.

Tornando al nostro lavoro, un altro principio fondativo dell’Housing First è il “diritto di scelta e controllo”. Le persone devono poter scegliere. La possibilità di decidere della propria vita è una forma concreta di restituzione di potere, di dignità. In questo, lo ammetto, nel nostro progetto esiste un limite importante: non siamo riusciti a garantire pienamente il principio nella scelta dell’alloggio e degli eventuali coinquilini.
Nel modello Housing First più fedele, si prevede l’assegnazione di monolocali, proprio per rispondere a bisogni complessi. Parliamo di persone con disagio multifattoriale, spesso portatrici di fratture profonde nei legami esterni e interni. Come ha spiegato molto bene anche Riefolo, sono individui che hanno reciso quasi ogni relazione significativa, e per i quali ricostruire un senso di appartenenza richiede tempo, ascolto e continuità.
Ecco perché parlare di presa in carico significa parlare di tempo. Di tempo che non può essere definito a priori, ma che deve restare aperto. Solo così si può davvero accompagnare qualcuno fuori dalla marginalità.

Mario Flavio Benini. Condividi l’idea, espressa da psichiatri come Giuseppe Riefolo, secondo cui l’esclusione abitativa è prima di tutto una ferita psichica, una “rottura del legame simbolico”? In che modo questo concetto guida il vostro approccio?

Giulio Ciucci. Sicuramente non ho le conoscenze teoriche per entrare più di tanto nel merito della questione, ma credo di poter capire cosa intende Riefolo con “rottura del legame simbolico”. È un’espressione che dà parola a qualcosa che viviamo quotidianamente, anche se spesso in modo implicito.
Molte delle persone che incontriamo nella nostra pratica arrivano a un livello minimo di funzionamento, nel senso più ampio del termine. Non si tratta solo di problemi economici o abitativi, ma di una frattura profonda rispetto alla propria storia e alla propria possibilità di pensarsi dentro una traiettoria esistenziale.
Sono spesso persone che, a un certo punto, non hanno più retto il peso della vita adulta. Hanno rotto ogni legame, interno ed esterno, e sono scivolate fuori dalla rete sociale. Una delle persone che stiamo accompagnando attualmente nel progetto Housing First — una persona con risorse cognitive elevate, laureata, con possibilità professionali reali — ci ha detto con estrema lucidità: “Io non ho mai saputo scegliere.” Ha finito per lavorare nel negozio di famiglia come commesso, senza mai trovare un proprio orientamento. È una frase che racconta molto della fatica identitaria che precede, accompagna e spesso segue la caduta nella marginalità.
Nel nostro lavoro, la fase dell’ingaggio è centrale. So che nel modello Housing First puro questa fase non esiste: la persona viene direttamente messa in casa, senza precondizioni. Ma nella nostra esperienza — soprattutto perché a Roma lavoriamo prevalentemente con coabitazioni e non con monolocali — l’ingaggio è indispensabile.
I monolocali, a Roma, sono rarissimi. Tra l’aumento dei prezzi, l’impatto del Giubileo e la difficoltà generale del mercato, trovare una soluzione abitativa individuale è quasi impossibile. Dopo due anni di ricerca ne abbiamo trovato solo uno.
Abbiamo quindi scelto, con consapevolezza, di ispirarci all’approccio sperimentato a Bologna, basato sulla coabitazione. È un modello in cui crediamo, perché lavora sulla possibilità del fare insieme, sulla cooperazione. Tuttavia, non sempre funziona. Alcune persone non riescono a stare in relazione con l’altro in maniera continuativa.
Parliamo spesso di grave emarginazione adulta, ma dovremmo ricordare che questa espressione contiene realtà diversissime: persone con disturbi psichiatrici gravi, con dipendenze attive o croniche, persone reduci dal carcere.
Ti racconto un caso emblematico. Da dicembre abbiamo inserito in Housing First una persona con un problema di dipendenza da sostanze che risale a decenni precedenti. Quando ci fu segnalata per la prima volta, era in strada da meno di un anno. E io, lo ammetto, dissi che non era ancora in “target”. Fu un errore. Ma quella persona ci fu risegnalata, e grazie alla rete — anche alla fiducia di chi ha insistito — siamo riusciti a inserirla nel progetto e a trovare una casa.
Oggi ha più di sessant’anni. Se non fosse entrata in Housing First, probabilmente sarebbe rimasta in strada fino alla fine. Non aveva più alcuna risorsa su cui contare. Nessuna rete, nessuna prospettiva.
E in casi come questi, l’unica vera risposta possibile è la casa. Non come premio, non come ricompensa, ma come precondizione di ogni possibile cambiamento. La casa come diritto, ma anche come spazio simbolico in cui ricostruire legami, rappresentazioni, possibilità.

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Una replica a “PsyPlus: ripensare la cura nella grave marginalità adulta (1° parte).”

  1. […] https://marioflaviobenini.org/2025/10/22/psyplus-ripensare-la-cura-nella-grave-marginalita-adulta/Nella prima parte dell’intervista, “PsyPlus: ripensare la cura nella grave marginalità adulta. La casa come punto di partenza”. abbiamo esplorato l’approccio Housing First, il modello di lavoro territoriale sviluppato da PsyPlus, le criticità strutturali del sistema sociosanitario e l’importanza delle équipe multidisciplinari. In questa seconda parte, invece, ci concentriamo su un tema fondamentale: la casa come luogo psichico e relazionale, come spazio abitato, condiviso, narrato.Le riflessioni che seguono nascono da percorsi reali, vissuti con e accanto alle persone senza dimora accolte nei progetti. Raccontano passaggi fragili, a volte contraddittori, in cui abitare torna a essere un gesto di senso. Perché la casa non è solo uno spazio fisico, ma un contenitore affettivo, un luogo di rielaborazione, di memoria, di relazione. […]

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