So.De: Social Delivery, cura urbana e infrastrutture della prossimità.

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Fotografie: So.De

L’emergere del social delivery in Italia si inserisce in un contesto di profonda trasformazione urbana e sociale, dove la crisi della gig economy e la crescente precarizzazione del lavoro digitale hanno reso urgente l’immaginazione di nuove forme di occupazione dignitosa, relazionale e sostenibile. L’espansione delle piattaforme digitali ha evidenziato le contraddizioni di un modello fondato sulla frammentazione, sull’algoritmizzazione dei rapporti di lavoro e sull’estrazione di valore da soggettività precarie, come sottolineano Antonio Aloisi e Valerio De Stefano: “Le piattaforme digitali non sono semplici intermediari neutri, ma veri e propri datori di lavoro che esercitano un controllo pervasivo attraverso algoritmi opachi e sistemi di reputazione. L’apparente autonomia dei lavoratori maschera una nuova forma di subordinazione, in cui il comando è esercitato dal codice e non più dalla persona” (“Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano“, Aloisi & De Stefano, 2020).
Questa condizione si radica in una lunga tradizione italiana di mutualismo urbano e terzo settore, che oggi trova nuove forme di espressione nel social delivery, in dialogo e talvolta in tensione con i modelli digitali globali. L’esperienza della pandemia ha accentuato tali disparità, rendendo ancora più visibile il ruolo essenziale — eppure spesso invisibile — dei lavoratori della logistica nei circuiti urbani della riproduzione sociale.

La città come infrastruttura della cura.

La prospettiva teorica proposta da Ash Amin e Nigel Thrift in “Vedere come una città” arricchisce e amplia questa riflessione. Gli autori invitano a superare la visione della città come semplice contenitore di attività economiche o oggetto di governo razionale, proponendo invece di leggerla come un “macchinario vitale”: un assemblaggio dinamico di infrastrutture materiali, affettive, simboliche e relazionali. In questa chiave, la politica della città è, prima di tutto, una politica vissuta, fatta di manutenzione, riparazione, coesione e agency diffusa. Il social delivery, in questa prospettiva, non è solo una risposta alle distorsioni della gig economy, ma una forma attiva di infrastruttura relazionale, capace di restituire senso e visibilità alle pratiche ordinarie della cura e della prossimità.

Dignità, legame sociale e capability.

La letteratura sociologica e antropologica sul lavoro contemporaneo sottolinea la centralità della dignità e del legame sociale. Richard Sennett osserva come la flessibilità e la brevità delle relazioni nel nuovo capitalismo corrodano il senso di scopo e coerenza che dava significato al lavoro, mentre Bauman descrive la fragilità dei legami nella modernità liquida. A queste visioni si affianca il Capability Approach di Amartya Sen e Martha Nussbaum, che invita a valutare il benessere in termini di possibilità reali di vivere una vita che si ha ragione di valorizzare, sviluppando competenze, relazioni e agency. Nussbaum sottolinea: “A life that is truly human is one that is shaped by the individual’s own choices and capacities, not just by external circumstances” (“Creating Capabilities: The Human Development Approach”, Martha Nussbaum, 2011).

Welfare generativo e infrastruttura della prossimità.

Il social delivery si configura così come una forma di welfare generativo, dove la cura delle relazioni, la co-progettazione con la comunità e la prossimità diventano elementi centrali per la sostenibilità e l’impatto sociale. Seguendo la prospettiva di Giovanni Moro, la cittadinanza attiva e l’amministrazione condivisa sono strumenti fondamentali per costruire una logistica urbana che sia anche infrastruttura di prossimità e cura collettiva.
L’innovazione del social delivery non è solo tecnologica, ma anche istituzionale: nasce dalla capacità di immaginare nuove forme di cooperazione, governance e responsabilità condivisa tra cittadini, lavoratori e istituzioni. In questa logica, la logistica urbana non è solo una questione di efficienza, ma di costruzione di legami, di manutenzione e riparazione delle reti sociali, di attivazione di nuove forme di cittadinanza e agency collettiva. La ciclofficina sociale, in particolare, diventa metafora concreta di questa funzione: non solo si riparano biciclette, ma si curano reti di prossimità, si sostengono soggetti fragili, si creano circuiti di fiducia e reciprocità.

La città come assemblaggio e laboratorio di cura.

Riprendendo Amin e Thrift, la città deve essere vista come un “assemblaggio adattivo complesso”, un campo di forze dove infrastrutture materiali e sociali, pratiche di cura, dispositivi tecnologici e affetti si intrecciano generando nuove possibilità di azione e trasformazione. L’innovazione del social delivery, allora, non è solo una questione di strumenti o processi, ma di immaginazione istituzionale e relazionale: la capacità di costruire una città che si prende cura di sé stessa e dei suoi abitanti, generando giustizia sociale e nuove possibilità di vita urbana.

Il caso So.De e La Raggiante.

L’esperienza di So.De – Social Delivery e della ciclofficina sociale La Raggiante, attive a Milano nel quartiere Dergano, rappresenta un caso emblematico di questa riconfigurazione. Qui, il lavoro di consegna non è solo un servizio: è un atto politico di prossimità, un’occasione per costruire relazioni, rigenerare tessuti urbani e restituire senso al lavoro. Come scrive Sandro Greblo: “Fare il corriere sociale non significa solo trasportare pacchi, ma attraversare la città ascoltando le sue voci, osservando le sue ferite e costruendo relazioni di prossimità. Ogni consegna è un incontro, ogni strada un racconto di umanità sommersa” (“Vita in cargo bike” Sandro Greblo, 2024).
L’innovazione sociale, in questa prospettiva, emerge dall’ascolto del territorio, dalla riflessione sulle pratiche quotidiane e dalla capacità di adattare soluzioni globali ai bisogni locali. Il social delivery, così inteso, diventa infrastruttura vitale della città: un laboratorio di cittadinanza attiva, dove prossimità, cura e sostenibilità si intrecciano per ripensare la città come spazio di giustizia sociale, agency diffusa e welfare generativo.

Storia, nascita e valori di So.De.

Nel panorama italiano, So.De – Social Delivery e la ciclofficina sociale La Raggiante rappresentano una delle prime risposte strutturate, etiche e profondamente radicate sul territorio della città di Milano alla crisi del lavoro digitale e alla disumanizzazione delle piattaforme. Oltre la dimensione economica e logistica, la nascita di So.De si configura come un gesto relazionale e politico: una presa di parola collettiva che tenta di riformulare il senso del lavoro urbano a partire da prossimità, solidarietà e giustizia ambientale.
L’origine di So.De non va letta soltanto come reazione alle storture della gig economy, ma anche come generazione di senso a partire da bisogni concreti: inclusione lavorativa, nuova cittadinanza, reti di mutuo aiuto, forme sostenibili di mobilità e micro-logistica. In questa prospettiva, So.De si inserisce in una genealogia di pratiche sociali e comunitarie che intrecciano lavoro, territorio e trasformazione culturale.
L’idea di un social delivery come “atto di prossimità” e di una ciclofficina come “presidio relazionale” richiama forme di economia urbana che trovano linfa più nei bisogni collettivi che nei margini di profitto. È proprio questa tensione tra visione e risposta concreta che rende interessante partire dalla genesi di So.De: non solo per capire come è nato il progetto, ma per cogliere l’intreccio tra biografie, territori e desideri sociali che lo ha reso possibile.
A guidare questo primo capitolo è una domanda chiave: come si fa a trasformare un’idea radicale in un’azione quotidiana e sostenibile nel tempo?

Mario Flavio Benini. Partiamo dall’inizio: come nasce So.De? C’è stato un momento preciso, un’intuizione o una serie di bisogni che vi hanno spinto ad avviare questo progetto? È nato come risposta a qualcosa o come proposta in anticipo sui tempi?

Lucia Borso. So.De nasce da un gruppo di sette persone — provenienti tutte, anche se con percorsi diversi, dal mondo dell’innovazione sociale e culturale. Un’antropologa, una filosofa, io sono psicologa, un educatore…
Nel periodo precedente alla pandemia, ci eravamo ritrovati a collaborare all’interno del gruppo di progettazione dell’Associazione di Promozione Sociale Rob de Matt, un bistrot inclusivo nel cuore del quartiere Dergano, a Milano. Rob de Matt è un luogo molto particolare, che fa inclusione lavorativa per persone con differenti fragilità: persone con disabilità, migranti, persone con disturbi di salute mentale — e infatti il nome, “Rob de Matt”, nasce proprio da lì.
Nel nostro lavoro di progettazione, ci occupavamo di intercettare i bisogni del quartiere Dergano-Bovisa e abbiamo provato a dare risposte nuove, creative, socialmente utili.
Poi è arrivata la pandemia, e ha scombinato completamente le carte. Rob de Matt ha dovuto chiudere il primo marzo 2020, come tutte le attività di ristorazione. Dopo qualche giorno di disorientamento, il bistrot è stato trasformato in un polo di produzione e distribuzione di pasti caldi, da consegnare a domicilio a famiglie fragili e persone senza dimora.
Rob de Matt è riuscita a raccogliere cento volontari e si sono “messi in strada”: a consegnare cibo, a tessere relazioni. È stata la nostra prima esperienza diretta con il delivery, fatta con uno spirito totalmente solidale.
In parallelo, come ci era abituale, abbiamo iniziato a osservare i fenomeni sociali che stavano attraversando la città. E lì è diventato evidente quanto fosse centrale — e allo stesso tempo invisibile — il lavoro dei rider. Durante il lockdown, in città si vedevano solo ambulanze e rider. E da categoria completamente anonima, sono diventati una presenza costante.
Abbiamo iniziato a informarci, a studiare il funzionamento delle grandi piattaforme, a confrontarci con i sindacati autonomi. E ci è stato subito chiaro che si trattava di un settore segnato da sfruttamento, precarietà e isolamento.
Allo stesso tempo, lavorando molto sul quartiere, eravamo in contatto con botteghe, piccoli esercenti, microimprenditori locali che volevano un servizio di consegne etico per la loro attività. Anche da lì è nata una domanda: esiste un altro modo di fare consegne?

Così, mettendo insieme questi tre elementi — l’esperienza diretta della consegna solidale, la riflessione critica sul lavoro dei rider, e il bisogno delle botteghe locali — abbiamo iniziato a immaginare un sistema di consegne a domicilio basato su presupposti etici. Una proposta in controtendenza rispetto alla logistica dominante.
In quei mesi è uscito un bando del Comune di Milano, legato al Crowdfunding Civico: se venivi selezionato, il Comune ti affiancava nella campagna e, se raggiungevi la soglia prevista, contribuiva con un co-finanziamento.
Nel 2021 abbiamo presentato la nostra proposta, siamo stati selezionati, e ad aprile abbiamo lanciato il crowdfunding sulla piattaforma di Produzioni dal Basso. Avevamo fissato l’obiettivo a 25.000 euro  e l’abbiamo superato, con oltre 550 donatori. Per noi è stato un segnale fortissimo: non eravamo soli.
Da quel momento hanno iniziato a scriverci in tanti: giornalisti, rider, attivisti, ricercatori, volontari, professionisti. Un giuslavorista specializzato sul diritto dei rider ci ha contattati per aiutarci a scrivere un contratto equo. Un informatico si è offerto di costruire una piattaforma. È nata attorno a So.De una vera e propria community.
Quella campagna non è stata solo una raccolta fondi. È stato il momento in cui abbiamo capito che questa idea toccava qualcosa di profondo, che riguardava tanti. E che valeva la pena andare avanti.
Così, nel 2021, abbiamo fatto un primo test operativo, una fase pilota. E nel gennaio 2022 abbiamo aperto Magma Impresa Sociale, una srl impresa sociale che oggi gestisce il progetto So.De. La scelta di costituire un’impresa — e non restare solo un’associazione — è nata dalla consapevolezza che, per garantire continuità e impatto, serviva una struttura imprenditoriale.
Anche perché, all’inizio, non avevamo modelli da seguire. Dovevamo immaginare un sistema logistico diverso. Ma quel primo anno ci ha dato la forza, i contatti, le relazioni e le competenze per provarci davvero.

Mario Flavio Benini. “Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” diceva Michele Apicella, il personaggio di Nanni Moretti in “Palombella Rossa”. E per definire un progetto, le parole sono certamente importanti — soprattutto un progetto come il vostro.
Quando pensi alle marginalità, alle fragilità, mi vengono in mente parole come: dignità, prossimità, sostenibilità, comunità? E ovviamente molte altre. Quali parole chiave, secondo te, definiscono al meglio il vostro progetto?

Lucia Borso. Direi sicuramente “Inclusione”, perché i percorsi di inserimento lavorativo fanno parte integrante del nostro organico. Poi “Sostenibilità”, sia ambientale che umana: cerchiamo di minimizzare l’impatto delle consegne sull’ambiente, ma anche di creare un contesto di lavoro sano, stabile, accogliente.
Mi vengono in mente anche parole forse meno immediate, come “Intelligenza urbana”: il nostro obiettivo è contribuire a costruire filiere intelligenti dentro la città, come quella legata alla food policy e al recupero del cibo. I nostri corrieri, ogni giorno, recuperano eccedenze alimentari dalla grande distribuzione, dalle mense, dai mercati… e invece di lasciarle andare sprecate, le consegnano — grazie a una rete di soggetti molto ampia — agli hub alimentari per le famiglie in difficoltà.
Per me questa è “Intelligenza urbana”: un corriere che arriva da una storia difficile, che ha trovato lavoro, va a recuperare cibo in surplus e lo porta, senza inquinare, a chi ne ha bisogno. È un’azione concreta, inclusiva, sostenibile.
Un’altra parola fondamentale per noi è “Cura”: la cura delle relazioni, all’interno del team e all’esterno. Curiamo i rapporti con i dipendenti, tra dipendenti, tra corrieri, ma anche tra corrieri e botteghe, con i clienti, con le persone dei quartieri. La logistica può diventare anche questo, può diventare “cura”.
Poi c’è la parola “Servizio”, intesa proprio come “essere al servizio di”. Cerchiamo di essere al servizio della città. L’idea è che la logistica non sia solo spostare un pacco da un punto A a un punto B, ma possa diventare un gesto di prossimità, una dinamica che restituisce valore alla città e ai cittadini. In questa visione, i corrieri diventano operatori di prossimità.
Un’altra parola che mi viene in mente è “Immaginazione”. Perché tante cose — soprattutto all’inizio — le abbiamo dovute proprio immaginare da zero. Abbiamo dovuto inventarle, modellarle, testarle… per poi trasformarle in qualcosa di concreto. L’immaginazione è sempre stata e continua ad essere un motore importante.

Mario Flavio Benini. Prima dicevi che arrivate tutti da esperienze molto diverse.
Le vostre storie personali, di studio, professionali, di vita… in che modo hanno influito sull’avvio dell’iniziativa e sulla costruzione del progetto?

Lucia Borso. Come ti dicevo siamo sette persone, con formazioni differenti ma anche profondamente intrecciate. E ognuno di noi, in modo diverso, è riuscito a portare dentro So.De le proprie competenze e il proprio bagaglio di esperienze.
Io, ad esempio, sono una psicologa. Ho sempre lavorato nell’inclusione lavorativa di persone con disagio psichico, quindi ho maturato competenze in ambito di salute mentale, disabilità e accompagnamento al lavoro. Tutto questo l’ho portato naturalmente dentro So.De.
Francesco Purpura ha maturato esperienza nella progettazione sociale, protagonismo giovanile e pubbliche relazioni nel terzo settore e in Rob de Matt.
Teresa De Martin ha lavorato nel management culturale, con competenze in fundraising, relazioni istituzionali e comunicazione.
Naima Comotti proviene dal mondo dell’innovazione sociale e culturale, con competenze in progettazione e ricerca.
Elia Cipelletti ha una formazione da fisioterapista e una forte passione per la bicicletta, che lo ha portato a lavorare nel settore e a specializzarsi nella ciclologistica.
Umberto Biscaglia lavora nell’amministrazione di un’organizzazione del terzo settore.
Silvia Boniardi ha sempre lavorato nel mondo della comunicazione, con esperienza in strategie editoriali e media relations.
Tutti noi, in qualche modo, abbiamo messo in campo competenze già esistenti. Inoltre avevamo alle spalle anni di collaborazione su progetti sociali: eravamo già un gruppo consolidato, abituato a lavorare insieme.
Chiaramente, nel puzzle iniziale mancavano alcuni pezzi fondamentali che stiamo costruendo nel tempo, anche grazie al supporto di professionisti esterni.

Mario Flavio Benini. Mi sembra chiaro, da quello che hai appena raccontato, che all’inizio mancavano competenze tecniche fondamentali: finanza, logistica, informatica. Eppure, sin da subito, avevate una visione forte, maturata in anni di progettazione sociale, culturale, educativa. In altre parole: mancava l’infrastruttura, ma c’erano già la postura e l’orientamento. Come avete messo insieme, nel tempo, questo mix così particolare tra pratica e pensiero, tra operatività quotidiana e riflessione teorica?
Per spiegarmi meglio, ti faccio un piccolo inciso. Spesso, nelle associazioni che si occupano di orientamento al lavoro — soprattutto quando si lavora con persone in situazione di grave marginalità adulta — una delle criticità principali è l’assenza di un vero accompagnamento continuativo. Lo sportello a bassa soglia parte spesso da un racconto biografico, in cui si valutano le abilità “spendibili” della persona; poi si propone magari un percorso formativo disponibile, che però non sempre ha reali sbocchi occupazionali. E quasi mai si struttura un vero accompagnamento nel tempo.
Voi, invece, anche se all’inizio mancavano alcune competenze tecniche, avevate già dentro al progetto quelle altre componenti fondamentali. E forse è proprio questo che rende So.De un’esperienza così unica e interessante. Come avete studiato e investito in questo mix?

Lucia Borso. Sì, sicuramente. Quelle che normalmente vengono considerate attività “collaterali” in un’impresa – come la cura dei percorsi individuali, la qualità delle relazioni interne, l’inclusione di persone con fragilità – per noi sono state fin dall’inizio il cuore del progetto.
Un po’ è dipeso dal nostro background personale e professionale, un po’ dalla natura stessa dell’idea che stavamo costruendo.
Per noi la ciclologistica è uno strumento. Non è un modo per generare profitto, ma per generare impatto: inclusione lavorativa, sensibilizzazione ambientale, costruzione di comunità.
La bicicletta per noi è un veicolo – nel senso più pieno del termine – per portare avanti un’idea diversa di città, di lavoro, di prossimità.
All’inizio, tutto questo non l’abbiamo nemmeno teorizzato troppo. Era un periodo molto particolare: la pandemia. Quello che normalmente si fa prima – analisi di contesto, studio, confronto – è avvenuto dopo.
Abbiamo agito con una spinta “di pancia”, spinti dal desiderio di fare qualcosa di utile, di rispondere a un bisogno che percepivamo come urgente.
Solo in un secondo momento, durante il primo pilota, abbiamo iniziato a confrontarci con altre esperienze simili. C’era Consegne Etiche a Bologna, un progetto simile al nostro ma nato da Fondazione Innovazione Urbana, con la partecipazione del Comune. Ci siamo sentiti più volte con loro, ma anche con altre realtà come Clean Up a Napoli o Robin Food a Firenze. Abbiamo fatto tante call, perché non si poteva viaggiare, e abbiamo iniziato a costruire una prima rete di confronto.

Mario Flavio Benini. Consegne Etiche, mi sembra, è un’esperienza che oggi non esiste più?

Lucia Borso. Sì, credo che sia così. Non so esattamente come sia terminata, ma sicuramente in quel periodo era una delle realtà più interessanti.
Detto questo, nessuna delle esperienze attive in quel momento – neanche la nostra – era in una fase tale da poter “fare scuola”. Eravamo tutti in fase di sperimentazione, in piena logica di prova ed errore.
Noi, in particolare, siamo partiti dalle nostre esperienze, da ciò che sentivamo importante: valori, più che logiche di profitto o efficienza. E questo, da una parte, è stato un grande punto di forza, perché ci ha reso unici.
Non ci sono molte realtà in Europa che uniscono ciclologistica, inclusione lavorativa di persone fragili, recupero del cibo, solidarietà di quartiere. Dall’altra parte, però, questa unicità è anche una complessità in più.
Siamo una non-profit, quindi non ci muoviamo per generare profitto, ma dobbiamo comunque far funzionare una macchina organizzativa.
Se assumi persone, e in particolare se una buona parte di queste persone proviene da percorsi di svantaggio sia sociale che personale, significa che devi anche accompagnarle, formarli, dedicare tempo e risorse. Tutto questo richiede una cura che altrove magari non c’è, ma che per noi è irrinunciabile.
E sì, rende le cose più difficili. Ma anche molto più significative.

Modelli ispirativi: Italia, Europa, mondo.

La crescita del social delivery negli ultimi anni si è intrecciata con un più ampio movimento di ripensamento della logistica urbana, fondato su questioni cruciali di giustizia climatica, dignità del lavoro e prossimità territoriale. In molte città del mondo, sono emersi progetti che sfidano la logica estrattiva delle grandi piattaforme digitali e sperimentano forme di consegna urbana etica, cooperativa e sostenibile. La riflessione teorica – da “Platform Capitalism” di Nick Srnicek, che analizza la trasformazione del capitalismo digitale e la concentrazione di potere nelle piattaforme, ad “After the Gig” di Juliet Schor, che esplora le crisi e le alternative della sharing economy – ha messo in luce la crisi del paradigma digitale dominante e l’emergere di nuovi spazi di innovazione socioeconomica basati su mutualismo, governance condivisa e radicamento territoriale.
In Italia, esperienze come Lab.biciclario a Terni, Consegne Etiche a Bologna o Ciclofficina Sociale di Cormano (ne abbiamo scritto qui) dimostrano che la ciclologistica può diventare strumento di inclusione, formazione e rigenerazione locale, anche in assenza di grandi investimenti infrastrutturali. Questi modelli condividono la tensione a restituire senso al lavoro, riconnettendolo ai bisogni delle comunità e a visioni trasformative della città, come sottolineato anche dalla ricerca sociologica sul mutualismo urbano e sulle economie di prossimità.
A livello internazionale, progetti come Fietskoeriers.nl (Paesi Bassi), La Petite Reine (Francia), Pedal Me (UK) si configurano come laboratori di sperimentazione urbana dove si intrecciano sostenibilità ambientale, governance cooperativa e impatto sociale. Studi quantitativi recenti, come quello di Max Schrader et al. (2023), dimostrano che l’utilizzo di cargo bike nei contesti urbani riduce significativamente le emissioni e i tempi di consegna, rendendo la ciclologistica una risposta concreta e misurabile alla crisi ecologica.
Questo ripensamento della logistica urbana si inserisce in un dibattito più ampio sulla giustizia spaziale e climatica, come evidenziato da Karel Martens in “Transport Justice”, che sottolinea l’importanza di un accesso equo e sostenibile ai servizi di mobilità nelle città. Inoltre, la dimensione etica del lavoro nelle piattaforme digitali è stata approfondita da Aloisi e De Stefano, che denunciano le dinamiche di sfruttamento algoritmico e la necessità di modelli alternativi basati su mutualismo e governance condivisa.
Il panorama che emerge da questi studi e pratiche è quello di un nuovo paradigma logistico in cui la prossimità, la cura, la cooperazione e la territorialità sostituiscono la performance impersonale e l’ottimizzazione algoritmica. Tuttavia, ogni esperienza nasce dentro un contesto specifico: linguaggi, vincoli, opportunità e culture urbane differenti rendono ogni progetto unico e non semplicemente replicabile. La letteratura internazionale suggerisce che l’adattamento locale, la partecipazione delle comunità e la capacità di integrare innovazione sociale e tecnologica siano fattori chiave di successo per questi modelli.
Per questo motivo, l’intervista intende esplorare se e come l’esperienza di So.De si sia confrontata con questi modelli. Le domande che seguono non partono da assunti, ma pongono la questione dell’ispirazione, del confronto e dell’adattamento come spazio aperto di racconto, riflessione e posizionamento.

Mario Flavio Benini. Quando avete iniziato a costruire So.De, vi siete confrontati con esperienze simili già attive in Italia o all’estero?
Ci sono stati modelli o progetti che vi hanno ispirato concretamente, oppure il vostro è nato soprattutto da un’urgenza interna, come risposta a un contesto molto specifico?
E, in quel caso, che tipo di ostacoli avete incontrato nel costruire un modello quasi da zero, in un settore come quello della ciclologistica sociale, che in Italia ha ancora pochi riferimenti strutturati?

Lucia Borso. L’idea è nata soprattutto da un impulso interno. È stata una risposta molto immediata a quello che stavamo vivendo in quel momento, più che la rielaborazione di modelli preesistenti. Però sì, a livello ispirazionale abbiamo guardato ad alcune esperienze — soprattutto nel Nord Europa — che ci hanno colpito per la capacità di coniugare prossimità e innovazione.
Ci sono realtà che usano le cargo bike per portare in giro gli anziani, per esempio, o per accompagnare i bambini a scuola. Modelli che ci hanno fatto dire: “Ecco, anche questo è un modo intelligente di usare la logistica”.
Però quella era una dimensione legata ad una possibile visione. Quello che invece ci è mancato — e che avremmo davvero avuto bisogno di trovare — è stato un supporto pratico e concreto.
Sapere che in Olanda si portano gli anziani in cargo bike è stimolante, ma poi ti scontri con la burocrazia e le leggi di un altro paese. Che forma giuridica scegliere? Impresa sociale? SRL? Cooperativa? Sono tutte scelte che in altri paesi magari seguono una prassi semplificata. Qui no. In Italia l’impresa sociale è ancora poco conosciuta e poco studiata, anche tra i professionisti. Ci siamo trovati di fronte a notai, commercialisti e consulenti che non sapevano darci risposte certe.
Così abbiamo dovuto cercare, studiare, insistere, fare file agli sportelli, trovare le persone giuste con fatica. A volte ci siamo affidati a consulenti molto preparati, ma anche loro spesso si sono trovati a dover navigare in acque grigie, perché non esistono linee guida chiare su come fare questo tipo di impresa.
Quindi sì, le ispirazioni ci sono state, ma la costruzione concreta del modello è stata tutta nostra. E quel pezzo lì — il “come si fa davvero” — è stato e continua a essere la parte più complessa.

Modelli: operativo, organizzativo ed economico.

Il cuore di ogni esperienza di social delivery risiede nella capacità di tradurre valori e visioni in pratiche operative quotidiane, strutture organizzative resilienti e modelli economici sostenibili. La letteratura sulle imprese sociali urbane e sulle cooperative di piattaforma (Schor, 2020; Scholz, 2016) sottolinea come la sfida non sia solo inventare nuovi servizi, ma costruire architetture organizzative capaci di garantire inclusione, efficienza e sostenibilità nel tempo. Nel caso di So.De e della ciclofficina La Raggiante, questa sfida si è tradotta in una combinazione di governance partecipata, attenzione alla formazione, cura dei processi di onboarding e una gestione economica ibrida, che integra fonti di ricavo diversificate e partnership strategiche.
La letteratura internazionale (Scholz, 2016; Martens, 2019) suggerisce che la sostenibilità di questi modelli dipende dalla capacità di bilanciare impatto sociale e vincoli di mercato, sviluppando economie di scala, reti collaborative e innovazione continua. In Italia, la normativa sulle imprese sociali e le recenti sperimentazioni di crowdfunding civico rappresentano un terreno fertile ma ancora in evoluzione, dove la capacità di adattamento e la trasparenza organizzativa sono elementi chiave.
In questo capitolo, l’attenzione si concentra dunque su come So.De abbia strutturato i propri hub, definito i processi di inclusione e formazione, articolato il modello economico e costruito una governance capace di sostenere la crescita senza snaturare la missione sociale. L’obiettivo è comprendere quali scelte organizzative e gestionali abbiano permesso a So.De di consolidarsi come realtà di riferimento nel panorama della ciclologistica sociale italiana.

Mario Flavio Benini. Se dovessi fare una scaletta delle difficoltà maggiori che avete affrontato nel mettere in piedi So.De, quali sono le complessità che ti vengono subito in mente? Hai accennato alla parte amministrativa, alla gestione quotidiana e anche al fundraising… ma quali sono le sfide più impegnative? Cosa metteresti ai primi posti?

Lucia Borso. La prima cosa che mi viene in mente è la complessità burocratica e normativa. Già fare impresa è difficile, figuriamoci fare impresa sociale in un ambito così ibrido e poco definito come la ciclologistica. È un settore grigio: la logistica “classica”, quella con i mezzi pesanti, è normata. Ma la ciclologistica è una terra di mezzo, e anche dal punto di vista giuridico siamo un ibrido. Questo rende molto faticoso trovare risposte certe: spesso non esistono e vanno costruite passo dopo passo.
Un’altra grande difficoltà è stata la sostenibilità economica. Non è un caso se tutte le piattaforme fanno lavorare a cottimo: così spostano il rischio d’impresa sul lavoratore. Nel nostro caso, invece, il rischio è tutto nostro. Noi assumiamo le persone con un contratto, le retribuiamo a ore. Ma questo significa che ogni ora dev’essere sostenibile. Ecco perché abbiamo quasi da subito scartato il modello classico del food delivery: con il nostro modello, serve programmazione, previsione, efficienza.
C’è poi un’altra complessità che riguarda il rischio di questo lavoro, che non sempre puoi controllare. Noi facciamo moltissima formazione, anche oltre gli obblighi: corsi di sicurezza, incontri con i partner, tutto. Ma se poi la città è progettata male per chi va in bici, se gli incroci sono pericolosi o le piste ciclabili interrotte, il rischio resta. E se succede qualcosa, la responsabilità è nostra. Milano non è ancora una città pensata per chi si muove in bicicletta, e questa cosa incide molto, anche a livello di sicurezza sul lavoro.
Infine, c’è un problema culturale ed economico: oggi la consegna a domicilio è percepita come un servizio a basso costo, perché abbiamo normalizzato i prezzi da piattaforma, cioè bassissimi perché basati sullo sfruttamento. Ma se fai un modello etico, sostenibile, e assumi le persone, allora la consegna deve avere un costo. Ed è difficile farlo capire. Nessuno si scandalizza se paga 20 euro un taxi, ma se chiedi 6 euro per una consegna, sembra eccessivo. In realtà, è un servizio comodo, quasi di lusso. E se lo paghi poco, vuol dire che qualcun altro sta pagando la differenza, e quel qualcuno, quasi sempre, è il lavoratore.

Mario Flavio Benini. Uno degli aspetti fondamentali, che spesso si sottovaluta, è la formazione. Formazione interna, ovviamente, ma anche formazione esterna: parliamo di clienti, aziende, cittadini. Perché spesso manca la consapevolezza di cosa significa costruire una piattaforma come So.De, del lavoro e del valore che c’è dietro ogni consegna. Immagino che questo doppio livello – formare chi lavora dentro, ma anche chi usufruisce del servizio – sia per voi centrale e richieda grande impegno.

Lucia Borso. Sì, esatto. Confermo. È un aspetto centrale. La formazione, per noi, non riguarda solo i corrieri, ma anche il territorio, la clientela, i partner. È uno strumento culturale, prima ancora che tecnico.

Mario Flavio Benini. Come si articola oggi l’organizzazione di So.De e della ciclofficina La Raggiante? Come vengono gestiti i flussi di lavoro? E quali ruoli risultano davvero strategici per la tenuta del progetto, dal punto di vista umano e logistico?

Lucia Borso. Attualmente So.De conta circa una ventina di dipendenti, ai quali si aggiungono alcuni collaboratori e collaboratrici. Tutti i corrieri sono assunti direttamente da noi. La nostra percentuale di turnover è molto bassa, e questo ci consente di costruire rapporti stabili e duraturi, impostati sul lungo periodo. Quando una persona entra a far parte del nostro team, segue subito una formazione articolata su più livelli. Da una parte c’è la formazione tecnica: parliamo di ciclomeccanica di base, ad esempio cosa fare se si buca una ruota durante una consegna o si ha un piccolo guasto. Dall’altra parte c’è la formazione relazionale: competenze trasversali che consideriamo fondamentali, perché ogni giorno i nostri corrieri si relazionano con negozi, famiglie, clienti di varia natura, e la qualità di quella relazione fa parte della qualità del servizio.
Oltre ai corrieri c’è un’area logistica coordinata da una figura di riferimento, affiancata da dispatcher, cioè persone che si occupano di organizzare le rotte e gestire i flussi. Il loro compito è ricevere i pacchi, organizzarli e pianificare i giri del giorno successivo, ottimizzando le rotte. Questo è fondamentale, perché ogni giro dev’essere ragionato: non ha senso far andare una cargo bike da una parte all’altra della città senza logica. La sostenibilità – economica, ambientale, umana – passa anche da qui.
Abbiamo oggi due hub a Milano: uno si trova in zona Dergano, l’altro in zona Ticinese, vicino a Sant’Eustorgio. Quest’ultimo è molto strategico perché si trova nel centro della città, dove spesso le cargo bike sono preferibili – e in certi casi addirittura necessarie – ai furgoni. In centro, infatti, ci sono regole più restrittive per i veicoli pesanti, strade strette, ingorghi. Spesso le aziende ci chiedono proprio questo: portare le merci fino a un certo punto e poi farle arrivare in centro con mezzi leggeri, agili e a basso impatto. L’hub di Ticinese, anche se più piccolo, funziona a tutti gli effetti come un polo logistico operativo. Ma è anche molto di più: è casa, è spazio vissuto, un luogo dove ci si può fermare, ricaricare il telefono, bere un caffè, riposarsi, prendersi una pausa. Non sembra, ma è un aspetto importante: la gran parte dei corrieri in città non ha un bagno a disposizione, non ha un luogo dove stare. Per noi, invece, garantire dignità significa anche avere un posto dove potersi fermare.
La sede di Dergano, invece, ospita La Raggiante, la nostra ciclofficina sociale. Anche qui abbiamo voluto creare uno spazio ibrido, che unisce le funzioni logistiche a quelle comunitarie. La Raggiante è un luogo attrezzato dove, uno dei nostri corrieri esperti è a disposizione della cittadinanza per aiutare chi passa a sistemare la propria bici. È un servizio gratuito, pensato per il quartiere. Ma non è l’unico. In questo spazio, infatti, succedono molte cose. Offriamo servizi di portierato sociale: capita che una persona venga a lasciare una chiave o un pacco, e che poi un familiare o un amico passi a ritirarlo. C’è un book crossing, ci sono laboratori creativi, incontri pubblici, formazioni di ciclomeccanica per bambini, momenti di sensibilizzazione sulla mobilità attiva e sostenibile. La Raggiante è anche il luogo dove organizziamo corsi, attività didattiche, eventi aperti. Per noi è uno spazio prezioso, perché collega il lavoro alla comunità. Non è solo un’officina, non è solo un hub. È un punto di incontro, un luogo di prossimità e cittadinanza.

Mario Flavio Benini. Ed è aperta al pubblico due giorni a settimana?

Lucia Borso. Sì, in estate La Raggiante è aperta al pubblico per due pomeriggi a settimana, mentre in inverno solitamente il lunedì pomeriggio. Detto questo, lo spazio è sempre aperto. Se una persona vuole passare anche in un giorno in cui non ci sono attività in programma, può comunque entrare, magari per lasciare o ritirare un pacco, per prendere un libro dallo scaffale del book crossing o semplicemente per scambiare due parole. L’accesso è sempre possibile, ma ovviamente ci sono momenti specifici in cui organizziamo eventi, incontri, corsi. Quello che conta è che non si tratta solo di un luogo funzionale: è uno spazio accogliente, vissuto, a disposizione della città.

Mario Flavio Benini. Quali sono oggi, dal tuo punto di vista, i ruoli fondamentali per la tenuta del progetto?

Lucia Borso. Ti ho raccontato dell’organizzazione partendo dagli hub, ma ovviamente accanto all’area logistica ci sono altre funzioni chiave. La logistica è coordinata da un responsabile, Elia Cipelletti, che è anche uno dei soci fondatori, una figura fondamentale perché ha in mano tutta la regia operativa del lavoro su strada. Io, invece, mi occupo principalmente di progettazione sociale, del rapporto con i clienti e con i partner. Se vogliamo sintetizzare, le funzioni strategiche oggi sono logistica, comunicazione, gestione clienti, progettazione sociale e sviluppo del business. A tutto questo, c’è una persona dedicata all’amministrazione, alla parte finanziaria e alla gestione delle risorse umane. È un ruolo chiave, che ci mancava, e che oggi ci permette di avere maggiore solidità e visione economica.

Mario Flavio Benini. Uno degli aspetti più importanti del vostro lavoro è senz’altro l’inclusione lavorativa. Da quello che mi hai raccontato finora, mi pare ci sia una piena riuscita da questo punto di vista: circa il 90% delle persone che lavorano con voi è assunta, quindi non parliamo solo di coinvolgimento temporaneo, ma di vera inclusione nel flusso operativo dell’impresa. Naturalmente, per avere un impatto più ampio servirebbe moltiplicare il progetto in altri territori. Ma oggi, in concreto, come funziona per voi l’inclusione lavorativa? Come si sviluppa questo processo?

Lucia Borso. Per noi è una missione strutturale. Abbiamo deciso di mantenere almeno il 30% del nostro organico composto da persone cosiddette “fragili” o “svantaggiate” – uso le virgolette perché sono definizioni che derivano dalla normativa, ma che ci stanno strette. In questa categoria rientrano persone con disabilità, migranti, rifugiati, o in uscita da percorsi penali. Ovviamente, più cresciamo come impresa, più cresce anche la nostra capacità di generare impatto e offrire opportunità a chi fatica di più a entrare nel mondo del lavoro.
Il processo di inclusione è costruito in rete. Collaboriamo con numerose associazioni, cooperative sociali, enti accreditati del territorio. Quando si apre una posizione, chiediamo a queste realtà di segnalarci profili che ritengono pronti per iniziare un’esperienza lavorativa. A quel punto avviamo una fase di selezione e accompagnamento condivisa: ci confrontiamo con gli operatori che seguono la persona – che sia un educatore, un assistente sociale, un operatore del centro d’accoglienza o del CPS – per capire qual è il momento giusto per iniziare, quali competenze servono, quali supporti sono necessari, se possiamo offrirli noi o se serve attivare altre risorse. A volte emergono anche bisogni abitativi, e anche su quel fronte proviamo a collaborare, quando possibile, per trovare una soluzione.
Se l’inserimento avviene, si può partire con un tirocinio o direttamente con un contratto a tempo determinato. La prima fase è sempre più formativa, e poi, se il percorso procede bene, si arriva a una piena inclusione. La persona cresce, come crescono gli altri colleghi. Intorno a questo processo, lavoriamo molto anche sulla formazione del gruppo per aiutarli ad affrontare situazioni nuove e relazioni che possono richiedere sensibilità particolari. Inoltre, seguiamo tutto il percorso con incontri periodici di monitoraggio insieme agli operatori che già conoscono la persona: può essere l’educatore di una comunità, lo psichiatra del CPS, o l’operatore di un centro per rifugiati. È un lavoro condiviso, che non possiamo fare da soli.

Mario Flavio Benini. Abbiamo parlato di disabilità psichica, disabilità fisica, migranti. Ma concretamente, con quali tipologie di persone fragili lavorate oggi? Chi sono le persone per cui costruite percorsi di inserimento?

Lucia Borso. Lavoriamo con persone con disabilità, ma anche con fragilità psicologiche i sono poi rifugiati e richiedenti asilo, con i quali lavoriamo molto. Abbiamo avuto anche esperienze con persone in uscita dal circuito penale, e con giovani NEET, cioè ragazzi che non studiano né lavorano, a volte da anni. Sono spesso inoccupati o disoccupati di lungo corso, ai margini anche delle reti di sostegno.

Mario Flavio Benini. Avete mai ragionato su forme di governance partecipata all’interno del progetto? Esistono momenti di confronto condiviso tra lavoratori, soci, collaboratori? Ci sono spazi per prendere parola, avanzare proposte, partecipare alle decisioni?

Lucia Borso. Sì, è una dimensione a cui teniamo molto. Ogni tre mesi organizziamo un’assemblea plenaria, aperta a tutte e tutti, e a livello di ciascuna area – per esempio quella logistica – cerchiamo di fare riunioni settimanali o almeno ogni due settimane. Durante l’assemblea generale, oltre agli aggiornamenti, apriamo sempre uno spazio dedicato all’ascolto e al confronto: raccogliamo segnalazioni, discutiamo eventuali criticità, affrontiamo insieme i nodi aperti. Se ci sono esigenze individuali, si può sempre chiedere un colloquio, anche al di fuori del calendario previsto. È capitato anche di mediare conflitti o tensioni all’interno del gruppo, e ci siamo sempre resi disponibili per affrontarli insieme. A livello formale, So.De è una srl impresa sociale, quindi la governance non è strutturata come una cooperativa. Questo rende la partecipazione meno formalizzata e stiamo ragionando su possibili aperture future.

Mario Flavio Benini. E la fiducia? Come si costruisce una fiducia organizzativa in un progetto come il vostro, dove lavorano persone che magari hanno già vissuto delusioni, o esperienze negative sul lavoro?

Lucia Borso. È un processo lungo, e per niente scontato. Molte delle persone che abbiamo accolto arrivano da situazioni difficili: datori di lavoro che sono spariti, stipendi non pagati, promesse non mantenute, esperienze frustranti con le grandi piattaforme. All’inizio c’era diffidenza. Quello che ha funzionato, nel tempo, è stato il lavoro sul gruppo. Abbiamo organizzato momenti di team building, momenti assembleari, e abbiamo cercato di costruire uno spazio dove ci si potesse sentire liberi di parlare anche dei problemi. Penso che la cosa che abbia fatto davvero la differenza sia stata la nostra disponibilità a metterci in discussione. Non solo a ricevere critiche, ma a raccontare anche le nostre difficoltà. In una delle prime assemblee, alcuni corrieri ci hanno detto: “Raccontate sempre solo quello che funziona, ma anche noi vorremmo sapere cosa non funziona, dove avete sbagliato, quali sono le fatiche”. Da allora abbiamo cambiato approccio, e penso che quel cambio di passo abbia generato fiducia vera. Perché la fiducia, alla fine, nasce dalla trasparenza reciproca.

Mario Flavio Benini. Su cosa si basa il modello economico di So.De? Quali sono le principali fonti di ricavo? Immagino che si tratti di un ecosistema, che combina l’attività di delivery con la partecipazione a bandi, magari qualche campagna di crowdfunding, e delle partnership con soggetti privati. È così?

Lucia Borso. Sì, esattamente. Il nostro modello si basa su quello che viene chiamato funding mix: un sistema ibrido, dove le entrate arrivano da fonti diverse. Siamo un’impresa no profit, quindi non perseguiamo il profitto in sé, ma dobbiamo comunque garantire la sostenibilità economica della struttura. Una parte significativa dei ricavi proviene dall’attività classica di consegne. Ma c’è anche una parte importante legata alle partnership, alla comunicazione, a progetti condivisi con alcune imprese – per esempio attività di sensibilizzazione o iniziative territoriali. Accanto a queste, c’è tutto il comparto della progettazione sociale e del fundraising. 

Mario Flavio Benini. Come si gestisce, allora, l’equilibrio tra sostenibilità finanziaria e impatto sociale? Perché da quello che mi racconti, ogni scelta valoriale comporta anche dei costi maggiori.

Lucia Borso. È un esercizio di equilibrismo continuo. Se decidi di investire davvero sulle persone, e non solo di rispettare le normative minime, ti carichi un impegno economico maggiore. Noi non ci limitiamo alle formazioni obbligatorie: ne organizziamo di ulteriori, su competenze trasversali, relazionali, tecniche. Le facciamo durante l’orario di lavoro, come è giusto che sia, ma per l’organizzazione sono ore in più, risorse in più. Lo stesso vale per i percorsi di inclusione lavorativa: accogliere persone fragili, accompagnarle, seguirle nel tempo richiede molto più sforzo – umano, gestionale, economico – rispetto ad assumere un corriere esperto, già formato, veloce e autonomo. Ma è esattamente questa la nostra scelta: mettiamo al centro l’inclusione e la dignità del lavoro. Questo, inevitabilmente, comporta dei costi. E quindi serve grande attenzione nel costruire il funding mix, nella diversificazione delle entrate, nella ricerca di sostegni e bandi. 

Mario Flavio Benini. Avete notato, nel tempo, dei cambiamenti nella percezione del valore del vostro lavoro? Intendo sia da parte delle aziende – il B2B – che da parte delle persone, dei cittadini. So.De è un progetto che sta sul territorio, che lavora con le persone, che costruisce hub, che prova a generare connessioni urbane. Ma la percezione di tutto questo è davvero cambiata? Oppure resta ancora legata all’immaginario dominante sul delivery, quello del povero immigrato sfruttato che pedala sotto la pioggia?

Lucia Borso. Fin dall’inizio abbiamo percepito un grande entusiasmo nei confronti del progetto, sia da parte delle persone che da parte delle aziende. Molti hanno creduto in noi sin da subito. Anche realtà molto strutturate e importanti hanno scelto consapevolmente di lavorare con So.De. Penso, ad esempio, a Ikea, Coop Lombardia, Eataly. Sono aziende che hanno preso posizione, scegliendo un delivery realmente green e realmente etico. È stata una scelta valoriale, non di comodo. Quindi sì, questa fiducia e questo appoggio li abbiamo avuti fin da subito, e nel tempo si sono consolidati. 

Mario Flavio Benini. Questa ambivalenza mi colpisce molto. Perché in realtà la vostra è proprio una di quelle attività che contribuisce a fare della città un “laboratorio vivente”. Siete dei sensori immersi nel tessuto urbano, lavorate in relazione costante con tutte le reti che attraversano la città: reti di movimento, di prossimità, digitali, lavorative, sociali. In una città sempre più segnata dalla rottura dei legami – che è uno degli aspetti centrali anche nella marginalità estrema – voi fate l’opposto: ricucite, ricreate connessioni. E questo lavoro relazionale è sempre più raro. Proprio per questo penso che sarebbe importante poter replicare il vostro modello anche altrove. Perché il valore che producete, dentro la città, potrebbe generare impatti positivi anche in altri territori. Ma per farlo, servono strumenti, alleanze, processi di capacitazione. Che ne pensi?

Lucia Borso. Io credo che sì, il nostro sia un modello replicabile. Ma, come dici giustamente, va declinato secondo le caratteristiche specifiche del territorio. E va replicato con cura. In questi anni abbiamo ricevuto molte richieste in questo senso: da parte di amministrazioni comunali, da parte di aziende che ci chiedono di aprire sedi in altre città dove hanno negozi o attività, ma anche da parte di corrieri o realtà del terzo settore che ci scrivono per dire “se aprite qui, lo gestisco io”. Abbiamo avuto interlocuzioni sia con grandi città che con realtà medie e piccole. Il punto è che mettere in piedi un progetto come So.De richiede una grande forza. Non basta un’idea, ci vogliono persone disposte davvero a sporcarsi le mani. Noi, fin dall’inizio, non abbiamo mai pensato di aprire direttamente in altre città. Non vogliamo diventare il più grande player nazionale. Quello che ci interessa è capacitare altre realtà, accompagnarle nella costruzione di esperienze simili alla nostra, usando tutto quello che abbiamo imparato.

Per questo stiamo progettando un “So.De Kit”: un insieme di strumenti, risorse e competenze che possano essere messi a disposizione di chi vuole partire altrove. Dentro questo kit c’è tutto: la piattaforma tecnologica che abbiamo sviluppato apposta per la ciclologistica, il nostro modello economico, le nostre pratiche di inclusione, gli strumenti di comunicazione, il branding, l’aspetto giuslavoristico, la parte normativa e legale. Tutto ciò che avremmo voluto avere noi, ma che non esisteva. Perché quando sei tu a innovare, sei anche quello che si trova senza riferimenti. E allora vogliamo evitare che chi parte adesso debba rifare tutta la fatica che abbiamo fatto noi. Però è chiaro che serve, in ogni territorio, qualcuno che ci creda. Che sia un’associazione, una cooperativa, un’impresa sociale, o anche una singola persona: ma ci vuole qualcuno che si sveglia la mattina pensando a quel progetto. Solo così si può costruire qualcosa che tenga nel tempo.

Mario Flavio Benini. Non so se conosci il progetto delle Portinerie di Comunità, nato a Torino ma ispirato anche a esperienze internazionali, in particolare a quella parigina di Lulu dans ma rue. Si tratta di un’iniziativa centrata sui servizi di prossimità, pensati per rispondere ai bisogni concreti delle persone che vivono in un determinato territorio. All’interno del progetto è stato sviluppato anche un software basato su intelligenza artificiale, in grado di fare una mappatura dei bisogni del quartiere, così da offrire servizi realmente ancorati al contesto e alla comunità locale.
È un progetto interessante perché ha saputo mettere insieme competenze diverse – sociologi, linguisti, urbanisti – e ha costruito un vero e proprio modello. Il Politecnico di Milano lo ha studiato e sistematizzato, fino a farne un’esperienza replicabile, una sorta di social franchising. Non con l’idea di monetizzare il format, ma con l’obiettivo di permettere a quell’esperienza – che ha un nome e un’identità forte, “portineria di comunità” – di essere adottata e adattata in altri contesti, per generare impatto locale.
Perché è chiaro: un conto è stare a Porta Palazzo, a Torino, un altro è trovarsi a Santa Giulia, a Milano. Cambiano le dinamiche, cambiano i bisogni, e ogni intervento deve essere costruito su misura.
Ti segnalo questa esperienza perché credo che, come nel vostro caso, il lavoro sulla modellizzazione sia un passaggio cruciale. Quando si costruisce qualcosa con così tanta cura, energia e visione – come state facendo voi con So.De – diventa fondamentale pensare anche a come quell’esperienza possa essere messa a disposizione di altri territori, generando beneficio altrove e, al tempo stesso, rafforzando il progetto originario.

Caratteristiche del servizio e innovazione.

La qualità e l’originalità di un’esperienza di social delivery si misurano non solo nella capacità di offrire servizi utili, ma nella loro forza trasformativa: nella possibilità di generare nuove forme di relazione, cittadinanza e cura territoriale. La letteratura contemporanea distingue tra innovazione tecnologica – relativa a strumenti digitali, app, sistemi di tracciamento – e innovazione sociale, che riguarda la costruzione di pratiche collettive capaci di generare senso, inclusione e solidarietà.
Nel caso di So.De e La Raggiante, queste due dimensioni si intrecciano: la consegna in cargo bike, la formazione in ciclomeccanica, il supporto alle famiglie fragili o la manutenzione condivisa diventano azioni quotidiane di prossimità, ma anche gesti politici e pedagogici che riconfigurano il modo in cui la logistica urbana dialoga con la coesione sociale e la rigenerazione dei quartieri.
Questa prospettiva si collega direttamente al concetto di welfare generativo, secondo cui il valore sociale non nasce solo dall’erogazione di servizi, ma dalla capacità di attivare risorse, competenze e relazioni all’interno della comunità. Giovanni Moro, con la sua idea di amministrazione condivisa, sottolinea che la vera innovazione sociale consiste nel co-progettare soluzioni insieme ai cittadini, superando la distinzione tra chi eroga e chi riceve il servizio. In questo senso, la ciclofficina sociale e il delivery solidale diventano spazi di coprogettazione e responsabilità diffusa, dove la cura delle relazioni è elemento costitutivo del servizio stesso.
Ezio Manzini, in “Design When Everybody Designs” (2015), definisce l’innovazione sociale come “co-progettazione diffusa” nei territori: processi in cui comunità di attori locali rispondono insieme a problemi condivisi, generando valore culturale oltre che funzionale. Charles Leadbeater, nel suo studio sulle città socialmente imprenditoriali, mostra come l’innovazione urbana più efficace sia spesso invisibile, radicata nei legami, nelle pratiche di auto-organizzazione e nella fiducia che si costruisce nel tempo.
Un ulteriore aspetto fondamentale riguarda l’immaginazione istituzionale: la capacità di ripensare le forme e le finalità delle istituzioni a partire dalla riformulazione delle relazioni e dei legami nella città, non semplicemente dalla tecnologia. Autori come Roberto Esposito e Adriana Cavarero sottolineano che la trasformazione sociale autentica nasce dalla cura dei legami, dalla capacità di immaginare nuove istituzioni della prossimità e della responsabilità reciproca. In questa ottica, So.De e La Raggiante si configurano come esperimenti di “istituzioni relazionali”, dove la logistica diventa infrastruttura di welfare generativo e cittadinanza attiva.
La ciclologistica sociale, come mostrano le ricerche di Martens (2016) e Schrader et al. (2023), è oggi uno dei campi più fertili dell’innovazione urbana, poiché consente diintegrare giustizia ambientale, accessibilità, micro-lavoro di qualità e prossimità territoriale. In Italia, esperienze come le consegne solidali, le ciclofficine aperte al quartiere o i progetti di recupero alimentare mostrano come anche la logistica possa diventare uno spazio di welfare generativo e di cura delle relazioni.
In questo quadro, So.De e La Raggiante si propongono come laboratori dinamici di sperimentazione: non solo perché introducono nuovi servizi, ma perché sanno ascoltare il territorio, adattare le pratiche, costruire fiducia e generare forme di cittadinanza attiva che vanno oltre l’economia funzionale della consegna, contribuendo alla costruzione di una città più giusta, coesa e generativa.

Mario Flavio Benini. Parliamo di innovazione tecnologica, un tema che mi sembra centrale anche nel vostro progetto. Mi dicevi che, sin dall’inizio, avete dovuto mettere in piedi una piattaforma dedicata per gestire il delivery. Ma, più in generale, che tipo di lavoro tecnologico c’è dietro So.De? Che ruolo ha avuto – e ha tuttora – lo sviluppo digitale nella vostra organizzazione?

Lucia Borso. In realtà non penso che So.De abbia portato innovazioni tecnologiche in senso stretto. Piuttosto, ci siamo trovati di fronte a un vuoto. Abbiamo cercato strumenti digitali che potessero rispondere alle nostre esigenze specifiche – quelle di una realtà di ciclologistica sociale – ma ci siamo presto resi conto che non esisteva qualcosa di adatto per noi. Esistono tanti software per la logistica classica, ma pochissimi che lavorino davvero sulla ciclologistica.
Uno dei progetti più interessanti che abbiamo incontrato è CoopCycle, una cooperativa francese che ha sviluppato una propria piattaforma open source. Però anche quella, per quanto avanzata, era piuttosto vincolante rispetto alle nostre esigenze operative e al nostro modello ibrido. Così abbiamo deciso di sviluppare una piattaforma tutta nostra, che fosse davvero su misura.
Stiamo lavorando con uno studio milanese, Propp, e insieme a loro abbiamo progettato OVO: un sistema gestionale pensato proprio per le nostre attività. È una piattaforma complessa, perché deve mettere in relazione in tempo reale i turni dei corrieri, i giri di consegna, l’ottimizzazione delle rotte, gli ordini dei clienti e la gestione interna. Non è stato semplice costruirla, ma ci sembrava indispensabile.
OVO entrerà a far parte del So.De Kit, quel pacchetto di strumenti – digitali, giuslavoristici, organizzativi – che immaginiamo di mettere a disposizione di chi, in altri territori, vorrà provare a costruire un progetto simile al nostro.

Aree di miglioramento e ispirazioni dal territorio.

Ogni esperienza di social delivery, per quanto avanzata e radicata, si confronta con limiti, tensioni e margini di miglioramento che rappresentano il vero motore dell’innovazione sociale. Nel dibattito contemporaneo, il tema delle “aree di miglioramento” non è visto come una semplice lista di criticità, ma come uno spazio generativo, dove la capacità di apprendere dagli errori, di ascoltare il territorio e di contaminarsi con altre pratiche diventa fattore chiave di resilienza e crescita.
Come ricorda Donald Schön (1983), l’apprendimento profondo nelle organizzazioni nasce dalla capacità di riflettere “in azione” e “sull’azione”, trasformando l’errore in uno spazio riflessivo che stimola ripensamenti e miglioramenti non lineari. In questa prospettiva, la “zona prossimale di sviluppo”, teorizzata da Lev Vygotskij, indica proprio quello spazio in cui il potenziale di apprendimento si realizza grazie al confronto con la complessità e alla capacità di accogliere l’errore come momento generativo e non come semplice mancanza.
La letteratura sul welfare generativo e sulle pratiche di co-progettazione territoriale (Moro, 2013; Manzini, 2015) suggerisce che le organizzazioni più efficaci sono quelle che sanno mettersi in discussione, aprirsi alle reti locali e internazionali, e tradurre le sfide in occasioni di apprendimento situato. In questo senso, le aree di miglioramento non sono solo “debolezze” da correggere, ma opportunità di dialogo e di evoluzione, spesso ispirate da ciò che accade nel proprio ecosistema urbano e nelle reti collaborative più ampie.
Nelle pratiche riflessive di prossimità, come sottolinea Joan Tronto (2013), la vulnerabilità non è un limite da superare ma una condizione da accogliere e trasformare: è dalla cura dei legami imperfetti che nasce la capacità di miglioramento. Questo approccio, tipico delle pratiche di caring democracy, invita a considerare la responsabilità e la reciprocità come elementi centrali nei processi di crescita collettiva.
Un ulteriore elemento da valorizzare è il “paradosso dell’innovazione sociale”: spesso sono le realtà più fragili o marginali a generare le pratiche più innovative. Marianna Mazzucato sottolinea come l’innovazione sociale emerga spesso ai margini dei sistemi consolidati, dove la pressione delle difficoltà stimola soluzioni creative e adattive. Ezio Manzini parla di “innovazione generativa” proprio per indicare quei processi che, partendo dalla vulnerabilità, riescono a produrre valore condiviso e cambiamento sistemico.
Esperienze locali di mutualismo, pratiche di inclusione sperimentate da altre ciclofficine, innovazioni normative o tecnologiche introdotte da realtà simili possono offrire spunti preziosi per rafforzare il modello So.De. La capacità di osservare, ascoltare e adattare strategie e strumenti – senza rinunciare alla propria identità – è ciò che trasforma una buona pratica in un modello generativo e replicabile.

Mario Flavio Benini. In questi anni avete sviluppato partnership o collaborazioni che hanno dato vita a sperimentazioni interessanti? Ci sono esperienze condivise, magari con istituzioni, imprese o realtà del Terzo Settore, che ritieni particolarmente significative?

Lucia Borso. Assolutamente sì, e su più livelli. Abbiamo attivato numerose collaborazioni con soggetti del Terzo Settore, in particolare su progetti di recupero del cibo invenduto, che oggi fanno parte integrante della nostra attività quotidiana. I nostri corrieri ogni giorno ritirano alimenti da supermercati, mercati, e – grazie a un recente progetto europeo – anche dalle mense scolastiche. È un circuito virtuoso che unisce inclusione lavorativa, sostenibilità ambientale e solidarietà alimentare.
Collaboriamo anche con soggetti istituzionali, come il Comune di Milano, e siamo parte attiva di reti europee e locali che ci coinvolgono in progetti molto articolati. Ma abbiamo costruito anche partnership con aziende: ad esempio Bosch eBike Systems Italia, che ci ha donato alcune e-bike e ci ha offerto una formazione tecnica, e con cui abbiamo poi co-progettato un corso di ciclomeccanica all’interno delle carceri. Oppure Rossignoli Biciclette, che ci ha sostenuto fin dall’inizio donandoci le prime biciclette e ci supporta ancora oggi con la manutenzione.
Il nostro approccio è sempre stato orientato alla collaborazione, mai alla competizione. Lavoriamo con una visione direte multilivello, che unisce l’istituzione pubblica, l’impresa privata e il non profit. Perché crediamo che solo mettendo insieme competenze, risorse e visioni diverse si possa davvero generare impatto.

Mario Flavio Benini. Dal punto di vista legislativo, ci sono ambiti in cui avete incontrato difficoltà significative? Quali aspetti, secondo voi, sarebbero migliorabili per favorire realtà come la vostra?

Lucia Borso. Sicuramente sì. C’è un vuoto normativo importante su tutto ciò che riguarda la ciclologistica. Il legislatore, a nostro avviso, potrebbe fare molto di più sia in termini di promozione della mobilità ciclabile, sia nella regolamentazione specifica del settore. La ciclologistica, oggi, è ancora considerata un ibrido non riconosciuto pienamente: non rientra nella logistica pesante, ma non ha nemmeno uno statuto normativo proprio. Questo crea difficoltà pratiche e interpretative che rallentano l’attività quotidiana, e rendono più complesso lo sviluppo di imprese sociali come la nostra, che operano in settori innovativi ma non ancora codificati.

So.De e La Raggiante nel contesto metropolitano e di quartiere.

Il radicamento territoriale è uno degli elementi più distintivi e innovativi del modello So.De e della ciclofficina sociale La Raggiante. Nel dibattito sulle pratiche di innovazione sociale e rigenerazione urbana, il concetto di “presidio di prossimità” è centrale: le organizzazioni che operano a livello di quartiere non solo erogano servizi, ma diventano nodi di relazione, ascolto e attivazione comunitaria. Come sottolinea Giovanni Moro (2013), la cittadinanza attiva si costruisce attraverso forme di amministrazione condivisa e co-progettazione, dove le comunità sono protagoniste del cambiamento e non semplici beneficiarie.
So.De e La Raggiante incarnano questa visione, agendo come catalizzatori di coesione sociale e innovazione civica nel quartiere Dergano e nella città di Milano. La ciclofficina, aperta e accessibile, è un luogo di incontro intergenerazionale, formazione tecnica e supporto a persone fragili, ma anche uno spazio di socialità, eventi culturali e pratiche di mutualismo urbano. Il delivery sociale, invece, si traduce in una presenza costante sul territorio, capace di intercettare bisogni sommersi, costruire reti di solidarietà e promuovere una logistica urbana a misura di comunità.
Questa dimensione territoriale si inserisce nel filone del “welfare di comunità” e della “città generativa” (Manzini, 2015; Leadbeater, 1997), dove la cura degli spazi, la partecipazione attiva e la costruzione di legami sociali sono considerati fattori determinanti per la salute e la resilienza urbana. In questo senso, So.De e La Raggiante non sono solo operatori logistici, ma veri e propri agenti di trasformazione sociale, capaci di influenzare positivamente la qualità della vita nel quartiere e di stimolare processi di rigenerazione dal basso.

Mario Flavio Benini. Abbiamo parlato molto del lavoro e della logistica, ma mi interessa tornare anche alla dimensione territoriale. In che modo vi inserite nel contesto del quartiere? Che tipo di relazioni e progetti avete sviluppato con chi abita e vive a Dergano e negli altri territori della città?

Lucia Borso. Noi siamo nati proprio con l’idea di essere un delivery di quartiere, radicato a Dergano. Poi la scala operativa si è rapidamente estesa a tutta la città di Milano, ma il legame con il territorio resta un elemento fondativo del nostro progetto. Operiamo stabilmente in Municipio 9, ma siamo presenti anche in altri quartieri, grazie a una serie di iniziative che vanno oltre la logistica. Il nostro community hub ospita corsi e laboratori – di ciclomeccanica, disegno, fotografia – ma anche servizi leggeri come il book crossing o la ciclofficina itinerante, in cui uno dei nostri corrieri gira con la cargo attrezzata e ripara o personalizza biciclette per bambini e ragazzi nei luoghi strategici del quartiere.
Abbiamo attivato anche iniziative sociali come la distribuzione gratuita di libri nei quartieri periferici, dove i nostri corrieri – grazie a un progetto dedicato – consegnano volumi donati dai cittadini. Sono piccole azioni che creano interdipendenza tra il nostro lavoro e il tessuto sociale del quartiere. Offriamo servizi, ma riceviamo anche molto in termini di fiducia, partecipazione, collaborazione. E questo scambio costante, questa osmosi tra So.De e la città, è forse uno degli aspetti più preziosi del nostro modello.

Mario Flavio Benini. Come lavorate nella costruzione di un rapporto con le persone residenti e con le realtà del territorio? Quali sono le attività che avete messo in campo per stimolare relazioni, creare fiducia, generare impatto? Ci sono iniziative o progetti che, nel tempo, si sono rivelati particolarmente significativi per la comunità locale?

Lucia Borso. Il nostro legame con la zona sud di Dergano affonda le radici in molti anni di lavoro. Una delle variabili fondamentali è proprio il tempo. La fiducia non si costruisce con una singola attività o in pochi mesi: servono processi lunghi, costanza e presenza. Quando abbiamo aperto la ciclofficina e il community hub, all’inizio non veniva nessuno, nonostante lo spazio fosse aperto. Poi, lentamente, le persone hanno iniziato a entrare, a sentirsi accolte, a tornare e a portare amici. È stato un processo graduale, fatto di tessitura quotidiana. Se oggi riusciamo a essere riconosciuti nel quartiere è anche perché molti di noi, prima ancora che con So.De, erano già attivi in esperienze come Rob de Matt, Magma, Meraki Desideri Culturali. Questa presenza stratificata e coerente ha creato un capitale relazionale su cui oggi si fondano molte delle nostre attività.

Mario Flavio Benini. Entrando più nel dettaglio: quali sono le attività che alimentano questo rapporto continuo con il territorio?

Lucia Borso. Organizziamo laboratori, corsi, eventi tematici legati alla bike economy, alla mobilità dolce, alla cicloeducazione. Ci sono poi attività stabili, più quotidiane, come il book crossing, la ciclofficina gratuita, il portierato sociale, le uscite della cargo-bike itinerante che gira per il quartiere per aiutare bambini e ragazzi con le loro biciclette. Abbiamo realizzato anche progetti come la distribuzione di libri nelle periferie grazie alla collaborazione con cittadine e cittadini che hanno donato volumi, poi consegnati dai nostri corrieri con le cargo. Sono tutte iniziative che creano connessioni vere tra noi, il quartiere e la città.

Mario Flavio Benini. Non siete anche uno spazio caffè, giusto? Non avete un vero e proprio community café all’interno del vostro hub?

Lucia Borso. No, e questa è una scelta. Il nostro hub non ospita direttamente un caffè, ma siamo nello stesso complesso di Rob de Matt, che è un bistrot inclusivo, uno spazio di ristorazione e socialità con cui collaboriamo strettamente. Quindi, il servizio in sé lo fanno loro, ma in un’ottica di complementarità e rete.

Reti, alleanze e scambio di pratiche.

La costruzione di reti e alleanze è uno degli aspetti più strategici e innovativi per la crescita e la resilienza delle esperienze di social delivery come So.De e La Raggiante. Nella letteratura sulle economie collaborative e sui commons urbani (Bauwens & Kostakis, 2015; Manzini, 2015), la cooperazione tra soggetti diversi – imprese sociali, associazioni, enti pubblici, gruppi informali – è vista non solo come una risorsa, ma come una vera e propria infrastruttura generativa capace di moltiplicare impatto, apprendimento e capacità di adattamento.
Il concetto di “peer learning” e di “comunità di pratica” (Lave & Wenger, 1991) suggerisce che la condivisione di saperi, strumenti e strategie tra organizzazioni simili sia una delle principali fonti di innovazione sociale. Le reti di ciclofficine, i consorzi di imprese sociali, le piattaforme di advocacy e i tavoli di co-progettazione territoriale rappresentano spazi in cui le pratiche possono essere scambiate, adattate e arricchite, generando nuove soluzioni a problemi comuni.
Nel caso di So.De e La Raggiante, la partecipazione a reti locali, nazionali e internazionali ha permesso di rafforzare la capacità di advocacy, accedere a nuove opportunità di finanziamento, sperimentare modelli organizzativi innovativi e promuovere una cultura della ciclologistica sociale. La collaborazione con altre realtà – dal terzo settore alle amministrazioni pubbliche, dalle imprese etiche alle università – è stata fondamentale per sostenere la crescita del progetto, superare momenti di crisi e ampliare l’impatto sociale sul territorio.
Questa logica di “scambio di pratiche” si inserisce nella visione di un ecosistema collaborativo, dove il valore non si crea per accumulazione individuale ma per circolazione e contaminazione reciproca. Come sottolinea Michel Bauwens (2019), la forza delle reti peer-to-peer sta nella capacità di generare commons, ovvero risorse condivise che alimentano l’innovazione e la resilienza collettiva. In questo senso, il futuro del social delivery dipenderà sempre più dalla capacità di costruire alleanze solide, di partecipare a reti di apprendimento e di promuovere una cultura della cooperazione aperta.

Mario Flavio Benini. Guardando al futuro, su quali aree pensate di svilupparvi maggiormente? Quali sono i progetti che desiderate far crescere o attivare?

Lucia Borso. Sicuramente vogliamo consolidare e potenziare tutto ciò che stiamo già facendo, ma anche aprire nuove strade. Uno degli obiettivi è coinvolgere sempre più aziende virtuose, piccole realtà di prossimità ma anche grandi imprese che possano garantirci una continuità di lavoro: è solo così che possiamo attivare assunzioni stabili. Poi vorremmo ampliare i servizi al cittadino, ad esempio continuare e rafforzare le collaborazioni con il Comune sul recupero del cibo, o sviluppare un progetto con le biblioteche comunali per la consegna a domicilio dei libri in prestito. Crediamo molto nella figura del corriere di prossimità, come figura relazionale, educativa, connessa al territorio.Un’altra area che ci sta particolarmente a cuore è quella del protagonismo giovanile: vogliamo comprendere meglio cosa desiderano le nuove generazioni, come coinvolgerle, come accompagnarle. Infine, come ti dicevo prima, il nostro sogno è quello di scalare in altre città, non attraverso un’espansione diretta, ma con un modello collaborativo, fondato sul trasferimento di competenze e strumenti. In questo senso, il So.De Kit sarà un tassello fondamentale.

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