Fotografie: Mario Flavio Benini.
Questo post si inserisce in un percorso di indagine sui modelli inclusivi di lavoro e sul loro impatto sociale. Dopo aver raccontato la storia della Ciclofficina Sociale di Cormano, proseguiamo l’esplorazione di spazi in cui il lavoro si fa strumento di emancipazione, cura e costruzione di comunità.
Il blog continuerà nei prossimi mesi a documentare esperienze virtuose attraverso interviste, narrazioni e analisi di pratiche capaci di generare valore sociale, economico e relazionale. Lo faremo all’interno della sezione Commoning, uno spazio in cui raccogliamo storie, visioni e prospettive da chi ogni giorno costruisce – spesso in silenzio – una nuova forma di economia fondata sulla reciprocità, sulla partecipazione e sulla responsabilità condivisa.
La forza del commoning sta proprio in questo: nella capacità di costruire reti tra pubblico e privato, tra imprese e istituzioni, tra famiglie e territori. È una visione in cui la comunità si fa impresa e l’impresa si fa comunità, generando impatto sociale e valore condiviso.
È in questo orizzonte che si colloca K-Alma, falegnameria e officina sociale attiva dal 2017 nel quartiere Testaccio di Roma. K-Alma è molto più di un laboratorio artigianale: è uno spazio di accoglienza e formazione in cui migranti, persone senza dimora, disoccupati e cittadini in situazioni di fragilità possono apprendere un mestiere, partecipare a progetti collettivi, contribuire alla realizzazione di oggetti e arredi. Ma soprattutto, possono ritrovare un posto nel mondo.
L’associazione accoglie migranti, persone senza dimora, disoccupati e individui che attraversano situazioni di marginalità sociale, offrendo loro la possibilità di apprendere le tecniche della falegnameria e della lavorazione del legno. Ma non si tratta solo di formazione professionale: il laboratorio diventa uno spazio di relazione, ascolto e condivisione, in cui il lavoro manuale si intreccia con percorsi di crescita personale.
A differenza di altre realtà simili, K-Alma non è una cooperativa sociale ma un’associazione basata sulla partecipazione volontaria. Si sostiene grazie a un modello economico misto, che combina crowdfunding, bandi pubblici, donazioni, lavori su commissione e vendita di prodotti artigianali. I suoi progetti si ispirano tanto alle tradizioni dell’artigianato italiano, quanto a modelli educativi innovativi, come quelli delle scuole Montessori e Steiner. Il design diventa così un ponte tra cultura, sostenibilità e inclusione sociale.
Il lavoro di K-Alma non si ferma alla falegnameria. L’associazione promuove workshop, eventi, mostre e collaborazioni con studi di design, architettura e altre realtà del territorio, creando una rete attiva di scambio e supporto. Nel tempo, ha sviluppato relazioni con istituzioni, enti privati e pubblici, coinvolgendo la comunità locale in percorsi di rigenerazione sociale e urbana.
A distanza di otto anni dalla sua nascita, K-Alma continua a crescere e a interrogarsi sul proprio ruolo. Quali sfide ha affrontato e quali prospettive si aprono per il futuro? Come si conciliano artigianato, inclusione sociale e sostenibilità economica? Ne parliamo con Gabriella Guido, Presidente di K-Alma, che ci guiderà alla scoperta di questa realtà unica, raccontandoci la sua evoluzione, i progetti in corso e la visione che la anima.

Le radici di K-Alma.
Mario Flavio Benini. K-Alma è un’associazione, una falegnameria e un’officina sociale. Perché avete scelto di rimanere un’associazione anziché costituirvi come cooperativa sociale?
Gabriella Guido. Abbiamo deciso di rimanere un’associazione, un ente del terzo settore, per non snaturare l’anima e il DNA con cui siamo nati. Nessuno di noi percepisce uno stipendio o ha un contratto: diventare una cooperativa sociale avrebbe significato modificare profondamente questo modello di gestione delle risorse umane.
Il nostro progetto nasce dalla volontà di dedicare parte del nostro tempo a un’attività sociale. Io, in qualità di coordinatrice, insieme a un gruppo di falegnami – inizialmente uno, oggi quattro – e ad alcuni assistenti senior, abbiamo scelto di partecipare volontariamente, offrendo alcune ore settimanali senza retribuzione. L’obiettivo è essere cittadini attivi, mettendoci a disposizione di persone in situazioni di fragilità, offrendo loro uno spazio, relazioni e un ambiente che possa aiutarli a superare momenti di crisi o difficoltà.
Se fossimo diventati una cooperativa sociale, avremmo dovuto strutturarci diversamente, garantendo stipendi e gestendo l’organizzazione in un’ottica più vicina a un modello economico. Finché riusciremo a sostenerci autonomamente, vogliamo portare avanti questo progetto rimanendo fedeli al nostro spirito originario. Naturalmente cerchiamo anche qualche finanziamento, ma l’idea di fondo è quella di essere un servizio per la comunità, senza retribuzioni fisse.
Se a fine anno riusciamo ad avere un avanzo di bilancio, redistribuiamo parte delle risorse a chi ha avuto un ruolo fondamentale nel progetto. Ad esempio, i falegnami sono presenti tre giorni a settimana, e alcuni di loro vivono fuori Roma, quindi le spese di trasporto sono un costo fisso che non possiamo garantire durante l’anno. Tuttavia, se le risorse lo permettono, riconosciamo loro almeno un rimborso spese, anche se non si tratta in alcun modo di uno stipendio vero e proprio.
MFB. Qual è il significato della definizione “falegnameria e officina sociale”?
GG. Il termine falegnameria descrive il fatto che il nostro spazio è una vera e propria bottega artigiana dedicata alla lavorazione del legno. Ho voluto aggiungere officina perché, per me, non si riferisce solo ad altre forme di artigianato, ma rappresenta anche un luogo di trasformazione personale.
In un’officina si costruisce, si creano cose nuove, e qui accade lo stesso, ma non solo con il legno: è uno spazio in cui anche le persone si trasformano. Chi entra in questo luogo ne esce in qualche modo cambiato, non solo gli utenti, ma tutti noi che ne facciamo parte.
L’aggettivo sociale sottolinea la nostra vocazione all’inclusione e alla formazione gratuita. Fin dalla nascita del progetto, abbiamo sempre accolto chiunque avesse bisogno, offrendo percorsi di apprendimento informale senza alcun costo per gli utenti. Nessuno ha mai dovuto pagare per partecipare alle attività, ai corsi o per avere accesso allo spazio.
MFB. Vi siete ispirati ad altri modelli esistenti e se sì quali?
GG. In realtà, il progetto è nato in modo molto spontaneo. Io venivo dall’attivismo per i diritti umani e mi occupavo principalmente di migrazione, lavorando sia nell’ambito politico sia in attività di sensibilizzazione sulle condizioni dei migranti, sui loro diritti e sulle problematiche legate all’accoglienza. A un certo punto, però, mi sono resa conto che queste battaglie facevano fatica a ottenere risultati concreti. Così, ho pensato che forse fosse meglio fare qualcosa di più tangibile.
Durante le mie numerose visite a Lampedusa, ho conosciuto alcuni migranti che poi ho continuato a seguire insieme a un gruppo di avvocati. Alcuni di loro si erano trasferiti in Germania, a Berlino, e lì avevano trovato accoglienza in un progetto chiamato “Cucula,” un’iniziativa legata alla falegnameria e all’inclusione sociale. Decisi di contattarli e di andare a trovarli. L’incontro avvenne grazie a un’architetta Rosalba Ferba interessata a progetti sociali, e con lei ci recammo a Berlino per proporre una possibile collaborazione.
Devo dire che fu un’esperienza un po’ deludente. Nonostante avessero spazi e mezzi straordinari, fin da subito percepii una chiusura. Rimasi lì quasi una settimana per studiare il loro modello, ma non fu facile interagire con i migranti coinvolti nel progetto, che erano relegati in uno spazio separato rispetto a chi coordinava le attività. Quando proposi una rete di collaborazione che potesse includere non solo la falegnameria, ma anche avvocati e sostenitori, ricevetti un netto rifiuto: “No, ci viene chiesto spesso, ma preferiamo restare indipendenti. In bocca al lupo per il vostro progetto, magari ci rivedremo tra qualche anno”.
Così, tornai a Roma con un po’ di amarezza, chiedendomi se valesse la pena insistere o meno. Alla fine, decisi di proseguire per la mia strada. Ironia della sorte, Cucula chiuse dopo qualche anno. Loro si ispiravano a Enzo Mari, un grande architetto e designer italiano esperto di design sociale, quindi mi era sembrata naturale una collaborazione, ma evidentemente non era destino.
A quel punto, iniziai a cercare spazi a Roma. I primi che trovai in affitto erano inaccessibili per via dei costi. Poi arrivai in questa zona, dove conoscevo già la “Città dell’Altra Economia“. Qui mi presentarono Lalla la referente del villaggio che lesse il progetto e, dopo qualche settimana, mi disse: “Ecco le chiavi. Per un anno puoi restare qui gratuitamente. Se il progetto decolla, discuteremo un affitto sociale. Se invece dovesse chiudere, almeno ci avremo provato.”
Non potevo dire di no. Così, insieme a Edoardo Pedio, iniziammo con un piccolo laboratorio di falegnameria in due stanze minuscole, non più di 10 metri quadri. Poi la voce iniziò a spargersi in tutta Roma, e sempre più ragazzi iniziarono a unirsi al progetto. Contemporaneamente, arrivarono anche le prime commesse.
Nel giro di quasi otto anni – perché abbiamo iniziato nel 2017 – abbiamo cambiato sede tre volte, fino a conquistare lo spazio più grande di tutto il villaggio. Quello in cui siamo oggi, è un luogo bellissimo, anche se ormai siamo stretti anche qui!
Ma la cosa più incredibile è che siamo partiti davvero da zero. Io stessa, all’inizio, pensavo che dopo un anno avremmo chiuso. Invece, senza finanziamenti iniziali, siamo riusciti a crescere grazie al sostegno della città, che ci ha accolti e ci ha dato l’opportunità di andare avanti.



Le fondamenta del progetto: risorse e organizzazione.
MFB. Come siete riusciti a costruire una base finanziaria iniziale? Avviare una falegnameria richiede comunque attrezzature, impianti e materiali.
GG. Inizialmente, ho investito personalmente una somma di denaro che avevo ricevuto in seguito alla risoluzione di una causa legale. Non avrei potuto chiedere a nessun altro, quindi ho deciso di metterla a disposizione per avviare il progetto.
Dopo il primo anno, abbiamo lanciato un piccolo crowdfunding e, nel frattempo, avevamo già iniziato a ricevere alcune commissioni per dei lavori. I fondi raccolti sono stati destinati principalmente all’acquisto di materiali, visto che non avevamo spese di affitto. Abbiamo anche investito un po’ nella comunicazione per far conoscere il progetto.
Devo dire che, nel giro di un anno, sono riuscita a recuperare interamente l’investimento iniziale. Inoltre, il nostro modello di gestione ha sempre avuto costi fissi piuttosto contenuti, il che ci ha permesso di proseguire senza gravare troppo sulle risorse economiche disponibili.
MFB. Come viene organizzato il lavoro all’interno dell’associazione?
GG. Io mi occupo principalmente del coordinamento generale, che comprende la gestione amministrativa, la ricerca di finanziamenti e i rapporti con alcune realtà istituzionali e con la rete di associazioni con cui collaboriamo. Queste associazioni spesso ci segnalano migranti con particolari fragilità, che poi seguiamo nel nostro percorso di formazione e inclusione. Inoltre, mi occupo della comunicazione e di alcuni progetti speciali.
Attualmente, abbiamo quattro falegnami. Due di loro, Giulio ed Andrea,sono in pensione, mentre Edoardo, che lavora ancora, dedica parte del suo tempo al progetto, venendo qui regolarmente il giovedì pomeriggio e in altre occasioni, soprattutto ora che la richiesta di attività è in crescita. Poi c’è Enrico, che il lunedì pomeriggio tiene lezioni di falegnameria. Lui è un maestro di scuola con una grande passione per il legno: da vent’anni, nel tempo libero, si dedica a quest’arte.
Questi quattro falegnami si occupano della formazione, trasmettendo le loro competenze alle persone che vengono di volta in volta coinvolte nel progetto.

Inclusione, partecipazione e trasformazione: il cuore di K-Alma.
MFB. Che tipo di persone accogliete?
GG. Uno dei principi fondamentali di questo progetto, a cui non ho mai derogato, è che chi entra può scegliere liberamente quando farlo e, se lo desidera, può restare per sempre. Non poniamo scadenze, perché un percorso di riabilitazione o trasformazione non può avere tempi predefiniti. C’è chi ha bisogno di tre mesi e chi di tre anni.
Attualmente, lo spazio ci permette di seguire sei o sette persone alla volta. Per questo motivo, chiediamo che chi decide di partecipare abbia una reale motivazione. Se qualcuno manifesta l’intenzione di frequentare il laboratorio ma poi non si presenta con costanza, significa che sta occupando il posto di qualcun altro che potrebbe averne più bisogno. In questi casi, invitiamo la persona a ripensarci e, magari, a tornare quando si sentirà davvero pronta.
Ogni anno accogliamo circa 40-50 persone. Alcuni restano solo per un periodo limitato, mentre altri sono con noi da quasi sei anni. Inizialmente, il progetto si rivolgeva soprattutto ai migranti, perché provenendo dall’attivismo per i diritti umani vedevo quanto fosse importante offrire uno spazio di inclusione a chi, nei centri di accoglienza, rischiava di restare ai margini della società.
Con la pandemia, la situazione è cambiata: sono arrivate molte persone italiane inoccupate, che avevano perso il lavoro e si trovavano isolate, spesso a rischio di depressione. Successivamente, abbiamo iniziato ad accogliere anche persone con fragilità psichiche, collaborando con un’associazione di Testaccio DIVERSARTE cooperativa sociale integrata che lavora con adulti. Inoltre, seguiamo alcuni minori affidati ai servizi sociali, inviati per percorsi di giustizia riparativa o come alternativa alla detenzione.
Abbiamo provato anche a coinvolgere persone senza dimora, in collaborazione con Sant’Egidio, ma l’esperienza si è rivelata molto complessa. Per loro era difficile seguire un percorso così strutturato: non sapevano dove dormire, non riuscivano a garantire una presenza costante e, a volte, arrivavano senza essersi lavati o mangiato.
La falegnameria è un’attività bellissima, ma comporta anche dei rischi. Non è possibile lavorare con macchinari pericolosi senza essere in condizioni psicofisiche adeguate. Se una persona ha assunto sostanze o non è lucida, rischia di farsi male, e noi non possiamo permetterlo. Se fosse stato un laboratorio di cartapesta, sarebbe stato diverso, ma qui, con gli strumenti e le attrezzature che usiamo ogni giorno, la sicurezza viene prima di tutto. Per questo, purtroppo, il tentativo di includere persone senza dimora non ha avuto successo.
MFB. In che modo le persone partecipano al lavoro?
GG. Il nostro approccio è quello della bottega artigiana: il falegname spiega cosa fare, dimostra le tecniche e chi partecipa impara anche osservando. Spesso, il maestro falegname esegue i tagli più complessi, ma poi mostra come rifinire il pezzo, dando spazio a un apprendimento pratico e diretto. Questo metodo favorisce una grande autonomia, permettendo a ciascuno di sperimentare e migliorare le proprie capacità.
Ad esempio, seguiamo un uomo con problemi psichici purtroppo irrisolvibili. È una persona adulta, ma con un’anima ancora molto infantile. Qui ha trovato il suo spazio: utilizza solo strumenti sicuri e si dedica alla creazione di piccoli oggetti come topolini e pupazzetti. La falegnameria, infatti, richiede precisione e competenze matematiche, che per lui sarebbero difficili da acquisire, quindi non può realizzare lavori complessi. Tuttavia, per lui il valore dell’esperienza non sta tanto nel risultato finale, ma nel processo stesso: costruisce piccoli sgabelli e altri oggetti a modo suo, trovando soddisfazione nel contatto con il materiale e nella possibilità di creare.
Non abbiamo l’obiettivo di trasformarlo in un professionista, perché sappiamo che non potrebbe intraprendere un percorso lavorativo in questo settore. Ma per lui questo spazio è un luogo di accoglienza e benessere, dove può trascorrere il tempo in compagnia di persone che conosce e con cui si sente a suo agio. Qui può divertirsi e, almeno per qualche ora, lasciarsi alle spalle le sue difficoltà.
MFB. Quindi il progetto ha una duplice funzione: da un lato, favorisce l’integrazione e l’orientamento al lavoro, offrendo un percorso di avviamento professionale; dall’altro, accoglie persone che non hanno necessariamente questo obiettivo, ma che partecipano per stare meglio, per occupare il tempo in modo costruttivo e trovare un ambiente accogliente. È corretto?
GG. Esatto. Ed è proprio per questo che parliamo di falegnameria sociale: l’obiettivo non è soltanto la ricerca di un lavoro, ma anche la possibilità di trovare una comunità di riferimento, per quanto piccola e particolare possa essere.
Nel tempo, abbiamo realizzato molte attività insieme, spesso molto divertenti. Per esempio, fino a due anni fa qui c’era una grande struttura con una vela ondulata, bellissima, che abbiamo costruito collettivamente. È stato un lavoro di squadra che ha coinvolto tutti, indipendentemente dalle loro capacità o dai loro percorsi personali. E questa dimensione collettiva è fondamentale: il valore non sta solo nel risultato finale, ma nell’esperienza condivisa.



Come si sostiene e si trasforma una falegnameria sociale.
MFB. Qual è il modello economico dell’associazione? Come si sostiene finanziariamente? Mi sembra di capire che adottiate un approccio misto, che include crowdfunding, partecipazione a bandi pubblici, lavori su commissione e vendita di prodotti o progetti.
GG. Esatto, il nostro modello economico è misto. Da diversi anni, riceviamo supporto finanziario dall’Otto per Mille della Chiesa Valdese e dalla Fondazione Haiku Lugano, che ci garantiscono una base solida per coprire i costi fissi. Questi includono la manutenzione delle macchine, l’acquisto del legno, l’affitto, le assicurazioni e le spese per il commercialista. Grazie a questi finanziamenti, possiamo anche offrire borse lavoro.
Oltre a ciò, realizziamo lavori su commissione per privati e aziende. Sebbene queste attività non rappresentino la nostra principale fonte di entrate, contribuiscono al sostentamento dell’associazione. Molti cittadini scelgono di affidarsi a noi per la realizzazione di mobili o altri manufatti, preferendo un prodotto artigianale e sostenendo al contempo una realtà sociale.
È importante sottolineare che nessuno di noi è assunto formalmente. Tuttavia, quando realizziamo progetti retribuiti, teniamo traccia delle ore lavorate sia dai falegnami esperti che dagli studenti. Al termine del lavoro, compensiamo entrambi con la stessa cifra oraria. I falegnami professionisti accettano una retribuzione inferiore rispetto al mercato, poiché comprendono l’importanza di incentivare gli utenti nel loro percorso di inclusione.
Questo approccio ha un forte valore educativo e motivazionale. In passato, alcuni migranti ci dicevano che apprezzavano stare con noi, ma dovevano comunque trovare modi per sostenersi economicamente, anche ricorrendo ad attività illegali. Offrire un’alternativa legale e dignitosa è fondamentale per il loro percorso di integrazione.
Tutti i pagamenti avvengono in modo tracciabile e conforme alle normative fiscali. Questo aspetto ha richiesto un lavoro di sensibilizzazione, soprattutto con chi proveniva da contesti in cui il sistema non li aveva sostenuti o rispettati. Tuttavia, crediamo che sia essenziale per uscire dall’illegalità e dallo sfruttamento, avviandosi verso un percorso di inclusione e rispetto delle regole.
MFB. Siete presenti a Roma dal 2017. In questi otto anni, cosa è cambiato nel vostro progetto?
GG. La principale trasformazione è stata il passaggio da un’idea che inizialmente poteva sembrare utopica a un progetto concreto e riconosciuto. All’inizio, anche all’interno del nostro gruppo di lavoro, non c’era la certezza di dove saremmo arrivati. I falegnami, ad esempio, non immaginavano di trovarsi a lavorare così tanto e, soprattutto, di farlo con una finalità sociale. Per loro è stata una sfida, un mettersi in gioco, e questo processo ha cambiato tutti noi.
Le relazioni costruite, le esperienze vissute, i successi e anche gli insuccessi hanno modificato profondamente il nostro modo di lavorare e di percepire il progetto. La differenza più grande rispetto agli inizi è la consapevolezza: se all’inizio eravamo mossi dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare, oggi siamo più coscienti del nostro ruolo e delle scelte che facciamo.
Come dicevo prima, un aspetto su cui abbiamo riflettuto spesso è la decisione di rimanere un’associazione e non trasformarci in cooperativa sociale. È una scelta che, da un lato, ci rende più vulnerabili economicamente, ma dall’altro ci permette di mantenere integro l’impianto etico su cui si basa il nostro lavoro. Se avessimo dovuto strutturarci come una realtà con obblighi economici e contrattuali più rigidi, avremmo rischiato di snaturare l’anima spontanea del progetto.
All’inizio qualcuno ci ha spinto a riconsiderare questa scelta, sostenendo che sarebbe stato meglio dare una struttura più solida alla falegnameria. Ma con il tempo, anche i più scettici hanno compreso che la nostra strada era quella giusta.
MFB. Lavorate solo su base volontaria. È ancora corretto definire “volontariato” la partecipazione delle persone a un progetto sociale? Oppure, in base alla vostra esperienza, si tratta più di una forma di partecipazione civica, di cittadinanza attiva?
GG. Il termine volontariato identifica una realtà ben precisa, ma nel nostro caso non è del tutto adeguato. Quando ho coinvolto il primo falegname, e poi il secondo, fino all’arrivo spontaneo degli altri due, nessuno di loro aveva mai fatto volontariato prima. Non perché non ne conoscessero il significato, ma perché il loro coinvolgimento non nasceva tanto da una scelta consapevole di fare volontariato, quanto piuttosto da un’esigenza personale e professionale: sentivano di avere un sapere da trasmettere e temevano che certe competenze artigianali andassero perdute.
All’inizio si trattava semplicemente del desiderio di insegnare un mestiere a chi ne aveva bisogno. Poi, però, hanno capito che formare un falegname richiede tempo, dedizione e soprattutto una condizione di stabilità nella vita di chi apprende. Questo ha portato tutti noi a una maggiore consapevolezza: quello che stavamo facendo andava oltre la semplice trasmissione di competenze, perché richiedeva un coinvolgimento umano profondo.
In un certo senso, il nostro è un progetto sperimentale, ma non innovativo nel senso tradizionale del termine. Da sempre, le persone che vogliono cambiare una società ingiusta sanno che devono mettersi in gioco in prima persona. E noi abbiamo fatto esattamente questo.
Un esempio emblematico è stato durante la pandemia. Alcuni ragazzi migranti venivano qui senza sapere come avrebbero potuto mangiare o pagare l’affitto. In quel momento, la solidarietà tra noi è diventata istintiva e concreta: ci siamo letteralmente messi le mani in tasca per aiutarli. È stato un passaggio fondamentale per comprendere che il nostro progetto non si limita alla formazione professionale, ma ha una forte valenza sociale.
La stessa dinamica si è verificata con le persone più fragili. Penso ad uno dei nostri passati utenti, con una significativa fragilità psichica. All’inizio non usciva mai di casa. Poi ha iniziato a venire in falegnameria. A poco a poco, ha trovato un suo ruolo: ha iniziato ad accompagnare i ragazzi alla fermata dell’autobus, e poi ha persino partecipato a un workshop fuori Roma, dormendo per la prima volta lontano da casa. Per lui è stato un traguardo enorme. Non era solo un’esperienza lavorativa, ma un passo concreto verso una maggiore indipendenza e fiducia in sé stesso.
Ovviamente, il nostro obiettivo resta anche quello di facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro. Alcuni ragazzi hanno trovato occupazioni con contratti a tempo indeterminato grazie a noi. Non possiamo risolvere ogni situazione, ma in molte storie abbiamo visto reali cambiamenti.
Quindi, più che di volontariato, parlerei di cittadinanza attiva e di un modello di solidarietà in cui tutti, indipendentemente dal proprio ruolo, si mettono in gioco per costruire qualcosa che vada oltre il singolo individuo.


Chi arriva, come arriva, cosa impara
MFB. Qual è il processo attraverso il quale le persone fragili vengono selezionate e inserite nei vostri programmi? Vi vengono segnalate, vi contattano direttamente o le contattate voi?
GG. In realtà, il processo di selezione è molto inclusivo e non prevediamo criteri rigidi. Abbiamo accolto anche minori e abbiamo avuto esperienze, purtroppo non sempre positive, con ragazzi affetti da autismo in forma severa. Abbiamo seguito vittime di tortura, persone provenienti dalla Libia con profonde ferite fisiche e psicologiche, spesso in terapia con psicofarmaci.
Il nostro approccio è accogliente: non diciamo quasi mai di no a nessuno. Più che una selezione, avviene una sorta di adattamento naturale: chi trova un senso e un equilibrio in questo ambiente tende a restare, chi non si sente a proprio agio, invece, se ne va spontaneamente dopo qualche settimana o qualche mese.
Ci sono state rarissime occasioni in cui abbiamo dovuto allontanare qualcuno. Ricordo un caso in particolare, un ragazzo italiano che non rispettava le regole di convivenza e sicurezza: durante le ore di formazione si portava un migrante in giardino per fumare una canna e poi rientrava a lavorare, mettendo a rischio sé stesso e gli altri. Dopo vari richiami, è stato chiaro che questo non era il posto giusto per lui.
Le regole qui sono poche, ma fondamentali: sono pensate per garantire la sicurezza e il benessere di tutti. Se qualcuno non riesce o non vuole rispettarle, semplicemente questo non è il contesto adatto.
MFB. Ma concretamente, come arrivano le persone a voi?
GG. Ormai siamo abbastanza conosciuti a Roma, quindi i migranti spesso ci vengono segnalati dagli assistenti sociali, dalle associazioni e dai CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria).
Ma non solo: capita anche che siano i cittadini stessi a indicarci qualcuno. Ad esempio, più di una volta è successo che una persona venisse da noi e ci dicesse: “C’è un ragazzo che chiede l’elemosina fuori dal supermercato, è educato, gentile, mi aiuta con il carrello. Posso portarlo qui?” La nostra risposta è sempre: “Certo, portalo.”
Le porte sono aperte, ma sta poi al singolo capire se questo spazio può offrirgli qualcosa. Alcuni trovano qui un’occasione per apprendere un mestiere, altri semplicemente un ambiente accogliente e delle relazioni positive. Oltre alla falegnameria, abbiamo anche fornito assistenza legale e corsi di italiano informali, sfruttando gli spazi all’aperto del nostro giardino.
Quello che possiamo offrire è questo: un luogo di formazione e inclusione, aperto a chiunque voglia mettersi in gioco.
MFB. Come viene strutturata la formazione delle nuove persone all’interno della falegnameria?
GG. Quando arrivano, facciamo un primo colloquio di conoscenza. Se la persona è interessata a provare, sperimentare e mettersi in gioco, può iniziare subito. Dal giorno successivo entra in falegnameria e comincia ad osservare, ascoltare, collaborare e, gradualmente, a provare a realizzare qualcosa con le proprie mani.
Ogni persona ha un approccio diverso: c’è chi è più timido e osserva a lungo prima di intervenire, chi è più introverso e ha bisogno di tempo per ambientarsi, chi invece arriva con sicurezza, convinto di sapere già tutto… e poi scopre che c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare.
In fondo, è un processo naturale, esattamente come accade nella vita di tutti i giorni: ognuno ha il proprio ritmo e il proprio modo di affrontare un percorso di apprendimento.

K-Alma e la città: rete, scuola, quartiere
MFB. Che tipo di relazioni avete con studi di design, architettura, enti privati e pubblici? Questi rapporti si sviluppano su singoli progetti o esistono collaborazioni stabili?
GG. Le collaborazioni si sono sviluppate nel tempo, dopo la nascita dell’associazione, e avvengono prevalentemente su progetti specifici. Ad esempio, abbiamo lavorato con l’Accademia di Belle Arti di Roma, la Facoltà di Architettura di Roma Tre, lo l’Istituto Europeo di Design e diverse scuole, dai licei fino alle materne.
Abbiamo partecipato a workshop con architetti coinvolti in progetti di rigenerazione urbana, alcuni dei quali purtroppo oggi non esistono più. Un’esperienza significativa è stata quella con Casetta Rossa alla Garbatella, con cui abbiamo collaborato per attività laboratoriali. In passato, abbiamo persino organizzato un campo estivo per bambini, che venivano a piedi dalla Garbatella per conoscere il quartiere e giocare a fare i piccoli falegnami, costruendo oggetti in legno.
MFB. Siete voi a cercare queste collaborazioni o sono gli altri a contattarvi?
GG. Prevalentemente ci cercano. Il nostro lavoro ha attirato l’attenzione di diverse realtà, anche all’estero. Siamo stati persino in Portogallo, selezionati da una scuola di design ESAD Escola Superior de Artes e Design per partecipare a un workshop con gli studenti, insieme a un architetto di Milano, Giulio Vinaccia.
Ci piacerebbe poter attivare collaborazioni più continuative, ma al momento non ce lo possiamo permettere dal punto di vista del budget. Anche realizzare semplici elementi di arredo, come delle panchine, richiede la disponibilità di materiali, che non sempre riusciamo a reperire. Per questo, negli ultimi anni, ci siamo concentrati su workshop finalizzati a sostenere altre associazioni, in uno scambio reciproco di competenze e supporto.
Per molti di loro, queste esperienze rappresentano anche un modo per entrare in contatto con la città e con la sua storia. Se per noi italiani Villa Medici è un luogo conosciuto, per molti migranti è la prima volta che vi mettono piede. Questo aspetto è fondamentale per mantenere vivo il rapporto tra il nostro progetto e il tessuto urbano in cui si inserisce.
MFB. Come si relaziona il vostro progetto con la comunità circostante e i quartieri?
GG. Siamo stati accolti molto bene, probabilmente perché fin dall’inizio abbiamo mantenuto un approccio aperto e inclusivo. Il fatto di avere le porte sempre aperte ha reso il nostro spazio accessibile a chiunque voglia conoscerlo, partecipare o anche solo chiedere un aiuto pratico.
Un esempio concreto è il sabato, la giornata in cui siamo aperti tutto il giorno: la gente può passare, fare domande, vedere cosa facciamo. Capita spesso che qualcuno arrivi dicendo: “Ho un tavolino rotto, posso aggiustarlo qui?” E noi rispondiamo: “Sì, portalo, troviamo una soluzione insieme.”
Abbiamo trovato molto affetto e riconoscimento da parte della comunità locale, che vede in K-Alma un punto di riferimento per l’artigianato sociale e l’inclusione.
MFB. Quindi c’è anche una partecipazione attiva del territorio?
GG. Sì, assolutamente. Abbiamo collaborazioni con associazioni, scuole di quartiere e altre realtà locali. Anche solo all’interno del Villaggio Globale, ogni volta che gli artisti residenti devono realizzare qualcosa in legno, vengono da noi per chiedere aiuto o materiali.
Un’esperienza particolarmente significativa è stata quella con un artista giapponese Keisuke Matsuoka che, alcuni anni fa, si è innamorato del nostro progetto e della falegnameria. Dopo essere tornato in Giappone, ci ha inviato un’opera speciale: una scultura raffigurante un volto incompleto, accompagnata da tanti piccoli pezzi di legno da assemblare.
Abbiamo organizzato un workshop aperto alla cittadinanza, durante il quale ogni partecipante ha decorato un pezzetto di legno con un disegno personale. Alla fine, tutti i pezzi sono stati incollati sulla scultura, trasformandola in un’opera collettiva. Il risultato è stato emozionante: il volto principale si interrompe e viene completato dai tanti frammenti realizzati dalle persone che hanno partecipato.
Questi scambi e collaborazioni sono ciò che ci piace di più: danno un senso concreto alla partecipazione della comunità e rafforzano il legame tra il nostro progetto e il territorio.


Spazi da reinventare, vite da ricucire.
MFB. Avete instaurato partnership o collaborazioni con altre falegnamerie sociali o officine, sia in Italia che all’estero? Penso a realtà come Fadabrav di Novara, BRIChECO di Milano, la Falegnameria Sociale ASP di Bologna, o esperienze internazionali come Cucula di Berlino (chiusa nel 2018 ma legata ad altre realtà come Schlesische27) o spazi come Remake Scotland e le diverse Shed Community. Se sì, quali sinergie sono nate?
GG. Non abbiamo collaborazioni strutturate con altre falegnamerie sociali, né in Italia né all’estero. Tuttavia, nel tempo abbiamo ricevuto visite da parte di diverse associazioni interessate ad avviare progetti simili.
Tre o quattro volte è capitato che organizzazioni ci contattassero per capire come avviare un’iniziativa come la nostra. In questi casi, abbiamo sempre offerto il nostro supporto e un affiancamento trasparente, spiegando nel dettaglio quali sono le reali esigenze economiche e organizzative di una falegnameria sociale. Abbiamo condiviso informazioni pratiche, incluso un business plan, per aiutarli a valutare le risorse necessarie a partire.
Quindi, pur non avendo collaborazioni formali, abbiamo messo a disposizione la nostra esperienza per sostenere chi voleva intraprendere un percorso simile al nostro.
MFB. Trovo strano che nel tempo non si sia sviluppato un network di lavoro congiunto tra le falegnamerie sociali, anche solo per condividere esperienze e creare collaborazioni più strutturate. Come mai?
GG. Devo dirti che per noi avrebbe poco senso collaborare con falegnamerie che si occupano di servizi molto differenti dai nostri, come la riparazione di mobili, o sono strutture totalmente aperte al territorio. La nostra realtà è diversa: una falegnameria sociale è anche molto differente da un Fab Lab, non è solo un laboratorio tecnologico o un luogo di produzione, ma uno spazio di relazione e trasformazione personale.
Attualmente, tutti noi artisti e i laboratori presenti al Villaggio Globale stiamo lavorando alla stesura di un patto di collaborazione con il Comune di Roma,così come previsto per altre realtà sociali della nostra città, perché l’alternativa potrebbe essere perdere questo spazio. È una possibilità che ci preoccupa, perché ci siamo chiesti più volte: e se ci sgomberassero? Qualcuno ci ha suggerito di trasferirci in un capannone fuori città, ma non sarebbe la stessa cosa. Sarebbe difficile da raggiungere per molti ragazzi e, soprattutto, si perderebbe l’interazione con la comunità circostante.
Di recente, siamo stati contattati dalla Fondazione Santo Versace: la Presidente e la responsabile dei progetti di Milano sono venute a trovarci e ci hanno chiesto se fossimo disposti a sostenere e replicare il nostro modello in altri quartieri di Roma. Io ho risposto che sarei completamente disponibile, perché credo sia fondamentale ripensare gli spazi nei quartieri, rendendoli accessibili e aperti.
Un esempio concreto è il progetto che abbiamo realizzato con un vecchio falegname di Garbatella Stefano, ormai in pensione e con la bottega chiusa, ha trovato un nuovo ruolo qui da noi. Prima passava le giornate da solo o al bar, finché non ha deciso di mettersi a disposizione per trasmettere le sue competenze. Questo è il tipo di scambio che vorremmo incentivare: spazi di manualità e relazione, non solo di produzione.
Secondo me, un modello ideale sarebbe quello di aprire le scuole il pomeriggio e creare falegnamerie all’interno degli istituti, dove i ragazzi possano sperimentare la manualità in un ambiente sicuro e stimolante. Il legno ha un potere terapeutico straordinario, e io ne sono una testimone diretta: ho sempre amato il legno, anche se paradossalmente non sono una falegnama! In otto anni avrò tagliato tre tavole, eppure vado sempre in giro con la macchina piena di pezzi di legname.
Credo che tutti possiamo attraversare momenti difficili nella vita, e avere un posto dove creare, anche senza un obiettivo professionale, può fare la differenza. Non si tratta solo di costruire qualcosa, ma di trovare un equilibrio, di contrastare la depressione, di mettersi in relazione con gli altri.
Abbiamo un esempio meraviglioso qui: Aldo, un pensionato rimasto vedovo. Se non fosse venuto da noi, probabilmente sarebbe finito in una RSA, con una vita molto più limitata. Invece, qui ha trovato il suo spazio, la sua routine, le sue amicizie. Ogni giorno ci dice: “Io qui mi salvo”, e porta anche i suoi amici. Questa è la vera forza della falegnameria sociale.
MFB. Potresti condividere alcune storie di persone che, grazie al vostro supporto, sono riuscite a reintegrarsi nel tessuto sociale e lavorativo?
GG. Certo, ci sono due storie in particolare che non dimenticheremo mai.
La prima riguarda Fanto, un ragazzo arrivato qui quando aveva circa 16 anni e mezzo, quasi 17. Fin da subito si è fatto amare da tutti: aveva qualcosa di speciale, una grande sensibilità e una voglia di mettersi in gioco.
Lo abbiamo accompagnato nel suo percorso: ha concluso la scuola, preso la maturità e festeggiato qui con noi. Poi ha compiuto 18 anni e anche quella è stata un’occasione di festa. Nel frattempo, aveva mostrato un talento naturale per la falegnameria.
A un certo punto, abbiamo collaborato con una grande azienda di trasporto su gomma per alcuni progetti, la FERCAM che aveva avviato una piccola cooperativa sociale per il recupero di pallet e materiali in legno. Quando ci hanno chiesto se conoscevamo qualcuno da assumere, la risposta è stata immediata: “Fanto!”
Così, è stato assunto. È stata una gioia per tutti, una festa continua, perché nel giro di poco tempo la sua vita è cambiata radicalmente. Ma il merito è tutto suo: noi lo abbiamo sostenuto, ma era lui a trovare la sua strada. Oggi lavora ancora lì e, ogni tanto, mi chiama dicendo: “Posso mandarti un ragazzo? Lo vedo in difficoltà, ha bisogno di un aiuto.” E io gli rispondo sempre: “Certo, mandalo.”
La seconda storia è quella di Rasheed, il primo ragazzo che ha frequentato la nostra falegnameria. Quando è arrivato, viveva in condizioni terribili, in un’occupazione abusiva alla Vannina, sulla Tiburtina. Ricordo bene la prima volta che entrai in quel posto: fu scioccante. Portai persino la sindaca di Lampedusa per denunciare quella realtà.
Rasheed era senza fissa dimora. Veniva qui trascurato, spesso sporco, ma con una determinazione incredibile: “Io voglio lavorare!” diceva sempre. Giorno dopo giorno, abbiamo scoperto che si nascondeva il cibo per poter restare più tempo possibile in falegnameria e allontanarsi da quel contesto.
Si è impegnato moltissimo, e il suo percorso è stato straordinario, anche se non privo di difficoltà. Ci sono stati momenti di forte scontro, perché l’autonomia passa anche attraverso il conflitto. Ma alla fine ce l’ha fatta: oggi ha una moglie italiana, una bambina e un lavoro stabile.
Di recente mi ha detto: “Devo rifare le finestre di casa, posso venire a costruirle qui? Ma vi devo pagare?” E io gli ho risposto: “Quasi, quasi!”
MFB. Oggi lavora in una falegnameria?
GG. No, attualmente lavora in un’azienda che produce infissi. È rimasto con noi per almeno cinque anni, un periodo fondamentale per la sua crescita.
Una cosa divertente che abbiamo iniziato con lui è stata quella di chiamarci tutti “Capo”. Non esistono gerarchie, siamo tutti allo stesso livello. Così, in falegnameria si sentiva continuamente: “Capo, posso fare questo?” “Capo, hai sbagliato!” “Capo, tu sei troppo buona, non devi far venire quel ragazzo!”
A un certo punto gli ho chiesto: “Ma scusa, che differenza c’è tra lui e te?” E lui, con aria convinta, ha risposto: “Ma io sono io!”
Per lui il riscatto era stato così importante che si arrogava il diritto di decidere chi meritava e chi no. Forse c’era anche un pizzico di gelosia, ma era un segnale di quanto sentisse questa falegnameria come la sua casa.




Enzo Mari, Paulo Freire e lo “sgabello bello bello”.
MFB. Il vostro progetto sembra ispirarsi a quella parte del design italiano che, tra gli anni ’70 e ’90, ha saputo unire artigianato e progettazione democratica con una forte dimensione politico-sociale. Penso a figure come Enzo Mari, Bruno Munari, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra, Alessandro Mendini, Ettore Sottsass. Vi riconoscete in questa tradizione?
GG. Sì, in un certo senso ci riconosciamo in quell’approccio, soprattutto per quanto riguarda l’autocostruzione e l’autoformazione.
Piuttosto che imporre schemi rigidi, abbiamo sempre lasciato spazio alla creatività individuale: ciascuno ha il proprio oggetto del cuore, la propria “sedia ideale” o il proprio “tavolo ideale”. Il nostro obiettivo era fornire gli strumenti per trasformare queste idee in realtà.
Un aspetto importante dell’autocostruzione è l’autonomia economica. Lo abbiamo detto chiaramente: “Se sapete costruire una sedia o uno sgabello – anche semplice, ma bello – potrete replicarlo ovunque nel mondo, venderlo e guadagnarci qualcosa.”
Ovviamente, il limite per molti è stata la matematica. Saper progettare non è facile, ma abbiamo comunque realizzato oggetti molto interessanti.
Un esempio è stata la serie di taglieri: vedevo spesso abbattere platani enormi nelle strade di Roma e i tronchi venivano lasciati abbandonati. Così li raccoglievo e li portavo in falegnameria. Abbiamo iniziato a lavorarli, trasformandoli in taglieri unici, che poi vendevamo. È stata un’esperienza importante, perché ha fatto capire ai ragazzi che potevano creare qualcosa di utile e commerciabile con le proprie mani.
Un altro progetto significativo è stato quello dello “Sgabello Bello Bello”, nato da un’idea condivisa con Rashid. La sua storia è particolare: non aveva i documenti e non poteva essere assunto legalmente. Avevamo fatto tre ricorsi, e alla fine siamo riusciti a ottenere il permesso di soggiorno, ma nel frattempo lui non poteva essere pagato con ritenuta d’acconto, perché era illegale.
Non potevamo accettare che venisse escluso solo perché aveva ancora meno diritti degli altri. Così ci siamo inventati una soluzione: “Costruisci degli sgabelli e vendili.” Era un modo per garantirgli un reddito, anche se in modo informale.
Non era più solo una questione di design, ma di sopravvivenza e autodeterminazione. L’autoproduzione è diventata un mezzo per sostenere economicamente i ragazzi che non avevano altre possibilità. È stato un approccio pragmatico, un modo per dire: “Non aspettiamo che il sistema ti dia un’opportunità, troviamone una noi.” E ha funzionato.
MFB. Il vostro approccio educativo ha qualcosa in comune con le scuole alternative, come il metodo Steiner o Montessori?
Gabriella Guido: In realtà, se dobbiamo individuare un riferimento educativo, ci ispiriamo più al pensiero di Paulo Freire, con la sua idea di educazione come pratica della libertà e del desiderio.
Più che focalizzarci sulla sola manualità, il nostro obiettivo è creare uno spazio in cui le persone possano scoprire e sviluppare il proprio potenziale. La libertà di sperimentare, di provare e di sbagliare è fondamentale: solo così si capisce cosa si è capaci di fare.
Avere accesso a materiali, strumenti e attrezzature consente di esplorare senza limiti, affiancati da qualcuno più esperto ma senza imposizioni rigide. Qui i ragazzi possono provare a costruire qualcosa, capire cosa funziona e cosa no, imparare dagli errori e riprovare.
Anche gli scarti di lavorazione diventano una risorsa: abbiamo creato una serie di giochi per bambini utilizzando esclusivamente legno di recupero. Questo fa parte di un’idea più ampia di sostenibilità, ma anche di un approccio educativo che valorizza il processo, non solo il risultato finale.



Economia circolare e partecipazione: il modello sostenibile di K-Alma.
MFB. Oltre alla dimensione pratica, il vostro progetto sembra avere anche una forte componente etica, sostenibile e culturale. In che modo questi aspetti diventano parte integrante della vostra attività e coinvolgono chi vi partecipa?
GG. Assolutamente sì. Uno dei principi fondamentali del nostro lavoro è che la materia non finisce dopo un primo utilizzo: tutto può essere riutilizzato in forme diverse.
Ad esempio, gli scarti di lavorazione non vengono mai considerati semplici rifiuti: li trasformiamo in elementi artistici, in giochi per bambini o in altri oggetti utili. Abbiamo creato tantissimi giochi in legno recuperando materiali che altrimenti sarebbero stati scartati.
A livello di sostenibilità, abbiamo ottenuto il riconoscimento di FSC (Forest Stewardship Council), un’organizzazione che certifica la filiera etica del legno. Lavoriamo con questa ONG perché per noi è essenziale garantire che il legname che utilizziamo provenga da foreste gestite responsabilmente. Un albero tagliato in modo sostenibile non danneggia l’ecosistema circostante, e le aziende coinvolte rispettano i diritti dei lavoratori.
Non tutti sanno che esiste un mercato nero del legname, che offre materiali a prezzi inferiori ma senza alcuna garanzia ambientale o sociale. Il legname certificato FSC è più costoso, ma chi può permetterselo sta scegliendo di sostenere un modello etico e responsabile. Quando riceviamo commissioni, proponiamo sempre questa opzione e siamo felici di poter offrire alternative sostenibili.
Questi principi guidano il nostro lavoro e la nostra filosofia: non sprecare nulla. Anche i piccoli pezzi di legno che non possiamo riutilizzare vengono recuperati per altri scopi. In inverno, ad esempio, li doniamo alle famiglie curde che abitano qui e che ne hanno bisogno per scaldarsi, oppure li usiamo nei nostri camini.
Persino la segatura trova una seconda vita: abbiamo sacchi e sacchi di segatura che vengono ritirati da chi ha orti o giardini, perché è un ottimo materiale per la pacciamatura del terreno. Certo, quella con residui di colla è meno utilizzabile, ma è una parte minima rispetto a tutto il resto.
Insomma, il nostro approccio è semplice ma efficace: ogni materiale ha un valore, tutto può avere un nuovo utilizzo e nulla va sprecato.
MFB. Guardando al futuro, hai già accennato ad alcune possibili direzioni: dare continuità a questo spazio, trovare eventualmente un’altra collocazione, o persino sviluppare un modello di falegnamerie di quartiere, legate ai territori e ai municipi. Quali sono, concretamente, le prospettive future di K-Alma?
GG. L’idea principale per il futuro è rimanere qui, consolidando il modello che abbiamo costruito e sperimentato in questi anni. Abbiamo attraversato momenti di crisi, ci siamo interrogati su quale tipo di realtà volessimo essere, e abbiamo dovuto fare i conti con un mondo che cambia rapidamente.
Il Covid è stato un momento di svolta, così come la guerra in Ucraina, perché eventi di questa portata hanno un impatto anche su piccole realtà come la nostra, dalle difficoltà economiche alla gestione quotidiana delle persone più fragili.
Per ora, vogliamo continuare a fare cose belle, nel rispetto delle idee e dei valori che ci hanno portato fino a qui. Se un giorno non potessimo più restare in questo spazio, valuteremo nuove possibilità, ma sempre con la stessa filosofia.
Devo ammettere, però, che ho perso fiducia nella politica, soprattutto in quella di prossimità. Sarebbe bello poter dialogare con le istituzioni per creare modelli replicabili e sostenibili, ma nella realtà spesso non c’è una visione di lungo termine.
Ho visto finire tanti progetti con un grande potenziale, semplicemente perché non erano più considerati “in linea con i tempi”. Questo è ciò che mi amareggia di più: vorremmo immaginare un futuro con più realtà di questo tipo, creare scambi e reti di collaborazione. Invece, vediamo spesso il percorso opposto, con luoghi e progetti che rischiano di scomparire.
Oggi, il Villaggio Globale in cui ci troviamo riesce a resistere solo grazie alla determinazione di alcune persone che non mollano. E forse questa è la nostra più grande forza: continuare a esistere, nonostante tutto.
Falegnameria Sociale K-Alma.
web: http://www.k-alma.eu
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RaiPlay “I mestieri di Mirko”: https://www.raiplay.it/video/2025/03/I-mestieri-di-Miro-Sopra-la-panca-lavorare-stanca-pt11-96a08ab8-1490-4aac-b5cb-344980f5e10d.html?

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