Un furgone per resistere alla strada: il selfie senza fissa dimora di Roberto DM.

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Roberto, in cerca
di un’opportunità per ripartire.

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Fotografie e video: Roberto DM.

“Basta poco per perdere tutto. Ma basta anche poco per ripartire, se qualcuno ti dà una mano.”
Roberto DM.

Roberto DM. ha 44 anni e vive oggi a Verona, senza una casa dove stare.
Con lui ci sono i suoi due cani, inseparabili compagni di vita e di strada.
Per Roberto, come per molte persone senza dimora (SelfieSFD ne ha già parlato nelle storie di Mira DZ, “Cadere senza Rete” e Chico e la risalta” e di Elsa M, “Elsa, i suoi cani e il diritto di avere una casa“), i cani non sono semplicemente animali da compagnia: sono famiglia, protezione, affetto, dignità. Il legame tra persone senza dimora e animali è stato oggetto di numerosi studi a livello internazionale e italiano.
Come osserva Leslie Irvine nel suo libro “Animals as Lifechangers and Lifesavers” (2013),

“Gli animali incoraggiano il senso di responsabilità, ricompensano l’adempimento di questa responsabilità con amore incondizionato e impediscono ai loro custodi di ricadere in comportamenti a rischio” .

In Italia, una ricerca del 2015 condotta da Stefania Ferrigno: “Survey on the relationship between homeless people and the dog“, ha rilevato che il 50% delle persone senza dimora che vivono con un cane lo considera essenziale per combattere la solitudine, mentre l’85% ritiene che il proprio animale comprenda il loro stato d’animo.
Come ricorda la stessa Ferrigno:

“Il cane agisce come intermediario tra la persona senza dimora e l’ambiente urbano in cui conduce una vita precaria”.

Nei racconti di molte persone intervistate nei progetti di ricerca, l’animale per chi vive in strada non è un ostacolo, ma una salvezza.
Tuttavia, questo legame profondo comporta anche grandi difficoltà pratiche.
I dormitori, gli ostelli e le strutture di accoglienza in Italia, come altrove, spesso non permettono l’accesso agli animali.
Questo costringe molte persone, come Roberto, a scegliere tra avere un tetto o restare fedeli ai propri compagni di vita.
Iniziative come Save the Dogs a Milano, con il progetto Amici di Strada, Compagni di Vita e Angeli blu dell’OIPA di Milano con Progetto Virginia, cercano di superare questa barriera, offrendo accoglienza o assistenza anche agli animali. Ma si dovrebbe e si potrebbe fare molto di più.

Roberto ha scelto di raccontare la sua storia attraverso SelfieSFD perché crede ancora che sia possibile cambiare il proprio destino.
Non chiede assistenza passiva. Non chiede carità. Chiede di poter ripartire.
Oggi, oltre alla condizione di senza dimora, Roberto deve affrontare anche seri problemi di salute: soffre di una broncopolmonite non curata che gli provoca difficoltà respiratorie gravi e peggiora ogni giorno di più.

Il suo bisogno immediato è concreto: raccogliere circa 1500 euro per acquistare e allestire un furgone usato (come il Nissan Trade che potete vedere su questo annuncio) che gli permetta di avere finalmente un rifugio sicuro per sé e per i suoi cani, proteggendosi dai rischi per la salute che la vita in strada inevitabilmente comporta.
Con un mezzo suo, Roberto potrebbe tornare a lavorare, per conservare la propria indipendenza e costruirsi una nuova possibilità.
Le competenze non gli mancano: è giardiniere, ha esperienza nei lavori di campagna ed è diplomato come perito metalmeccanico.
È pronto a ripagare chiunque voglia offrirgli un aiuto anche attraverso il proprio lavoro, a patto che possa restare vicino ai suoi cani.

La storia di Roberto DM. è una storia di resilienza, ma anche di un uomo che lotta ogni giorno contro la la salute, la precarietà, l’indifferenza, l’emarginazione. Roberto è un uomo che non si arrende.
Un uomo che chiede solo una cosa semplice: poter vivere con dignità, insieme ai suoi cani.

Questa è la quarta storia raccolta dal progetto SelfieSFD.
Altre ne seguiranno, raccontate direttamente da chi vive ai margini o grazie al contributo di cittadini e associazioni che ci aiutano a raccogliere testimonianze.
I fatti narrati sono riportati sotto la responsabilità di Roberto Di Maio, poiché non è stato possibile verificarli indipendentemente.

Vuoi offrire un aiuto concreto a Roberto DM? Puoi contattarlo inviando un messaggio su Messenger alla sua pagina Facebook.
Vuoi segnalare una storia o contribuire al progetto? Scrivici.
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L’inizio: il lavoro e il Brennero.

Ho preso un diploma da metalmeccanico, ma come metalmeccanico non ci ho mai lavorato davvero. Subito dopo la scuola, ho vinto un concorso per un appalto delle Ferrovie dello Stato.
Era il 2002 quando sono partito per il Brennero. Lì ho iniziato come manovratore: agganciavo i treni, sganciavo i locomotori. Era un lavoro tosto, ma buono. All’epoca, i locomotori italiani non potevano uscire dai confini, quindi bisognava fare il cambio. Ora passano direttamente, ma allora era un via vai continuo di mezzi, operazioni, gesti precisi che imparavi a memoria.

Dopo qualche tempo, sono passato a lavorare nella galleria dell’alta velocità, quella che stavano scavando per l’Eurotunnel. Facevamo carpenteria in ferro, tutto il giorno dentro la montagna, a scavare.
Era faticoso, sì, ma anche bello. Sentivi che stavi costruendo qualcosa che sarebbe rimasto nel tempo.
I colleghi erano tutti gente seria, lavoratori con un posto statale. Ma al Brennero l’inverno è duro, polare. E la solitudine del confine si faceva sentire forte.

L’alcol girava, ed era normale. Le temperature rigide, la vita isolata… ti portavano a cercare una fuga. Io però ho sempre cercato di tenermene alla larga. Mai toccato droga, mai cercato rifugio nella bottiglia.

Ho sempre pensato più al lavoro che all’amore. Compagne? Poche. Ero sempre in cantiere, tra i turni, il gelo e il ferro.
Diciamo che lavoravo e basta.

Dal 2002 al 2010, questa è stata la mia vita. Poi l’appalto finì. E da lì, piano piano, cambiò tutto.

Il passaggio in Olanda (2012–2016).

Quando l’appalto finì, nel 2010, mi ritrovai senza lavoro. E senza casa: in Alto Adige mi tolsero anche l’alloggio. Così, piano piano, sono scivolato in strada. La prima volta è stata dura. Avevo una macchina e dormivo lì dentro, in un parcheggio sotterraneo gratuito. Di notte era freddo, ma almeno stavo al riparo. Durante il giorno giravo per cercare qualcosa da fare.

Un giorno trovai un piccolo lavoretto: una signora aveva bisogno di qualcuno per raccogliere le foglie nel suo giardino. Mi diede una mano più grande di quanto pensasse: mi parlò di una persona che cercava manodopera in Olanda, nel settore dei fiori. Non ci pensai molto: parlavo tedesco, e quella sembrava una possibilità concreta di cambiare vita.

Partii. Arrivai ad Amsterdam, nella periferia, vicino allo stadio. Non era il centro elegante che si vede nelle cartoline, ma un quartiere popolare, pieno di gente che, come me, cercava di rimettersi in piedi.

Scoprii una realtà diversa. Se dormi per strada, la polizia ti carica in macchina, ti offre un caffè e ti accompagna in una squat house. Sono case ed edifici abbandonati che vengono recuperati a uso sociale. In Olanda non vogliono vedere barboni per strada. Ti danno un posto dove stare, basta che non crei problemi. Dopo quattro mesi passano a controllare: se riesci a contribuire anche solo con 20 o 30 euro al mese, puoi rimanereEra una dignità che da noi non esiste.

Trovai lavoro Royal FloraHolland un’asta dei fiori, che è come una gigantesca fabbrica. Dentro funzionava come una catena di montaggio: c’era chi puliva i fiori, chi li tagliava, chi li smistava. Ti facevano passare da un settore all’altro, così imparavi un po’ tutto. Era un ritmo intenso, ma anche organizzato. In poco tempo imparai tutto.

Fu lì che nacque la mia passione per la floricolturaMi piaceva avere a che fare con i fiori, vedere come da una pianta nasceva qualcosa di bello e vivo. Presi anche un patentino come coltivatore, un passo importante per provare a costruirmi un futuro diverso.

In Olanda stavo trovando un equilibrio. Forse il mio errore più grande è stato quello di tornare in Italia. Avrei dovuto restare lì.

Il ritorno e il sogno della terra.

Rientrai in Italia nel 2017. Tornai a Verona con un vecchio furgone che avevo all’epoca, carico solo di qualche speranza e di poche cose.
Avevo ancora qualche soldo da parte, e così mi misi a cercare subito un’occasione per ripartire.

Un giorno, su subito.it, trovai un annuncio: affittavano un pezzo di terra a 300 euro al mese. Non ci pensai due volte. Andai a vederlo e lo presi subito, firmando un contratto regolare.
Volevo costruirmi qualcosa di mio, ripartire dalle radici, dalla terra.
Coltivavo fiori di vario tipo: girasoli, margherite, fiori di campo.
Preparavo mazzi con le mie mani e li vendevo fuori dall’Arena di Verona, durante i concerti e gli eventi.
Era un lavoro semplice, ma vero. Onesto.

Ogni fiore che sistemavo, ogni mazzetto che legavo, era una speranza, una piccola vittoria contro tutto quello che avevo perso.
Non si diventava ricchi, ma durante l’estate riuscivo a guadagnare anche 6-7 mila euro.

Era abbastanza per vivere, per pagare l’affitto della terra, per nutrire i miei due cani e tenermi in piedi senza pesare su nessuno.
Ma la strada non è mai davvero lontana. Lavoravo in nero, sì, ma lavoravo onestamente. Nonostante questo, mi sequestrarono tutto.

E crollò tutto un’altra volta.

Il crollo: la malattia, il carcere e la perdita di tutto.

La vita di strada non l’ho mai scelta. Ma quando ci finisci, perdi tutto. Anche il gesto più semplice — offrire un caffè a qualcuno — diventa un lusso.

La strada ti chiama, ti tenta. C’è chi si mette a spacciare, chi finisce nei guai solo per sopravvivere. Io no. Io volevo solo lavorare, anche se ogni giorno diventava più difficile.

Prima che arrivasse il Covid, ho cercato di tenermi a galla come potevo. Feci anche volontariato alla Caritas San Vincenzo, qui a Verona. Mi dissero che mi avrebbero aiutato, anche a sistemarmi i denti — rotti durante un’aggressione in strada, quando qualcuno aveva cercato di rubarmi i cani — ma alla fine, anche per causa del Covid, non arrivò nulla. Rimasi così, con i denti rotti e con tutti i miei problemi sulle spalle.

Poi arrivò la malattia. Ero in una casa abbandonata, non stavo bene. Mi bruciavano i polmoni, mi bruciava la schiena. Cercavo di resistere. Una mattina, era una bella giornata, rimasi ore al sole, ma avevo la febbre a 40. Non volevo arrendermi. Il giorno dopo andai alla Caritas per poter fare colazione e farmi una doccia. Ma uscii da lì sputando sangue: dalla bocca e dall’orecchioMi portarono subito in ospedale.

Rimasi ricoverato per tre settimane. Mi diagnosticarono una broncopolmonite grave. Alla fine firmai per uscire: avevo i miei cani fuori e non potevo lasciarli soli. I medici mi raccomandarono di non tornare a vivere in strada, né tantomeno in case abbandonate, piene di muffa e umidità. Dovevo stare al caldo. Ma loro stessi sapevano quanto è difficile stare al caldo quando non hai una casa.
Da allora non mi sono mai davvero ripreso. La broncopolmonite non è mai stata curata come si deve. Ora mi sveglio la mattina con il fiato corto, ho fitte forti al petto, mangio poco, sto dimagrendo troppo. Forse dovrò tornare presto al pronto soccorso. Ma ho sempre cercato di non pesare su nessuno.

A peggiorare le cose fu anche un problema giudiziario. Ero stato fermato con il mio furgone: dentro c’era la mia cassetta degli attrezzi da giardiniere, il mio strumento di lavoro. In quel periodo, a Verona, c’erano stati molti furti, e senza prove mi associarono a quel clima di sospetto.
Ero incensurato e con la condizionaleL’avvocato che doveva seguirmi non si presentò nemmeno al processo. Invece di chiedere i lavori socialmente utili, come sarebbe stato giusto, mi fece andare in contumacia. Così mi condannarono: quattro mesi di carcere.
Entrai a Montorio, un carcere sovraffollato e duro, dove i suicidi purtroppo sono frequenti. Due giorni dopo il mio ingresso, il mio vicino di cella si impiccò. Lo vidi con i miei occhi. È una scena che non si dimentica più. Nessuno dovrebbe vedere certe cose, tantomeno vivere in un ambiente così.
Dal settembre 2023 a marzo 2024 rimasi lì dentro.

Nel frattempo, il furgone, che era rimasto fermo in un parcheggio, scaduta l’assicurazione, fu sequestrato e demolito. Non riuscii a salvarlo: il vecchio proprietario, da cui lo avevo acquistato, era morto appena due giorni dopo il passaggio di mano, e non ero mai riuscito a completare le pratiche di proprietà. Così persi anche il furgone, e con lui tutte le mie cose.

Oltre alla libertà e al lavoro, rischiai di perdere anche i miei cani. Cercarono di togliermeli, ma per fortuna non ci riuscirono. I miei cani sono trattati troppo bene: chi mi incontra si meraviglia quando scopre che vivo in strada, perché loro sono sempre in perfetta salute, curati e amatiSono la mia famiglia.
Dopo il carcere, con nulla in mano — senza casa, senza furgone, senza strumenti di lavoro — trovare un’occupazione è diventato praticamente impossibile.

Il presente e un desiderio testardo.

Oggi ho 44 anni. E ogni giorno che passa mi chiedo quanto e se riuscirò ancora a resistere.
Vivere in strada ti consuma poco a poco. Ti logora il corpo, ma soprattutto ti toglie la possibilità di progettare il futuro. Anche quando hai la voglia di fare, anche quando avresti le mani e la testa pronte per ricominciare, la strada ti inchioda dove sei.

Il lavoro, per me, non è mai stato un problema. Sono pronto a rimettermi in gioco subito.
Sono giardiniere, ho esperienza nei lavori di campagna, sono veramente bravo nei montaggi e negli smontaggi di strutture. Sono anche diplomato perito metalmeccanico, conosco il lavoro manuale, so affrontare la fatica.
Prenderei qualunque lavoro, anche domani. Ma il problema non è la volontà. Il problema è il peso che ti porti addosso quando vivi per strada.

Nei dormitori, negli ostelli, nei centri di accoglienza, non accettano i cani.
E io non lascerei mai i miei compagni per nessun motivo al mondo.
Senza un posto sicuro dove lasciarli durante il giorno, anche accettare un impiego diventa impossibile. Non posso rischiare di abbandonarli. Non posso pensare di lasciarli in mani sbagliate, peggio ancora in un canile o vederli soffrire.
E poi, come ti presenti a un colloquio quando vivi per strada? Quando ogni giorno è una lotta per lavarti, cambiarti, proteggere quel poco che possiedi?

Oggi a Verona la situazione è ancora più difficile. Le strade sono piene, strapiene. Gli extracomunitari arrivati in massa hanno aumentato il caos. Non c’è più nemmeno uno spazio tranquillo dove potersi fermare senza rischiare. La polizia e i vigili fanno controlli continui, passano a setacciare ogni angolo. Ti buttano fuori dalle case abbandonate, ti denunciano per occupazione abusiva.
È diventata una guerra a cielo aperto per chi non ha nulla. Ogni giorno puoi perdere anche quel poco che sei riuscito a salvare. Nonostante tutto, io non ho smesso di sognare un modo per uscire da questa situazione.

Il mio sogno oggi è semplice. Non cerco miracoli. Mi basterebbe un vecchio furgone, o anche un camper usato, con tanti chilometri sulle spalle. Uno spazio sicuro dove dormire insieme ai miei cani, dove poter lasciare le mie cose senza la paura continua di perdere tutto.
Con un furgone potrei finalmente riprendere a lavorare davvero.
Potrei tornare a vivere con dignità. Potrei costruirmi da solo una seconda occasione.

Io non cerco pietà. Cerco solo una possibilità vera.
Ma ogni giorno che passa cresce dentro di me una paura concreta.
La paura che per me il tempo stia finendo. La paura di non farcela più.

#SelfieSDF #UnFurgonePerRicominciare #laCasaUnDirittoPerTutti

3 risposte a “Un furgone per resistere alla strada: il selfie senza fissa dimora di Roberto DM.”

  1. […] di vita) e Sofie Bumke (responsabile delle unità mobili) di Save the Dogs. Mira, Elsa e Roberto — tre persone senza dimora che convivono con i loro cani — pongono nuove domande, che nascono […]

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  2. […] persone di cui abbiamo raccontato le loro storie in Selfie Senza Fissa Dimora — Mira De Zolt, Roberto Di Maio e Elsa Marchese — che convivono con i loro cani, pongono a LAV una serie di domande nate dalla […]

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  3. […] senza dimora di cui abbiamo raccontato le storie in Selfie Senza Fissa Dimora – Mira De Zolt, Roberto Di Maio e Elsa Marchese – pongono le loro domande a Francesca Collodoro, responsabile delle attività […]

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