
check-in architecture
Squatting City. Reclaim Your City.
Perché sfrattare gli squat? Per molti la risposta può sembrare scontata, ma dare una replica seria a questa domanda è meno semplice di quanto possa apparire. Sono le autorità, i proprietari privati e immobiliaristi che vogliono eliminare gli squat. Gli squat rappresentano un ostacolo ai loro progetti e ai loro interessi immediati. A loro dire, gli squatter occupano gli spazi illegalmente e sono un impedimento alla riqualificazione urbana. Ma questi sono argomenti semplicatori, che esprimono solo il punto di vista di chi privilegia le necessità di mercato, per loro gli squat rappresentano più un bastone tra le ruote che uno sforzo collettivo per rivendicare il diritto alla città, cioè, come scrive David Harvey ne “Il capitalismo contro il diritto alla città” (Ombre corte 2012), per rivendicare il diritto alla sua riorganizzazione e alla sua trasformazione, per rendere la città conforme ai desideri dei cittadini (ne ho parlato nel post “Città ribelli. Dal diritto alla città alla rivoluzione urbana“). Scrive Harvey:
“La questione di che tipo di città vogliamo non può essere separata da altre questioni: che tipo di persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazione vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita desideriamo, che valori estetici riteniamo nostri. Perciò il diritto alla città è molto di più che un diritto di accesso, individuale o di un gruppo, alle risorse che la città incarna: è il diritto di cambiare e reinventare la città in modo più conforme ai nostri più intimo desideri. È inoltre un diritto più collettivo che individuale, perché reinventare la città dipende inevitabilmente dall’esercizio di un potere collettivo sui processi di urbanizzazione. Quello che intendo sostenere è che la libertà di creare e ricreare noi stessi e le nostre città è un diritto umano dei più preziosi, anche se il più trascurato. Come possiamo, dunque, esercitare meglio questo nostro diritto?”.
Come architetto e come curatore di progetti ho cercato di indagare le trasformazioni delle città contemporanee (vedi Check-in Architecture, SignJam Open Lecture, SignJam Live) e ho avuto modo di frequentare molti squat sia in Italia che in Europa. Dopo aver studiato a fondo queste realtà, sono arrivato a sostenere che la repressione degli squat è davvero un grosso errore. La mia posizione è che squatter e squat migliorano le città in molti modi, modi che solitamente non vengono presi in considerazione dai politici, dai legislatori, dai mass media, dall’opinione pubblica, dagli architetti e dagli urbanisti.
Lo squatting consiste nell’occupare terre o edifici abbandonati per riappropriarsi di quel diritto fondamentale (anche per l’economia) che è la casa. Secondo il giornalista del New York Times, Robert Neuwirth, nel suo libro “Città ombra. Viaggio nelle periferie del mondo” (Fusi Orari 2007) nel mondo ci sono circa un miliardo di persone che vivono occupando: circa un individuo ogni sette (il 14% della popolazione globale). Un movimento, quello per il diritto alla casa, che emerge soprattutto dalla seconda metà del novecento e che secondo il sociologo olandese Hans Pruijt – autore di “The logic of urban squatting“- può essere classificato in diverse categorie: l’occupazione dovuta a la mancanza effettiva di una casa (come può essere il caso degli homeless), occupazione come un strategia alternativa di abitare (persone che non possono aspettare le liste per l’affidamento di un casa e intraprendono un azione diretta di occupazione), un’occupazione definita di “imprenditorialità” basata sulla volontà di offrire beni e servizi a basso prezzo per la comunità, un’occupazione definita di conservazione, dove gli occupanti si prendono l’onere della cura di edifici dimenticati dalle autorità e un’occupazione politica dove lo squat diventa il centro della protesta e dell’agire sociale.
L’occupazione anche come rivendicazione di un diritto sociale inalienabile come sostiene la dottoressa Kesia Reeve esperta in Housing research nel suo testo “Squatting Since 1945: The enduring relevance of material need” in “Housing and Social Policy” di Peter Somerville e Nigel Sprigings. (Routledge 2005) :
“Nel contesto di circostanze avverse caratterizzato da opportunità abitative limitate e da aspettative di frustrazione, lo squatting rimuove gli ostacoli presenti nei tradizionali canali di consumo nel mercato degli alloggi e i conseguenti rapporti di potere dovuti al possesso di questo bene, bypassando così le normali ’regole’ di fornitura del welfare”.
La mia esperienza e le mie conoscenze sono legate agli squat delle città europee; questi spazi non sono baraccopoli, favelas o case autocostruite in terreni abbandonati della periferia. Anche se tutte le forme di occupazione degli spazi vuoti devono essere considerate come componenti essenziali della storia urbana, e tutti i loro abitanti meritano rispetto e risorse per migliorare le loro condizioni di vita, le sfide e obiettivi che si pongono non sono uguali. Quando parlo di squat, mi riferisco a occupazioni di edifici e di appartamenti vuoti senza il permesso del proprietario.
Ad esempio, per citare un frequente malinteso, se una residenza viene occupata quando i proprietari o locatari sono in vacanza, questo non può essere considerato uno squat, ma un reato. Una casa, una fabbrica, una scuola, uno spazio, pubblico o privato, libero o abbandonato da tempo, sono un prerequisito fondamentale per creare uno squat. Solo a queste condizioni può essere stabilito che il legittimo proprietario non ne ha bisogno nel breve periodo. L’abbandono, il sottoutilizzo o la mancanza di manutenzione di una proprietà possono diventare la causa di danni ad altri residenti o al territorio. Pertanto, in molte situazioni, lo squat diventa un modo per restituire vivibilità e socialità a un’area abbandonata destinata al degrado.
Obiettivi, necessità e impatto sociale possono essere diversi: alloggi ad uso abitativo o spazi destinati ad attività culturali; protezione dei meno abbienti; sostegno economico o per ospitare forme di attivismo politico. È importante sottolineare che non tutti gli squat utilizzano questa etichetta per identificarsi. Nonostante ciò, quando lo squatting si radica in una determinata area urbana è probabile che in parallelo nasca un movimento più ampio che permette a una molteplicità di identità collettive di crescere e di esprimersi con maggiore libertà.
Come sottolineano gli stessi attivisti di “SqEK” (Squatting Europe Kollective), una rete transanzionale di attivisti e ricercatori la cui attività si incentra sullo studio e la riflessione sul movimento delle occupazioni:
“Le occupazioni non sono solo un modo per soddisfare il bisogno di alloggio e per esprimere la mancanza di spazi di socialità, ma sono anche un tentativo di praticare modelli di organizzazione partecipativi non-gerarchici. Le occupazioni spesso offrono un modo alternativo di vedere le relazioni sociali, le pratiche politiche e lo sviluppo di attività collettive come incontri politici, seminari di autoformazione ed eventi contro-culturali al di fuori, e in contrasto con i circuiti commerciali”.
Quando si parla di squat, uno degli errori più comuni è categorizzare in modo omogeneo esperienze estremamente diverse e semplificare queste differenze dividendo gli squat in ‘buoni’ e ’cattivi’.
Se mettiamo da parte la scarsa tolleranza verso le esperienze di squatting politico che si caratterizzano come una pratica critica contro il sistema sistema capitalista, l’atteggiamento sprezzante di fronte ai ‘cattivi’ squat nasce quasi sempre da un pregiudizio ingiustificato: gli squat creano problemi. In realtà il rumore che disturba i vicini o l’aumento dei furti nelle case – due delle preoccupazioni più comuni – accadono ovunque, mentre quasi mai sono a causati della presenza degli occupanti abusivi. Al contrario, le attività degli squatter testimoniano un grande sforzo nel prendersi cura dei luoghi occupati, nel promuovere pratiche comuni di vita e nel condividere idee, cultura, esperienze con gli abitanti dei quartieri circostanti. Ma per l’ideologia dominante gli squatter sono solo degli abusivi a cui non è stato concesso il diritto legale di utilizzare uno spazio pubblico o privato che sia.
Le attività o le rivendicazioni degli squat europei riescono ad avere una copertura mediatica quasi esclusivamente quando s’infiammano le proteste per le gli sfratti o per le minacce di sfatto. Questo è il caso delle manifestazioni tenutesi ad Amburgo in sostegno di “Rote Flora”, un ex teatro, occupato nel 1989 e diventato centro culturale. Dopo un anno di manifestazioni e scontri, nel gennaio del 2014 è stata dichiarata una tregua in grado di prolungare l’attività dello squat. Ma ci si chiede perché i media non hanno prestato la stessa attenzione durante i 25 anni di continue mostre, concerti, workshop, conferenze e incontri promossi dal centro sociale attraverso lavoro volontario di centinaia di attivisti e di migliaia di visitatori.
Meno successo ha avuto la difesa di un altro squat, il “Kukutza Gaztetxea” di Bilbao, sfrattato nel 2011 dopo una travolgente ondata di mobilitazione e di sostegno proveniente da tutte le componenti sociali: associazioni di quartiere, professori universitari, architetti, avvocati, partiti politici, artisti. Il “Kukutza Gaztetxea” non era uno squat rivolto a giovani radicali (come lo stereotipo diffuso sugli squatter può far pensare) ma un luogo aperto a tutti coloro che volevano praticare sport, imparare le lingue straniere, avviare imprese cooperative, realizzare laboratori e mostre d’arte, organizzare incontri, dedicarsi al volontariato e impegnarsi in campagne politiche.
A Parigi, gli squat sono soprattutto legati alla produzione artistica e a questo fine vengono concesse alcune condizioni di governance favorevoli, come ottenere lo status giuridico e anche l’accesso a fondi pubblici. Un esempio di squat occupato da artisti è il “59 Rivoli”, attivo dal 1999 è ubicato nel cuore del centro commerciale della città. Il “59 Rivoli” non è l’unico esempio parigino di autogestione in cui si produce cultura, ma alcuni particolari contraddistinguono questa esperienza da altre occupazioni o da altri after-squat, così chiamati perché “assegnati” dal municipio. Innanzi tutto molti altri squat di Parigi sono situati in periferia, poi non si basano su continui rapporti di ospitalità e scambi e non espongono lavori di artisti esterni allo squat, come accade invece nella galleria di “59 Rivoli”. Ancora, tra le differenze, bisogna dire che in questi luoghi, come ad esempio “Les Frigos” vigono altri tipi di gestione, essendo per lo più luoghi privati in cui abitano gli stessi artisti, con l’aggiunta di alcuni spazi dedicati ad “ateliers popolari” concessi in affitto a prezzi accessibili. Tuttavia, anche in Francia, quando gli squat “legalizzati” vengono occupati per viverci, da migranti, senzatetto e giovani senza reddito, la lotta per ottenere un’abitazione viene duramente ostacolata dalle istituzioni.
Ancora una volta, il problema prioritario per le amministrazioni locali sembra essere quello di perseguire chi occupa un alloggio per necessità, anche quando nelle città ci sono molti appartamenti vuoti e una grande scarsità di alloggi sociali. Ma una prova che lo squatting è più vicino alla legittimità (il diritto a un alloggio decente) che alla legalità (il divieto di occupare una proprietà privata) è che in città come Berlino, Amsterdam, Londra, New York e Roma, è possibile negoziare la legalizzazione di molte degli squat.
In Europa si contano edifici occupati quasi ovunque: Germania, Inghilterra, Francia; Danimarca, Olanda. Italia, Spagna. Proprio in Spagna, come conseguenza della bolla immobiliare scoppiata nel 2008, è nato un esperimento di occupazione degno di nota. In una delle regioni spagnole più povere, l’Andalusia, si può usufruire di una casa di 90 mq con terrazza per soli 15 euro al mese. A Marinaleda l’unica condizione per usufruire di queste agevolazioni è partecipare alla costruzione della casa. In questa piccola cittadina-comunità, dove la disoccupazione giovanile raggiunge lo 0%, uno dei primi obiettivi è quello di assicurare una casa per ogni famiglia. Misura che, secondo il sindaco Juan Manuel Sánchez Gordillo, “assicura un diritto fondamentale ed evita la speculazione finanziaria sulle case vuote e senza vita”.
Una lotta, quella degli squatter, che si propaga anche attraverso la rete. Planet.squat.net è la piattaforma internazionale dove è possibile capire quanto questa rivendicazioni di diritti sulla casa siano diffuse. Tradotto in 15 lingue (tra cui arabo, russo, italiano) il sito propone news, forum, libri tutti incentrati sul tema dell’occupazione.
Per chi fosse interessato a conoscere la storia di altri squat europei, consiglio di leggere due libri prodotti da SqEK – Squatting Europe Kollective: libro collettivo “Squatting in Europe: Radical Spaces, Urban Struggles” (.c0mp0siti0ns. di Autonomedia 2013) e “The Squatters’ Movement in Europe: Commons and Autonomy as Alternatives to Capitalism” (PlutoPress 2014).
Una cosa è certa, le autorità preferiscono legalizzare gli squat che fungono da base a “imprese creative” (come nel caso dello squat “59 Rivoli” a Parigi) o creare progetti istituzionali di supporto per dare una destinazione ai progetti culturali e creativi – come il caso del programma della città di Amsterdam “Breeding Place” (Spazi Fertili), o come il progetto del Comune di Milano, “Officine Creative Ansaldo” (OCA), o ancora come le iniziative Anti-Squat (Anti-Kraak), di agenzie di sicurezza tipo la Camelot che cedono, con forti limitazioni (no animali, no bambini, no feste, divieto di fumare, ecc.) in uso temporaneo edifici non utilizzati (ex-scuole, edifici in rovina in attesa di demolizione e spazi vuoti) a giovani, studenti, artisti, single e così via con la formula “guardiani residenti”.
Carefree vacant property from Abel Heijkamp on Vimeo.
È evidente che le autorità sono anche più inclini a tollerare o sovvenzionare la continuità di questo tipo di progetti, perché queste ‘occupazioni’ sono percepite come punti di riferimento della città per la cosiddetta classe creativa. Sono squat che fungono da polo di attrazione per i turisti. Tuttavia, si dimentica che la classe creativa a basso reddito e i precari hanno bisogno di un luogo stabile non solo per lavorarci ma in cui vivere. Come conseguenza di ciò, la questione abitativa è spesso ignorata. Ed è anche fuorviante pensare agli squat come a una soluzione temporanea, dato che molti dei casi casi che ho citato prima sono stati in grado di diventare un punto di riferimento per gli abitanti, per gli attivisti e per la città per oltre un decennio.
Sul rapporto tra creatività, alloggi a prezzi accessibili, occupazioni e città, il ricercatore, film-maker Tino Buchholz, riprendendo il lavoro di Richard Florida, di David Emanuel Andersson, e Jamie Peck, ha realizzato il documentario: “Creativity And The Capitalist City. The Struggle for affordable Space in Amsterdam”.
Ambientato ad Amsterdam, il film analizza l’importanza del diritto alla casa a prezzi accessibili per tutti i membri della società in una città che negli ultimi anni ha affrontato problemi di occupazione abusiva.
Il documentario di Buchholz va però oltre l’analisi dei problemi locali perché cerca di esplorare l’attuale modello di sviluppo urbano nelle città plasmate dal capitalismo. Un contesto in cui il diritto di possedere e abitare sta mutando, aggiungendo al ‘valore di proprietà’ anche il ‘valore di occupazione’.
Creativity And The Capitalist City [Italian] from creativecapitalistcity on Vimeo.
In un intervento sulla rivista “Lo sQaderno” (Retoriche Urbane, numero 25), “The struggle for creativity. Creativity as struggle” (“La lotta per la creatività: la creatività viene lotta”), Buchholz, scrive:
“Gli ultimi 10 anni, tuttavia, hanno mostrato un’affermazione della logica fai-da-te degli squatter sempre più articolata nel linguaggio dell’industria creativa. In questo contesto gli squatter non rappresentano necessariamente una minaccia, ma una risorsa per l’economia politica. Anche se scelgono un percorso deviante, gli squatter difficilmente possono abbandonare il sistema economico e sono capaci di creare prodotti e mercati alternativi. Non di rado, i movimenti urbani svolgono un ruolo cruciale – come pionieri – nei processi di riqualificazione e di gentrificazione”.
Si può non essere d’accordo con il modo in cui alcuni squatter gestiscono gli spazi occupati. La stessa cosa può valere con le azioni di qualunque movimento sociale. Prendiamo, ad esempio, una questione ambientale o una contesa politica – talvolta le azioni degli attivisti hanno un orientamento così monotematico che si potrebbe pensare che non affrontano la fonte principale dei problemi che sollevano. Per quanto riguarda gli squatter, i loro problemi economici, l’impegno con gli studi (se iscritti all’università), o semplicemente il loro stile di vita underground può essere causa di un basso livello di attività, di vitalità sociale e culturale rispetto alle aspettative standard di coloro che pensano la città come una intoccabile macchina destinata a produrre una crescita infinita. Quando si parla di squat spesso si ci si trova di fronte ad un quadro pieno di pregiudizi che impedisce un’attenta valutazione del contesto specifico in cui si sviluppa ogni squat. La posizione centrale o periferica dello squat, i processi di speculazione e di gentrificatione, il rapporto più o meno conflittuale tra gli squatter e le autorità, possono determinare l’efficacia e il tipo di risultati che vengono ottenuti. In realtà, questi utopici, eterotòpici spazi urbani apparentemente liberi, sono in realtà vincolati da poteri spesso non sempre tangibili.
In conclusione, preferisco sottolineare le singolarità e le qualità a volte straordinarie della maggior parte degli squat.
In primo luogo gli squat esprimono una forma di autonomia e d’indipendenza, cittadini attivi dedicano gran parte della loro vita nello studiare e nel mettere in pratica soluzioni autonome, a basso costo per cercare di supplire alla carenza di servizi della città o all’assenza di politiche sociali per la popolazione meno abbiente, ad esempio: la carenza di alloggi, i canone di locazione costosi, la macchina burocratica che scoraggia qualsiasi proposta che parta dai cittadini o la corruzione politica sullo sfondo delle trasformazioni urbane.
In secondo luogo gli squatter cambiano nel tempo ma gli squat rimangono, sono come una sorta di “ente anomalo”, né privato, né di proprietà dello Stato, ma appartenente ai “beni comuni” della cittadinanza.
In terzo luogo, poiché la maggior parte degli squat ha un carattere non commerciale, viene data la possibilità di accedere a chiunque lo desideri alle attività, ai servizi e ai locali. Gli squat sono una risorsa per coloro che sono esclusi dai circuiti tradizionali, offrono un contributo fondamentale per promuovere la giustizia sociale, l’uguaglianza e la democrazia locale.
In quarto luogo, l’occupazione degli edifici non è una pratica isolata, ma è un intervento collettivo nel vivo del tessuto urbano, un’azione concreta che evita l’ulteriore deterioramento e la decomposizione delle aree urbane attraverso il recupero delle aree verdi, delle zone industriali abbandonate, dei luoghi che Gilles Clément chiama “Terzo paesaggio” e, non da ultimo, è un impegno concreto nella costruzione di reti sociali e nella rivitalizzazione della vita di strada, tutte cose che offrono vantaggi tangibili e benefici sociali certi ma difficilmente misurabili attraverso le statistiche ufficiali.
C’è una lunga tradizione di leggi che in seguito ad un certo numero di anni di occupazione, riconosce alcuni, talvolta elementari, diritti agli abitanti di proprietà abbandonate. Tuttavia, anche se negli ultimi anni, la politica neoliberista si è impegnata nello smantellare ogni forma di tutela, una cosa è certa, lo squatting rende espliciti i profondi conflitti sociali presenti nel territorio, ed è evidente che offre un contributo attivo alla vita sociale della città. Per queste ragioni, invece di sopprimere gli squat, sarebbe meglio dare loro una mano legittimando i loro punti di forza.
Articoli.
“The New American Dream“, Richard Florida.
“The Rise of the Creative Class“, Richard Florida.
“Recreative City: Amsterdam, Vehicular Ideas and the Adaptive Spaces of Creativity Policy“, Jamie Peck.
“Squatting in Europe“, Hans Pruijt.
“The Struggle for Social Autonomy: Squatting in Europe“, Miguel Angel Martinez.
“Squatting: a homelessness issue. An evidence review”, Kesia Reeve (Centre for Regional Economic and Social Research, Sheffield Hallam University 2011). Documento in pdf.
“Lo squat dalla A alla Z” (traduzione del manuale francese).
Libri.
“The Squatters’ Movement in Europe: Everyday Commons and Autonomy As Alternatives to Capitalism” (Pluto Press 2014).
“Squatting in Europe: Radical Spaces, Urban Struggles” (Minor Compositions 2013).
“The City Is Ours: Squatting and Autonomous Movements in Europe from the 1970s to the Present“, Pm Press 2014.
“Reclaim Your City: Urbane Protestbewegungen am Beispiel Berlins“, Tobias Morawski (Assoziation a 2014).
“Handbook of Creative Cities“, Patrick Adler e David F. Batten (Edward Elgar Publishing 2012).
“L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni“, Richard Florida (Mondadori 2003).
“La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde“, Richard Florida (Mondadori 2006).
Video.
Squatting Europe Collective, Convene at Living TheaTheater, NYC, 2012. (YouTube): parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5.
“The hidden world of shadow cities”, Robert Neuwirth. (TED 2005).
“Creativity and the Capitalist City“, Tino Bucholz.
Siti internet.
SqEK – Squatting Europe Kollective.
Anarchopedia, voce ‘squat‘.
How to squat! Many manuals for smooth and silent squatting.
[squat!net].
Reclaim Your City.
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