Dalle cucine di quartiere all’Ortoalto. Alle Fonderie Ozanam il cibo è lavoro, inclusione e comunità.

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Fotografie: Nderim KACELI, Fonderie Onazam

Questo post si inserisce in un percorso di indagine sui modelli inclusivi di lavoro e sul loro impatto sociale. Dopo aver raccontato la storia della Ciclofficina Sociale di Cormano, la falegnameria sociale K-Alma a Roma, gli spazi di co-produzione e mutualismo di Bricheco e Stecca 3.0 a Milano, e il bar sociale Il Girevole un locale aperto ai senza dimora promosso dai Gesuiti nel centro di Milano, proseguiamo l’esplorazione di spazi in cui il lavoro si fa strumento di emancipazione, cura e costruzione di comunità.

Il blog continuerà nei prossimi mesi a documentare esperienze virtuose attraverso interviste, narrazioni e analisi di pratiche capaci di generare valore sociale, economico e relazionale. Lo faremo all’interno della sezione Commoning, uno spazio in cui raccogliamo storie, visioni e prospettive da chi ogni giorno costruisce – spesso in silenzio – una nuova forma di economia fondata sulla reciprocità, sulla partecipazione e sulla responsabilità condivisa.

La forza del commoning sta proprio in questo: nella capacità di costruire reti tra pubblico e privato, tra imprese e istituzioni, tra famiglie e territori. È una visione in cui la comunità trasforma il lavoro in un bene comune, generando impatto sociale e valore condiviso.

In questa prospettiva si inserisce l’esperienza delle Fonderie Ozanam a Torino, nel cuore del quartiere Borgo Vittoria, dove un’ex fonderia dismessa è diventata, in oltre trent’anni di attività, un luogo in cui si intrecciano formazione professionale, ristorazione sociale, agricoltura urbana e inclusione lavorativa. Abbiamo incontrato Loris Passarella, presidente della cooperativa, per un’intervista a tutto campo: dalla nascita del progetto alla sua evoluzione, dalle difficoltà economiche alla costruzione di una rete territoriale, fino all’apertura verso possibili collaborazioni internazionali e nuovi modelli condivisi di innovazione sociale.

La nascita e l’evoluzione del progetto.

Mario Flavio Benini. Nel corso della vostra storia, le Fonderie Ozanam hanno attraversato diverse trasformazioni, passando da un focus sulla formazione professionale a una realtà più strutturata che integra ristorazione, inclusione lavorativa e innovazione sociale. Quali sono stati i momenti chiave di questa evoluzione? Quali sfide avete affrontato e superato lungo il cammino? C’è stato un punto di svolta che ha particolarmente definito l’identità attuale del progetto?

Loris Passarella. La nostra cooperativa sociale è nata nel 1988 dall’idea di quattro professori di scuola media che insegnavano nella periferia nord-ovest di Torino, nella Circoscrizione 5, che comprende i quartieri Borgo Vittoria, Madonna di Campagna, Lucento e Vallette. All’epoca, la dispersione scolastica era un problema significativo, con molti ragazzi che non completavano nemmeno le scuole medie.

In questa zona esistevano laboratori pre-professionali finanziati dalla circoscrizione, che offrivano corsi pratici per insegnare mestieri come la riparazione di cicli e motocicli, la produzione video, la parrucchieria, la sartoria, la falegnameria e la ristorazione. I quattro professori fondarono la cooperativa proprio per avviare un corso di ristorazione rivolto a questi ragazzi. Nel 1990, dopo aver studiato all’istituto alberghiero e svolto il servizio civile come obiettore di coscienza, cercavo un’opportunità che combinasse la mia passione per la cucina con l’impegno sociale. Mi parlarono di questa cooperativa e feci un colloquio. Dopo tre mesi mi richiamarono dicendo che ero piaciuto e che potevo iniziare. Così è cominciata la mia avventura con le Fonderie Ozanam.
Iniziai insegnando cucina nei corsi di ristorazione destinati ai cosiddetti “minori a rischio di devianza”, ragazzi provenienti da famiglie difficili o da situazioni complesse. L’obiettivo era insegnare loro un mestiere o reinserirli nel percorso scolastico, magari indirizzandoli verso l’istituto alberghiero.
Mi resi presto conto che non volevo che la formazione fosse troppo distante dalla realtà lavorativa. Il mondo della ristorazione è duro, e affrontarlo senza una preparazione pratica adeguata può essere complicato. Così iniziammo a organizzare piccoli servizi di catering.

Il primo momento critico arrivò nel 1994, quando venne meno il finanziamento della circoscrizione per i corsi. La cooperativa rischiava di chiudere, ma io credevo nel progetto. Così assunsi la presidenza e decisi di portarlo avanti. Da quel momento puntammo a sviluppare attività economiche che sostenessero la cooperativa, ampliando il catering e organizzando matrimoni ed eventi. Arrivammo a gestire due o tre matrimoni nello stesso giorno. Era impegnativo, ma ci divertivamo. Eravamo tutti giovani, lavoravamo 16-17 ore di fila, caricavamo i furgoni e andavamo a gestire eventi nelle ville, dentro e fuori Torino. Era un’avventura.
Quei ragazzi avevano un’energia incredibile. Magari erano gli stessi che per strada si mettevano nei guai, ma quando riuscivamo a canalizzare quell’energia nel lavoro, diventavano i migliori. Tra noi si sono create amicizie solide, che durano ancora oggi.
Per esempio, l’attuale vicepresidente della cooperativa, Domenico, ha iniziato con noi a 14 anni, frequentando i nostri corsi.
Ci siamo sempre chiesti: perché limitarci ai corsi? Perché non creare noi stessi opportunità di lavoro per questi ragazzi? Così sono nate iniziative come la vendita di panini nelle scuole e allo stadio, la gestione di una casa alpina e di un bar.
Sono attività che rispondevano a più esigenze: mantenere in piedi la cooperativa, far sperimentare ai ragazzi cosa significa lavorare realmente e, in alcuni casi, offrire loro un impiego stabile all’interno della nostra realtà.

Questa modalità di “imparare facendo” — che oggi si è diffusa nel terzo settore e viene chiamata “learning by doing” — è diventata la nostra cifra distintiva.

Le fonti di ispirazione e il confronto con altri modelli.

Mario Flavio Benini. Negli anni sono nate molte esperienze di ristorazione sociale, in Italia e all’estero, con modelli diversi che rispondono ai bisogni delle comunità locali. Alcune si concentrano sulla formazione professionale di persone fragili, altre sull’inclusione lavorativa, altre ancora su formule innovative come il “paga quanto puoi” o su un forte legame con le istituzioni dei territori in cui operano.
Guardando alla vostra storia, ci sono state realtà o modelli — italiani o internazionali — che vi hanno ispirato o da cui avete preso spunto? In cosa vi riconoscete e cosa invece pensi vi differenzi nel vostro approccio?

Loris Passarella. Non abbiamo avuto un modello preciso, un esempio da seguire. Quello che ci ha sempre guidati è stata la capacità — e forse il merito — di saper leggere il bisogno che avevamo davanti e chiederci: “Come possiamo dare una risposta concreta a questo bisogno?”.

La nostra vera ispirazione è sempre stata una domanda semplice: “Come faccio ad aiutare un ragazzo con un passato difficile a reggere l’impatto con il mondo del lavoro?”. Perché sappiamo com’è la ristorazione: è un ambiente duro, dove rischi di non reggere nemmeno una settimana.
E allora abbiamo costruito un percorso nostro: il ragazzo partecipa al corso di cucina, impara la tecnica, ma contemporaneamente si misura con il lavoro vero. Durante la lezione, a turno, i ragazzi vanno in sala o in cucina e servono ai clienti insieme all’equipe del ristorante. In questo modo si confrontano subito con l’ambiente lavorativo.
E mentre lavorano, glielo spieghiamo: “Guarda che adesso sei ancora nel paradiso, perché là fuori troverai gente che ti urla dietro, ma non devi prenderla sul personale. Devi stare concentrato sul tuo lavoro”. È questo il cuore del nostro metodo: insegnare a stare nel lavoro, non solo a saperlo fare.

A Torino, quando siamo partiti, eravamo praticamente i primi a fare una cosa del genere.
Ti faccio un esempio che mi è rimasto impresso: anni fa una ragazza, una nostra allieva, andò a fare la stagione a Rimini. Una notte mi chiama disperata: “Io scappo, non ce la faccio più. Questi litigano, si urlano dietro, mi danno la colpa di tutto…” Io ero già a letto, ma le dissi: Tieni duro. Se riesci a portare a casa questa stagione, quando torni hai vinto. Se molli adesso, rischi di portarti dietro il fallimento”. E ce l’ha fatta.
Per noi l’impegno non finisce con il corso. Se un ragazzo perde il lavoro, ci chiama, torna da noi e lo aiutiamo a rimettersi in piedi. Abbiamo costruito una rete di ristoratori che ci conoscono e si fidano: siamo un punto di riferimento. Con i ragazzi si crea un legame che continua oltre la formazione.

Adesso ci piacerebbe far conoscere questo nostro modo di lavorare anche fuori dall’Italia, perché funziona. L’ultimo progetto in ordine di tempo è stato Youth and Food — con capofila slowfood.it — ed è durato tre anni e mezzo. Abbiamo seguito 34 minori stranieri non accompagnati. Di questi, 21 oggi lavorano con un contratto regolare. È un risultato enorme.
Da questo percorso sta nascendo una startup: due di questi ragazzi, arrivati da minori e oggi maggiorenni, apriranno una bottega insieme a un cuoco balcanico. Uno venderà frutta e verdura, l’altro gastronomia balcanica. Un progetto che, se regge, è una bomba.
E poi siamo sempre curiosi. Ti faccio un esempio: anni fa leggevo degli orti sui tetti dei grattacieli a New York e pensavo: Perché non possiamo farlo anche noi?”. Alla fine abbiamo conosciuto l’associazione ortialti.it — che aveva vinto un premio all’Expo di Milano — e abbiamo realizzato l’orto e messo le api sul nostro tetto. Oggi produciamo il nostro miele.

Le attività svolte e a chi sono dirette.

Mario Flavio Benini. Le Fonderie Ozanam hanno sviluppato un modello che va oltre la semplice ristorazione, creando uno spazio che coniuga formazione, lavoro e inclusione sociale. Il ristorante non è solo un luogo dove si servono pasti, ma un ambiente di apprendimento e crescita per chi ci lavora. I percorsi formativi non solo trasmettono competenze professionali, ma offrono anche reali opportunità di inserimento lavorativo, rivolgendosi a giovani in difficoltà, migranti, persone senza fissa dimora e altri soggetti fragili.
Quali sono oggi le principali attività che svolgete? A chi si rivolge il vostro progetto e come accompagnate le persone nei vostri percorsi di inclusione? Avete in programma di ampliare o diversificare ulteriormente le vostre attività? 

Loris Passarella. Oggi abbiamo diverse attività che vanno tutte nella stessa direzione: creare lavoro e opportunità per chi fa più fatica.
Gestiamo due locali: il ristorante Le Fonderie Ozanam, che è anche il cuore della formazione — dove lavorano due ragazzi con disabilità — e il bar bistrot Qui da Noi, dove lavorano quattro ragazzi con disabilità.

Poi c’è il catering, che negli anni è cresciuto molto. Ha sofferto durante la pandemia, ma ora si sta riprendendo.

Un’altra attività importante è quella legata alla trasformazione alimentare, un progetto realizzato con ecodallecitta.it, un’associazione che raccoglie l’invenduto dai mercati generali. Ogni settimana ci portano frutta e verdura che noi lavoriamo: produciamo vasetti, caponate, antipasti piemontesi, confetture. Li vendiamo nei nostri due locali, e l’idea è far crescere questa attività perché crea lavoro adatto anche a persone con poca esperienza o con disabilità leggere.
Stiamo facendo lo stesso anche con la pasticceria e i biscotti. E tutto si tiene insieme grazie alla formazione.
Oggi la formazione si realizza attraverso progetti dedicati a target specifici: donne straniere sole con figli, minori stranieri non accompagnati, ragazzi con disabilità. Sono i percorsi che ci stanno più a cuore.

Come arrivano a noi? In questi anni abbiamo costruito una rete solida. Sono i servizi sociali, il Comune di Torino, le comunità per minori, i centri di accoglienza e altre associazioni del terzo settore che ci conoscono e ci segnalano le persone. Non guardiamo solo alla preparazione, ma soprattutto alla voglia di mettersi in gioco. Se uno è motivato, lo formiamo noi.
Negli anni abbiamo anche selezionato i locali con cui lavoriamo. Vogliamo mandare i ragazzi in luoghi dove si impara davvero il mestiere, dove la formazione continua anche sul posto di lavoro. E se poi non riescono ad assumerli, almeno escono da lì formati per trovare un’altra occasione.
Questo è il nostro lavoro: rete, fiducia reciproca e cura delle relazioni. Queste sono le cose che fanno davvero la differenza.

Il modello economico.

Mario Flavio Benini. Uno degli aspetti più complessi per un’impresa sociale è costruire un modello economico sostenibile senza snaturare la propria missione. Le Fonderie Ozanam hanno sempre cercato un equilibrio tra l’attività commerciale e l’inclusione lavorativa, garantendo qualità nei servizi e opportunità concrete per persone in difficoltà.
In Italia, la rete dei dei ristoranti cooperativi dell’Emilia-Romagna dimostra come il mutualismo e la gestione cooperativa possano sostenere economicamente progetti di questo tipo. All’estero, esperienze come la JBJ Soul Kitchen propongono modelli innovativi basati sul “paga quanto puoi” o sull’impegno volontario.
Qual è il modello economico delle Fonderie Ozanam? Come bilanciate il lavoro nella ristorazione con la missione sociale? Quali sono le vostre principali fonti di finanziamento e che rapporto c’è tra le entrate commerciali e i contributi pubblici o privati? Quali strategie adottate per garantire la sostenibilità nel tempo?

Loris Passarella. Questo è certamente il tema più complesso. Noi siamo una cooperativa sociale di tipo B, quindi stiamo sul mercato in piena regola. Siamo in concorrenza con qualsiasi ristorante o servizio catering, anche se abbiamo una missione sociale.
Se la ristorazione va bene, riusciamo a pagare stipendi, bollette, fornitori… ma la verità è che abbiamo anche costi aggiuntivi che una normale attività non ha: il progettista, la segreteria che fa rendicontazione per i bandi… tutta una struttura che serve a far funzionare anche la parte sociale.
Per questo i bandi per noi sono fondamentali. Non solo perché nasciamo con la formazione, e senza quella il progetto non avrebbe senso, ma anche perché economicamente ci permettono di coprire spese che con la sola ristorazione non riusciremmo a sostenere. Quando perdi un bando, o la ristorazione non va bene rischi di andare sotto.

E oggi il mercato è cambiato: non è più quello degli anni ’70-’80. Oggi, se non lavori bene tutti i giorni, fai fatica a stare in piedi. Poi la pandemia ci ha dato una botta tremenda.
In ogni caso siamo in uno spazio bellissimo, di proprietà comunale, che abbiamo completamente riqualificato. Abbiamo investito tantissimo su un bene che non è nostro, e che oggi il Comune si ritrova sistemato. E questo è un ragionamento che dovremmo aprire anche con le istituzioni: il valore che una cooperativa come la nostra crea sul territorio è enorme. Rimettiamo in piedi un luogo, non solo ridipingendo due muri, ma trasformandolo, rendendolo bello e accogliente.

Quando siamo partiti, negli anni 2000, la nostra intenzione era proprio questa: creare un luogo bello, in cui le persone vengano non solo perché siamo “sociali” o facciamo “tenerezza”, ma perché si mangia bene, si sta bene. Solo dopo, magari, scoprono che dietro c’è anche un progetto sociale. E questa è ancora la nostra linea. Va anche detto che i ragazzi che lavorano qui, se non ci fossimo noi, sarebbero a carico dei servizi sociali o dello StatoQuanto risparmia la collettività grazie a quello che facciamo?
Ecco il punto reale: manca un riconoscimento concreto dell’impatto sociale ed economico che realtà come la nostra generano sul territorio. Ed è proprio su questo che bisognerebbe iniziare a ragionare seriamente per il futuro.

Il rapporto con il privato e la ricerca di nuove alleanze.

Mario Flavio Benini. Una cosa che mi colpisce è come, da un lato, sia evidente la miopia del pubblico nel non cogliere il valore sociale e l’impatto di lungo periodo di progetti come il vostro. Dall’altro, anche il privato si sta muovendo sempre di più su questi fronti — magari per questioni di immagine o woke washing — ma di fatto molte aziende oggi hanno una loro fondazione o avviano progettualità sociali legandosi al terzo settore.
Voi avete rapporti con il privato o con grandi aziende? Avete mai ragionato su partnership strutturate, che vadano oltre la singola commessa o il progetto a termine? E secondo te quali sono le possibilità e i limiti di questo tipo di relazioni?

Loris Passarella. Con il privato vero — inteso come imprese e imprenditori — facciamo ancora un po’ fatica. Invece, con le fondazioni il rapporto c’è e funziona: Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, la Fondazione dell’Unione Buddhista Italiana e l’impresa sociale Con i Bambini () ci hanno sostenuto in diversi progetti, anche a livello nazionale. Di recente è iniziata anche una collaborazione con la Fondazione San Zeno.
Ma, come spesso accade, finito il progetto, finisce anche il finanziamento.

Quello che ci manca è costruire relazioni strutturate con le imprese, creare cioè un rapporto che non si limiti alla singola commessa o alla partecipazione a un bando, ma che si trasformi in sostegno continuativo e partnership reale.

Un piccolo esempio positivo c’è stato con Lavazza. Lavoriamo con loro da anni, ci forniscono il caffè. A un certo punto abbiamo avuto modo di raccontare meglio la nostra realtà, e da lì è nata una collaborazione più ampia: abbiamo realizzato alcuni catering nella Nuvola Lavazza e, tramite la Fondazione Lavazza, ci hanno anche supportato su un progetto sociale.

È proprio questo il modello a cui vorrei arrivare: un rapporto in cui l’impresa non si limita a comprare un servizio, ma sposa il progetto, lo sostiene, ci investe, lo sente parte del proprio impatto sociale. Anche perché oggi le grandi aziende spesso hanno budget specifici dedicati alla responsabilità sociale, ma non sempre trovano partner con cui costruire percorsi credibili e condivisi.
Ecco, questo è il fronte su cui noi siamo più carenti. Ci manca ancora la capacità — ma anche il tempo, le competenze comunicative e le risorse — per attivare questo tipo di relazioni più profonde e strategiche.

La rete di riferimento: collaborazioni e legami istituzionali.

Mario Flavio Benini. Le imprese sociali come le Fonderie Ozanam operano all’interno di un ecosistema fatto di reti, collaborazioni e relazioni con enti pubblici, aziende, organizzazioni del terzo settore e realtà simili. Spesso, la capacità di costruire sinergie solide è ciò che permette a progetti come il vostro di reggere nel tempo e svilupparsi.
In molte esperienze — penso a É Um Restaurante a Lisbona, o in Italia a realtà come MagazziniOz di Torino o alla rete dei ristoranti cooperativi dell’Emilia-Romagna — la collaborazione con reti territoriali e istituzioni è un valore aggiunto.
Voi con chi collaborate attivamente oggi? Quali sono i vostri rapporti con enti pubblici, istituzioni locali, organizzazioni del terzo settore? E quali sono, secondo te, i vantaggi e le difficoltà di queste collaborazioni?

Loris Passarella. Il tema delle reti è fondamentale, anche se — su questo fronte — potremmo sicuramente fare di più.
Partendo dal rapporto con il pubblico, quello con il Comune di Torino è storico, legato alla nostra nascita e a tutta la nostra storia. Ma oggi uno dei legami più interessanti, e che sta crescendo in modo molto positivo, è quello con il Centro per l’Impiego. A Torino si sta sviluppando una sensibilità sempre maggiore su questi temi: conoscono la nostra realtà, sanno chi sono i ragazzi che formiamo e ci agevolano nelle pratiche per i tirocini, ma anche nella risoluzione di problemi burocratici — penso a permessi di soggiorno o codici fiscali che spesso mancano o arrivano in ritardo.

Poi ci sono le collaborazioni con enti di formazione. Spesso sono loro ad avere accesso ai finanziamenti per i tirocini, e ci coinvolgono. Noi ci occupiamo della formazione, e loro — attraverso i fondi del progetto — coprono i primi mesi di tirocinio. È un passaggio fondamentale, perché permette ai ristoratori di conoscere davvero il ragazzo, formarlo e capire se può essere inserito. Altrimenti, in molti casi, non si assumerebbero rischi.

Collaboriamo anche con diverse associazioni del terzo settore che si occupano di accoglienza, in particolare con quelle che lavorano con minori stranieri non accompagnati. Loro gestiscono la parte abitativa, mentre a noi chiedono di occuparci della formazione e dell’inserimento lavorativo.

Un esempio molto bello è la collaborazione con la Portineria di Comunità: abbiamo affiancato l’apertura di alcune portinerie a Torino occupandoci della parte ristorativa e inserendo alcuni dei ragazzi provenienti dai nostri percorsi.
Lo stesso vale per il progetto del bar interno all’Istituto alberghiero Beccari: è nato grazie a un gruppo di insegnanti di sostegno della scuola e l’abbiamo gestito insieme a studenti con disabilità. È stato un progetto di grande affiatamento e collaborazione. In un momento per noi molto complesso — in cui stavamo gestendo tre locali — ci siamo dovuti un po’ fermare, ma ora che uno dei locali è chiuso per lavori legati al PNRR, stiamo ragionando su come riattivarci insieme.

Abbiamo anche contatti con la Case di Quartiere di Torino e con alcuni Community Hub. In questo caso non si tratta sempre di collaborazioni strutturate, ma di scambi e momenti di confronto. Ci conosciamo tutti — anche perché, lo dico senza presunzione, molte di queste realtà sono nate dopo di noi e spesso ci hanno chiesto consigli o supporto. E noi, ogni volta, abbiamo dato volentieri una mano.
Quello che ci manca — e lo sento molto — è il respiro nazionale e internazionale. A parte il progetto Youth & Food, in cui abbiamo collaborato con alcune realtà di Agrigento, non abbiamo molti contatti fuori Torino.
Mi piacerebbe molto aprirci, conoscere altre esperienze simili in Italia e in Europa, confrontarci, fare rete su scala più ampia.
Perché penso davvero che ci sia tanto da imparare, ma anche tanto da offrire.

La nascita e sperimentazione di nuove progettualità.

Mario Flavio Benini. Una delle cose che colpisce delle Fonderie Ozanam è la capacità di sperimentare e adattarsi ai bisogni della comunità. Nel tempo avete saputo evolvere, integrare nuove attività e ampliare il vostro impatto sociale. Penso, ad esempio, al progetto l’Ortoalto Ozanam, che ha trasformato il tetto della struttura in un orto urbano, coniugando agricoltura sostenibile e inclusione sociale.
Nel mondo delle imprese sociali la capacità di innovare è cruciale. Penso a esperienze come Gustu in Bolivia, che valorizza il territorio e i prodotti locali attraverso la ristorazione, o a Cuisines de Quartier n Belgio, che sperimenta modelli di cucina collettiva per rafforzare la comunità.
Come nascono e si sviluppano le nuove progettualità dentro le Fonderie Ozanam? Quali criteri seguite per capire se un’idea può diventare parte integrante delle vostre attività?

Loris Passarella. Il progetto di Ortoalto è nato proprio così, da un incontro fortunato. Un amico comune ci ha messi in contatto con Elena Carmagnani ed Emanuela Saporito, due architette che avevano creato l’associazione Orti Alti. Cercavano un luogo dove sperimentare un primo orto urbano su un tetto abbastanza grande, e quando sono venute qui ci siamo piaciuti subito.
Da lì è nata una collaborazione che dura ancora oggi. L’orto è impegnativo, richiede cura, ma è diventato parte integrante del nostro lavoro: coltiviamo verdure ed erbe aromatiche che usiamo nel ristorante, soprattutto in primavera ed estate.
Ma soprattutto è diventato uno strumento educativo potentissimo. I ragazzi dei nostri corsi vedono come nasce una verdura, la seminano, la raccolgono e poi la lavorano in cucina. E ti assicuro che è una cosa che oggi manca tantissimo: molti pensano che il pomodoro nasca già nella cassetta.
Per me, la cucina è proprio questo: curativa. Abbiamo lavorato tanto anche con la psichiatria — l’ASL ci mandava alcuni utenti — e la trasformazione delle persone quando mettono le mani in pasta è incredibile.

Ti racconto un aneddoto: lavorava da noi un ragazzo, Sabino, seguito dai servizi psichiatrici per una depressione grave. Da giovane faceva il pasticcere. Dopo il corso con noi è entrato nella squadra ed è rinato. Alla festa di inaugurazione qui, la moglie mi si è avvicinata e mi ha detto: “Ho ritrovato Sabino com’era quando l’ho sposato”. Dopo dieci anni. Capisci la potenza di questo lavoro?
Perché succede questo? Perché da noi si parte subito dalla pratica. Il primo giorno di corso ci sediamo insieme, parliamo con i ragazzi, gli spieghiamo quanto è duro questo mestiere — si lavora a Natale, a Capodanno, quando gli altri si divertono — e poi li portiamo in cucina. Gli facciamo vedere come si prepara la crema pasticcera e la besciamella, e subito dopo gliele facciamo rifare. E lì succede la magia: la assaggiano e si rendono conto che è buona, e che l’hanno fatta loro.
Per molti è la prima volta che provano una cosa così: dopo una vita di fallimenti e di “non vali niente”, quel giorno capiscono che sono capaci. Non funziona con tutti, certo, ma quando scatta quella scintilla, hai fatto centro.
E lo stesso vale per l’orto: la natura, la terra, il cibo sono strumenti fantastici per aiutare le persone a rimettersi in piedi.

Lavoriamo anche con le scuole: vengono qui, partecipano a laboratori con Davide, il nostro esperto di api e di orto. Alcune scuole danno un piccolo contributo per fare laboratori veri e propri, altre fanno semplici incontri di conoscenza. Ma in ogni caso è un modo per far passare un messaggio importante: il rispetto per la natura, il valore del lavoro, il senso della trasformazione.
Ecco, per noi questo è il criterio principale quando nasce un progetto nuovo: deve avere un valore educativo e trasformativo.
Se funziona su quel piano, allora vale la pena farlo diventare parte della nostra storia.

La gestione del personale: assunti e volontari.

Mario Flavio Benini. Un aspetto centrale nelle imprese sociali che operano nella ristorazione è la gestione del personale, che deve bilanciare da un lato la qualità del servizio, dall’altro l’inclusione lavorativa di persone fragili. Alcune esperienze puntano tutto sulla formazione, come The Clink Charity nel Regno Unito, altre — come JBJ Soul Kitchen negli Stati Uniti — mescolano lavoro e volontariato, mentre in Italia progetti come Gustop a Milano, mostrano come sia possibile inserire in modo stabile persone con disabilità o fragilità.
Come gestite questo equilibrio alle Fonderie Ozanam? Quante persone lavorano stabilmente e come si combinano lavoratori assunti e volontari? Qual è il percorso di selezione e crescita per chi entra a far parte del vostro progetto?

Loris Passarella. Noi, come cooperativa sociale, abbiamo la possibilità di avere sia soci lavoratori che dipendenti, ma abbiamo scelto di essere tutti soci lavoratori. Chi entra stabilmente in cooperativa lo fa con un contratto nazionale delle cooperative sociali e diventa socio: questo permette di condividere davvero la missione e di partecipare anche alle decisioni. Fa la differenza.
Solo in casi particolari — piccole collaborazioni, lavori brevi — utilizziamo contratti a tempo determinato o partite IVA. Ma la regola è che chi resta, entra davvero a far parte della cooperativa.

Sul fronte del volontariato, invece, abbiamo sempre fatto un po’ fatica a costruire una vera rete. Adesso però stiamo provando a farla nascere, soprattutto attorno all’orto, che richiede molto impegno e cura. Grazie alla Portineria di Comunità, stiamo coinvolgendo alcune persone del quartiere che si stanno proponendo per darci una mano su quella parte.

E questa idea del volontariato si sta allargando anche ad altre forme. Da qualche mese è nata una collaborazione molto interessante con una residenza per studenti che aprirà qui vicino: ospiterà 300 ragazzi e vuole offrire anche a loro un’impronta sociale.
Ci hanno chiesto supporto per avviare la ristorazione e la caffetteria, impostando il locale con il nostro metodo, coinvolgendo anche ragazzi con disabilità.Dato il momento difficile per noi sul piano economico, abbiamo deciso di seguirli come consulenti, accompagnandoli nella fase di avvio.
La cosa interessante è che lì stanno già lavorando sull’idea di un volontariato strutturato: propongono agli studenti di svolgere ore di volontariato in alcune realtà del terzo settore — tra cui la nostra — e in cambio ricevono agevolazioni all’interno della residenza.
Ma sia chiaro: per noi il volontariato non è mai sostitutivo del lavoro. Non vogliamo, e non faremo mai, l’errore di utilizzarlo per coprire ruoli che devono essere retribuiti.

Il rapporto con la città e la comunità locale.

Mario Flavio Benini. Una parte fondamentale della vostra storia è il rapporto costruito nel tempo con il quartiere che vi ospita. Non siete solo un ristorante o un luogo di formazione, ma siete diventati un punto di riferimento per tante persone della zona che si rivolgono a voi anche per bisogni diversi, dai corsi di formazione a momenti di socialità e incontro.
In molte città europee, progetti simili lavorano a stretto contatto con la comunità locale, coinvolgendo i residenti e rafforzando il senso di appartenenza al quartiere. Qual è oggi il rapporto tra le Fonderie Ozanam e il quartiere? Come viene percepito il progetto dalla comunità e quali iniziative portate avanti per rafforzare il dialogo con il territorio?

Loris Passarella. Noi siamo conosciuti molto per la ristorazione e per quello che facciamo nei percorsi di formazione, soprattutto tra le persone che hanno bisogno di quel tipo di servizio. Capita spesso che arrivino mamme o famiglie del quartiere che ci chiedono: “Ma c’è un corso per mio figlio? Sappiamo che qui fate i corsi…”. E questo per me è significativo, perché vuol dire che nel quartiere ci percepiscono anche come un punto di riferimento per chi cerca una possibilità di riscatto o di futuro.

Poi c’è tutto il lavoro che passa attraverso Beeozanam, il Community Hub nato da qualche anno, e che ci ha aiutati a farci conoscere anche da chi magari non ci aveva mai incrociati. Anche grazie a loro stanno nascendo delle relazioni, delle sinergie, e si comincia a costruire un po’ di comunità intorno a questo luogo.
Ovviamente abbiamo rapporti anche con i servizi sociali del quartiere, con altre associazioni della zona. Ci si conosce, si collabora quando ci sono situazioni da affrontare insieme.
Il quartiere di Madonna di Campagna però è un quartiere un po’ difficile, chiuso. È un quartiere dormitorio, dove per anni c’è stata poca vita di comunità, pochi luoghi di aggregazione vera. E quindi non è semplice creare un dialogo stabile, ci vuole tempo. ma piano piano qualcosa si sta muovendo: il Community Hub è nato da tre o quattro anni e sta diventando sempre più un luogo di incontro.Qui, per esempio, ogni due settimane c’è l’incontro della Portineria di Comunità, che serve proprio a fare coprogettazione con i cittadini.
Da questi incontri sono nati progetti concreti: il corso di italiano per stranieri, lo sportello psicologico gratuito una volta a settimana, lo sportello di digitalizzazione, la ginnastica dolce per le signore anziane, corsi di ballo… Insomma, piano piano questo luogo comincia a diventare davvero un punto di riferimento per il quartiere.

Certo, non è tutto semplice. Ti dico la verità: dopo tanti anni che siamo qui — dal 2007 — ancora oggi capita che qualcuno che abita dietro l’angolo ci dica: “Ah, ma qui c’è un ristorante? Ma è aperto al pubblico?”. E ti viene da pensare: “Ma allora non sono stato capace di comunicare, c’è qualcosa che ci sfugge”.
E poi succede la cosa paradossale: ci arrivano scuole dalla Francia o gruppi dall’estero che vengono apposta per vedere l’Ortoalto o conoscere il nostro progetto. E qui dietro casa c’è ancora chi non sa che esistiamo.
C’è ancora tanta strada da fare per essere davvero percepiti come un pezzo di questo quartiere e di questa città.

I progetti futuri.

Mario Flavio Benini. Una delle cose che colpisce del vostro percorso è la capacità di generare sempre nuove idee, di sperimentare e di immaginare sviluppi futuri, spesso anticipando bisogni che emergono dal territorio o dalle persone che incontrate lungo il cammino.
Oggi, guardando al panorama internazionale, molte realtà stanno evolvendo verso nuovi modelli che uniscono inclusione, valorizzazione del territorio e coinvolgimento diretto della comunità.
Guardando al futuro, quali prospettive di sviluppo vedete per le Fonderie Ozanam? Ci sono nuove idee o collaborazioni che vorreste realizzare? E quali sfide e opportunità intravedete nei prossimi anni?

Loris Passarella. Idee ce ne sono, un giorno sì e l’altro pure. A volte forse dovremmo anche rallentare, perché la fatica vera, alla fine, è sempre quella: trovare il tempo e soprattutto le risorse per realizzarle.
Una delle idee a cui teniamo di più è quella della cucina di quartiere. L’abbiamo già sperimentata: qui alle Fonderie abbiamo tre cucine, e una di queste — molto flessibile — viene usata per i corsi, ma è perfetta anche per accogliere attività con il territorio.
Abbiamo già fatto una cena insieme alla Portineria di Beeozanam e a un gruppo di anziani del quartiere: sono venuti, hanno cucinato con noi, hanno scelto i piatti e poi abbiamo mangiato tutti insieme.
È stato un momento bellissimo, che vorremmo ripetere almeno un paio di volte l’anno.
L’idea è anche quella di mettere a disposizione la cucina per chi vuole fare conserve, marmellate, passate… insomma, per chi in casa non ha lo spazio o le attrezzature adatte. Qui potrebbe trovare tutto: pentoloni, piani di lavoro, e magari anche il nostro supporto.

Un’altra idea a cui tengo molto è quella di creare un laboratorio per la smielatura del miele urbano. A Torino ci sono tanti piccoli apicoltori, ma non sanno mai dove smielare. Offrire uno spazio attrezzato per questo sarebbe un servizio utile e coerente con il lavoro che già facciamo sull’orto e con le api.

E poi c’è un progetto che mi piacerebbe moltissimo realizzare: quello dei frigoriferi comunitari. L’idea è semplice ma potente: creare delle celle frigorifere di quartiere dove, a fine serata, i ristoratori possano mettere i piatti avanzati ma ancora buoni, confezionati ed etichettati. Dall’altra parte, le famiglie in difficoltà — con una tesserina — possono accedere e ritirarli.

Certo, il nodo vero è la logistica: chi lo fa questo lavoro? Chi trasporta, chi carica, chi scarica? Non possiamo chiederlo gratuitamente. E allora pensiamo anche a un riconoscimento per chi se ne occupa, magari un piccolo incentivo per un aiuto cuoco, oppure un sistema di premialità etica per i ristoratori.
È un’idea da scrivere bene e finanziare con un progetto solido, ma secondo me ha un potenziale enorme.
Il sogno grande, invece, è quello di avere una cascina. Un luogo dove, oltre all’orto, ci siano anche gli animali. Un posto in cui i ragazzi possano lavorare a contatto con la natura in modo completo. Lo sappiamo, lo fanno già altri, ma ci piacerebbe molto realizzarlo anche noi.
Infine, c’è la dimensione internazionale, che ci interessa sempre di più.
Abbiamo vissuto un’esperienza meravigliosa a Capo Verde, dove siamo andati per aiutare un frate che aveva costruito un ospedale e stava avviando un villaggio turistico solidale. Quell’esperienza ci ha aperto un mondo.
Ci piacerebbe molto continuare a portare il nostro know-how all’estero, formare persone in altri contesti e lasciar loro strumenti concreti per continuare in autonomia. Il laboratorio è aperto, le idee non ci mancano. La sfida è trasformarle in realtà. Ma la voglia di provarci — quella — c’è tutta.

La dimensione internazionale e lo scambio tra realtà.

Mario Flavio Benini. Un aspetto che mi sembra stia emergendo sempre di più dal vostro percorso è la voglia di allargare lo sguardo oltre il quartiere e la città, e di esplorare possibili contaminazioni con altre realtà, anche molto diverse tra loro.
Penso a esperienze come quella di una
Ciclofficina sociale che ho incontrato a Cormano, nata per integrare persone fragili e migranti e che oggi sperimenta modelli di sviluppo all’estero, come la creazione di ciclofficine in Sudafrica, dove la bicicletta diventa uno strumento fondamentale per la sopravvivenza quotidiana.
Mi sembra che anche voi stiate ragionando su come
portare il vostro know-how in altri contesti, magari contribuendo alla nascita di progetti simili o condividendo i vostri processi e metodi.
C’è già qualcosa che state immaginando o costruendo in questa direzione? Quali opportunità vedi per creare
spazi di scambio e contaminazione tra realtà diverse, anche a livello internazionale?

Loris Passarella. Sì, è proprio questa l’idea che ci sta appassionando adesso: riuscire a immaginare i nostri processi, il nostro metodo, applicati altrove.
Capire cosa possiamo portare, che contributo possiamo dare in altri contesti. E non parlo solo di aprire una scuola di cucina, ma di trasferire il nostro approccio, quel learning by doing che qui funziona e che magari può funzionare anche altrove.
L’idea è andare a insegnare, aiutare a far partire progetti dove c’è bisogno di creare opportunità, costruire qualcosa che possa rimanere e crescere nel tempo.
E, allo stesso tempo, tornare da queste esperienze arricchiti, contaminati positivamente.
Stiamo già facendo qualche passo concreto: ad esempio ci siamo iscritti, con il Comune di Torino, ai registri della cooperazione internazionale, per poter iniziare a lavorare anche su quel fronte.

E stiamo cercando di costruire esperienze Erasmus, per confrontarci con altre realtà che lavorano sull’inclusione e sui processi formativi.

Quando abbiamo partecipato a Terra Madre di Slow Food, tutto questo è diventato chiarissimo. Sono state sei giornate pazzesche: è venuta la comunità indigena di Dalhia Wide, hanno cucinato qui con noi, poi i nostri ragazzi hanno rifatto i loro piatti. E ancora, abbiamo organizzato una cena con i ristoratori torinesi, che hanno potuto assaggiare i piatti realizzati dai nostri corsisti. Alla fine c’era quasi una gara per chi si accaparrava i ragazzi migliori, quelli che avevano più talento o più voglia.Ed è proprio questo che vogliamo fare: creare spazi di incontro reale, di scambio profondo, dove il valore sta nell’esperienza condivisa, nel mettersi in gioco insieme, senza filtri né barriere.

Il rapporto con le persone senza fissa dimora.

Mario Flavio Benini. Ti faccio una domanda su un tema complesso e delicato, un tema a cui personalmente tengo molto.
Parliamo del rapporto con le persone senza fissa dimora. È un’utenza con problematiche
multifattoriali, non c’è mai solo la perdita del lavoro o la difficoltà psicologica, ma un insieme di elementi — la rottura dei legami familiari e amicali, la solitudine profonda — che rendono difficile ogni tentativo di reintegrazione nel tessuto sociale.
Voi che vi occupate di inclusione e formazione sapete quanto sia complicato coinvolgere persone così fragili in un percorso lavorativo strutturato. Qual è la tua esperienza su questo fronte? Cosa pensi sia possibile fare?

Loris Passarella. Hai centrato il punto. È una delle categorie più complesse da coinvolgere, soprattutto in un ambito come il nostro, che è quello della ristorazione.
La premessa che hai fatto è fondamentale: quando parliamo di persone senza fissa dimora, parliamo sempre di problematiche che si sommano — non c’è mai un solo nodo da sciogliere. E la ristorazione, con tutte le sue regole e la sua rigidità, rende tutto ancora più complicato.
Io penso che si possa fare, ma solo se ci si muove insieme a chi già lavora con queste persone. Serve una stretta collaborazione con chi conosce bene i loro percorsi, i loro limiti e le loro possibilità.
Perché non è solo questione di “metterli a lavorare” — lo dico sempre — il lavoro non è una medicina che cura tutto.

Quando facciamo selezione, partiamo sempre dalla motivazione.
Ma il problema è che spesso chi vive per strada, chi è rimasto solo, ha perso anche la motivazione, ha tagliato i ponti con tutto e fatica ad aprirsi di nuovo. C’è una chiusura, una solitudine, che è difficile da scalfire.
E poi c’è un altro tema concreto: l’aspetto igienico-sanitario. In cucina ci sono regole precise, lavori con il cibo e devi garantire sicurezza e igiene. Non è un dettaglio: è un altro ostacolo concreto che rende difficile l’inserimento.

Però io sono convinto che, se si costruisce un percorso condiviso, si può fare. Magari non partendo subito con l’obiettivo del lavoro, ma creando spazi di attività comuni, in cui le persone si riabituano a stare insieme, a ricostruire legami, a riscoprire il senso dello stare in gruppo.
Un po’ come abbiamo fatto tante volte con la psichiatria: l’obiettivo non era l’assunzione, ma la relazione, la socialità, la possibilità di tornare a far parte di qualcosa.
Proprio qui vicino a noi nascerà un progetto interessante: la struttura accanto diventerà un housing per persone senza fissa dimora.
E l’idea che abbiamo proposto all’assessorato è quella di creare una seconda soglia, non solo un dormitorio d’emergenza, ma un luogo dove ci sia già un minimo di autonomia: piccoli alloggi con cucina, un contesto che permetta anche a noi di entrare in gioco.
Perché è lì che possiamo fare la differenza: non sulla strada, non nell’emergenza, ma su quella soglia in cui si può iniziare un percorso insieme.
E se riusciamo a farlo, secondo me può diventare davvero una cosa molto interessante.

Modelli innovativi e il valore dello scambio tra comunità e persone senza dimora.

Mario Flavio Benini: Ti racconto un’ultima esperienza che secondo me è interessante, anche se in Italia è un caso unico — mentre su altre fragilità ci sono ormai modelli più consolidati.
A Milano, in pieno centro dietro il Duomo, i Gesuiti hanno dato vita a
Il Girevole, un bar per persone senza fissa dimora. Si trova in uno spazio di loro proprietà che prima ospitava una vineria e che, dopo la pandemia, hanno deciso di non riaffittare, trasformandolo in un luogo d’incontro ispirato a un progetto nato a Parigi.
Il bar è gestito
solo da volontari, molti con una formazione psicologica, e apre due sere a settimana. Qui entrano sia i senza fissa dimora sia i cittadini, che possono consumare o lasciare in sospeso caffè e bevande per chi non può pagare, creando così un punto di contatto e di scambio reale tra mondi che normalmente non si incontrano.
L’obiettivo è superare il pregiudizio e creare
occasioni di relazione, perché spesso la cosa più difficile per chi vive per strada è la rottura totale con il tessuto sociale.
Secondo te, modelli di questo tipo — che vanno oltre l’assistenzialismo e provano a costruire relazioni vere — possono funzionare anche in altri contesti?

Loris Passarella. Molto interessante… davvero. È una di quelle idee che secondo me può evolvere ancora, magari fino al punto che qualcuno tra le persone senza fissa dimora, frequentando quel luogo, si appassiona all’attività e comincia anche a dare una mano.
Perché alla fine è proprio questo il nodo: trovare spazi in cui ci si incontra davvero, senza barriere. Non un luogo dove c’è solo chi dà e chi riceve, ma un posto in cui si costruisce una relazione, si fa qualcosa insieme.
È lì che può nascere il cambiamento vero: quando si rompe il muro tra chi vive ai margini e chi sta dentro la società.

Il fatto che ci siano volontari con una formazione psicologica è fondamentale. Serve proprio la capacità di stare nella relazione, di non spaventarsi davanti alle difficoltà, di reggere la fatica dell’incontro autentico.
Secondo me sono esperienze che vale la pena studiare e magari replicare, ovviamente adattandole al contesto, alle persone, ai luoghi.
Ma l’idea è forte: un’integrazione graduale, che parte dalla relazione e — se funziona — può andare oltre: una piccola responsabilità, un ruolo, un pezzo di vita che riparte.




3 risposte a “Dalle cucine di quartiere all’Ortoalto. Alle Fonderie Ozanam il cibo è lavoro, inclusione e comunità.”

  1. […] dalle Case di Quartiere alle Portinerie di Comunità, e ai progetti di ristorazione solidale delle Fonderie Ozanam a Torino, da spazi come K-alma a Roma ai milanesi Stecca 3.0 e bar per senza dimora Il Girevole […]

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  2. […] cuore iniziale del progetto vivono le storie raccolte le prime dieci esperienze – Fonderie Ozanam, Radio Piazzetta, Banca delle Visite, Ciclofficina Sociale di Cormano, Avvocato di Strada, Il […]

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  3. […] di Comunità, e le Case di Quartiere di Torino, le falegnamerie sociali K‑Alma, e BRIChECO, le Fonderie Ozanam e la rete Banca delle Visite.L’intervista ad Antonio Mumolo è stata realizzata in […]

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