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Reinier Gerritsen: l’epidemia dell’immaginario ai tempi di internet.

“Nel 2008, in una calda giornata di maggio, stavo camminando lungo la piattaforma della metropolitana Thirty-Third Street a New York City. Improvvisamente erano lì, come se avessi chiesto loro di posare per me. Mi è capitato di essere nel posto giusto. Ho premuto il pulsante più volte. Una ragazza bionda stava leggendo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, aveva uno sguardo concentrato, stava chiaramente leggendo una parte triste del libro. Un’altra persona leggeva assorta Ayn Rand. Una donna stava leggendo un libro sul Kindle. Purtroppo, il Kindle non mi permetteva di vedere la copertina del libro, quindi non potrò mai sapere cosa leggeva”.

Reinier Gerritsen è uno street photographer di Amsterdam.
Scatta immagini in rapida successione. Persone, oggetti, intere città, diventano parte di un flusso, fotogrammi di un film: movimenti, direzioni, posture, isolamento, amore, coreografie, moltitudini. I suoi progetti durano anni. Sono sfide, documenti culturali, sguardi sociologici, studi sulle identità, ricerche incredibilmente analitiche sulla società globalizzata e multiculturale.
Nella scelta del soggetto, Gerritsen si pone nella tradizione della fotografia documentaria.
È ispirato da autori come Walker Evans e Bruce Davidson affascinati come lui dal quotidiano della vita metropolitana.
Concettualmente il suo universo si richiama a Slavoj Zižek, quando in “L’Epidemia dell’Immaginario“, (Biblioteca Meltemi, 2004) dice che: “un tempo le cose erano più semplici: si potevano criticare le forme ideologiche come “feticismo”, “illusioni”, “mistificazioni” proprio facendo appello al senso di realtà. Oggi, invece, occorre procedere al contrario: da quando la “realtà” che ci circonda si è “virtualizzata”, occorre criticarla partendo dal suo supplemento illusorio, dal lato dell’immaginario”. Cosa sono gli europei, il mercato finanziario, le identità personali, (tutti soggetti presenti nei lavori di Gerritsen) se non “figure concettuali”, mentali,  immaginarie, che funzionano da feticcio, da schermo per coprire l’idea che non viviamo in una società armoniosa; cosa sono questi concetti, se non spiegazioni fantasmatiche di ideologie che sembrano scomparse ma che continuano a dominarci in altre forme.
Per Gerritsen, il soggetto che osserva l’immagine non è esterno a essa, ma fa parte di quello che vede, è un punto cieco in cui la rappresentazione affonda. Ne deriva una scelta di metodo, la necessità di attraversare pezzi di produzione simbolica in cui si esprime l’immaginario del capitalismo globale come attraversamento di una scena in cui i soggetti si assegnano una libertà che è solo apparente. L’immaginario contemporaneo congela la libertà di scelta, facendola apparire come una libertà tra opzioni che, anche se radicalmente alternative, hanno il pregio di non mettere mai in discussione il quadro complessivo.
Tre sono i progetti di Reinier Gerritsen sui quali desidero soffermarmi.
Il primo, è un lavoro monumentale, durato dal 2005  al 2007, si chiama “The Europeans”.
Un viaggio in 25 paesi europei, osservando e fotografando la gente per strada.
Le immagini fanno pensare quanto l’idea di un astratto multiculturalismo abbia contribuito a rendere fragile l’idea di un’Europa unita. Il conflitto sul multiculturalismo non è uno scontro tra culture ma tra differenti visioni di come culture diverse possano e debbano coesistere, e sulle regole e i comportamenti che queste culture devono condividere nella loro coesistenza. La domanda che emerge guardando le immagini di Gerritsen è: cosa rappresenta davvero l’unione europea? Forse la missione è quella di non limitarsi a rispettare gli altri, ma offrire ai cittadini europei una battaglia comune, come comuni sono oggi i nostri problemi.
“The European” si sarebbe dovuto trasformare in un libro, mai realizzato a causa della crisi finanziaria scoppiata nel 2008.

Il secondo progetto è del 2009. Quando la crisi era al suo apice, Gerritsen ha iniziato a scattare fotografie a persone in metropolitana tra Wall Street e la Grand Central Station, nel quartiere finanziario di New York. Gruppi di pendolari, uomini e donne, in ritratti che “riflettono” lo stato di shock di un mondo incapace di comprendere il collasso delle identità e del sistema economico globale. La rassegnazione, lo spaesamento, (che vediamo sui volti delle persone fotografate da Gerritsen) o la rabbia (se pensiamo alla proteste di Occupy Wall Street), di fronte al crollo di un sistema dai meccanismi opachi, nasce non solo dalla condizione nella quale siamo posti (perdita di lavoro, della nostra condizione sociale, di prospettive per il futuro) ma soprattutto dall’impossibilità di rispondere alla domanda che ci viene posta: “Ti lamenti, ma almeno sai cosa vuoi?”, una domanda nasconde il suo sottinteso: “Rispondi nei miei termini che ti sono stati dati oppure non avrai ascolto”. Ha ragione il filosofo Alain Badiou quando sostiene che il nemico ultimo oggi non si chiama capitalismo, impero, sfruttamento o cose del genere, ma democrazia: è l’“illusione democratica”, l’accettazione dei meccanismi democratici come unico mezzo legittimo di cambiamento, che ci pone in una condizione di impotenza perché  ci preclude un’autentica trasformazione del sistema.
Nel 2010 questo progetto è stato raccolto nel volume, “Wall Street Stop” edito da Hatje Cantz.

Il progetto successivo, “The Last Book“, è iniziato nel 2008. Mentre stava lavorando nella stazione di Wall Street,  Gerritsen, venne colpito dalla incredibile varietà di viaggiatori intenti a leggere. Era interessato a osservare come la scelta di un libro potesse rappresentare tanto un’espressione di identità che una specie di accessorio di abbigliamento. Gerritsen ha lavorato a questo progetto dal 2008 al 2011 per 13 settimane, passando tutto il giorno sottoterra e scattando immagini senza sosta.

“In quei tre anni volevo fotografare tutti i libri. Ne ho fotografati migliaia. Ogni volta che ho visto qualcuno con un libro, ho scattato una foto”.

Se incontrava persone sospettose o poco disponibili a farsi fotografare, dava loro un breve testo che spiegava i motivi del suo lavoro.

“A volte, prima di scattare una fotografia, davo loro un piccolo pezzo di carta, in cui avevo scritto un testo –  i libri un po’ alla volta stanno scomparendo per essere sostituiti da iPad e da Kindle e io vorrei documentare questa transizione – in cambio ho sempre ricevuto sorrisi e disponibilità”.

Come aveva teorizzato nel 1995, il fondatore del Media Lab,  Nicholas Negroponte in “Essere digitali”  (Sperling & Kupfer), anche Gerritsen ritiene che entro pochi anni i libri stampati verranno sostituiti da e-book e da e-reader. Ma il passaggio dai libri di carta ai libri digitali porta con sé alcuni cambiamenti. Se possiamo sapere qualcosa sul lettore guardando la copertina del libro che sta leggendo, chi legge libri digitali è diventato “opaco”, è in incognito, chiuso in una bolla di anonimato. Un tablet digitale non ha alcuna copertina, non ci dà informazioni sugli interessi e desideri del lettore (al massimo possiamo sapere quale marca di tablet preferisce). Il libri digitali (come gli smartphone o i lettori mp3) stanno diventando uno strumento per proteggere se stessi dallo sguardo degli altri. In questi lettori c’è una paradossale coincidenza di solipsismo e di socializzazione immediata: con i tablet si è connessi con il mondo intero e, al tempo stesso, assolutamente soli davanti allo schermo. E questa, ancora una volta, è l’immagine di un’ideologia allo stato puro.
Le immagini di Gerritsen ci invitano a studiare la tensione che si viene a creare tra i lettori e i passeggeri che non leggono. Una galleria di ritratti e di  libri che ci raccontano ancora qualcosa sui lettori: dalla ragazza inorridita da “Xenocidio” di Orson Scott Card, a quella distratta con in mano una copia di “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, dalla giovane donna che beneficia del dono descritto nelle pagine di Michael Baisden (God’s Gift to Women) a quella immersa nella prima “Question Mark” introdotta da Haruki Murakami nella sua trilogia 1Q84 omaggio a 1984 di George Orwell. Le linee della metropolitana intrecciano vite vere e testo dei libri, diventano linee di fuga, e come ci insegna Gilles Deleuze, le fughe possono anche farsi sul posto, in un viaggio immobile che unisce le storie e gli immaginari delle persone.

“Credo che la linea “L” della metropolitana sia la più intellettuale. Le persone che vanno a Brooklyn stranamente leggono in modo diverso dagli altri”.

Questo progetto, tutt’ora in corso, è stato raccolto in un libro stampato “The Last Book” e in un’applicazione digitale per iPad, “The Last Book Revisited“, entrambi editi da Aperture. Questa combinazione di piattaforme fa interagire tra loro due mondi. Mentre l’edizione cartacea mostra lettori di libri cartacei, l’applicazione digitale mostra persone immerse in tablet e smartphone. Arjen Mulder, teorico dei media e Boris Kachka hanno scritto due saggi che introducono il progetto. Il volume è completato da un indice alfabetico di libri e lettori.

Alla Julie Saul Gallery di New York è appena terminata l’esposizione “The Last Book“.

Il siti internet di Reinier Gerritsen sono:
http://www.reiniergerritsen.nl/
https://www.facebook.com/reinier.gerritsen.1?fref=ts

I libri da avere:
Reinier Gerritsen: Wall Street Stop, Hatje Cantz, 2011 http://amzn.to/1CAFBnS
The Last Book, Photographs by Reinier Gerritsen, Aperture, 2014 http://amzn.to/1L5gbCN
The Last Book Revisited, Aperture (app by Paradox), 2014 http://bit.ly/1EEj9tU

I video:
Wall Street Stop, 2011 http://youtu.be/3VnebQoTcgU
The Last Book, Aperture 2014  https://vimeo.com/102773504
The Last Book Revisited,
 Un breve video della YdocFoundation che mostra le principali pagine del libro.

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