Fotografie: Mario Flavio Benini.
Questo articolo si inserisce in un percorso di indagine sui modelli inclusivi di lavoro e sul loro impatto sociale. La Ciclofficina Sociale di Cormano è un esempio concreto di come il lavoro possa diventare un bene comune, favorendo autonomia e coesione. Nei prossimi mesi, il blog esplorerà strategie, esperienze e servizi innovativi attraverso interviste, racconti di esperienze dirette, analisi di buone pratiche e approfondimenti su modelli organizzativi e partecipativi.
Cormano è un comune situato nell’area metropolitana di Milano, a nord del capoluogo lombardo. Con una forte vocazione industriale e artigianale, negli ultimi anni ha vissuto una trasformazione urbanistica e sociale, con una crescente attenzione alla mobilità sostenibile e ai progetti di inclusione sociale come “L-inc” un laboratorio d’inclusione sociale per persone con disabilità. È in questo contesto che nasce la Ciclofficina Sociale di Cormano, un’iniziativa che unisce formazione, lavoro e partecipazione comunitaria attraverso la bicicletta.
Fondata da Riccardo Bosi, ex educatore sociale, la ciclofficina si è sviluppata come un laboratorio di inclusione e apprendimento, rivolto in particolare a persone in condizioni di vulnerabilità: giovani in difficoltà, migranti, persone con fragilità economiche e sociali. Qui, la bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, ma uno strumento di riscatto, formazione e socializzazione.
Negli anni, la Ciclofficina Sociale è diventata un punto di riferimento collaborando con istituzioni locali e realtà nazionali e internazionali per promuovere la mobilità sostenibile e il reinserimento sociale attraverso il lavoro manuale e la ciclomeccanica.
In questa intervista, esploreremo la storia e l’evoluzione del progetto, il suo impatto sulla comunità, le collaborazioni attivate, le sfide affrontate e le prospettive future.
Ciclofficine sociali, inclusione e trasformazione sociale.
Mario Flavio Benini. Le ciclofficine sociali si stanno affermando come spazi in cui la bicicletta diventa un catalizzatore di inclusione, formazione e sostenibilità. Dall’inserimento lavorativo all’aggregazione sociale, fino alla rigenerazione urbana, queste realtà offrono opportunità per persone in situazioni di vulnerabilità.
Realtà come Ciclochard a Milano o The Bike Project a Londra dimostrano come la bicicletta possa essere uno strumento concreto per l’autonomia e il riscatto sociale. Anche esperienze come Living Workshop Cracovia o la Ciclofficina Popolare Luigi Masetti favoriscono il recupero di competenze e la creazione di comunità più coese.
Dal tuo punto di vista, quali sono gli elementi chiave che definiscono una ciclofficina sociale?
Riccardo Bosi. Io definisco sempre la ciclofficina sociale come un luogo di incontro, attribuendo al termine “incontro” il significato più alto possibile. Qui l’incontro è sinonimo di contaminazione, scambio e confronto, elementi essenziali nei percorsi educativi e di inclusione sociale.
Credo che la base della nostra ciclofficina sociale sia il fatto che al suo interno si sviluppino esperienze che nascono sempre dall’incontro tra persone con storie ed esigenze diverse. Questo scambio continuo genera un valore aggiunto in termini di relazioni umane e crescita personale, soprattutto per chi vive situazioni di fragilità.
Tra le opportunità più preziose che la ciclofficina offre come spazio di relazione, un posto speciale è occupato dalle storie che emergono attorno alle biciclette su cui mettiamo mano. Ogni bicicletta porta con sé un vissuto, e spesso le persone che varcano la nostra porta sentono il bisogno di condividerlo. Alcune raccontano aneddoti legati a viaggi, avventure e conquiste personali; altre rievocano ricordi profondi, intrecciati a persone care che non ci sono più. La bici diventa così un simbolo di esperienze passate, un oggetto capace di custodire e rievocare emozioni, siano esse di gioia o di nostalgia.
In questo senso, il piccolo laboratorio manuale della ciclofficina sociale assume il valore di un luogo protetto, quasi nascosto (talvolta persino difficile da trovare dentro la stazione), ma proprio per questo ancora più prezioso. Qui, oltre alla riparazione e al recupero delle biciclette, si intrecciano racconti e relazioni, dando spazio a quel bisogno collettivo di vicinanza ed empatia che spesso percepiamo come impellente. È un aspetto che, nel tempo, è diventato una delle peculiarità distintive del nostro progetto.
Le nostre ciclofficine sono di prossimità, ma non rientrano nella categoria delle ciclofficine popolari. Non offriamo il servizio tipico di queste ultime, che consiste nel fornire competenze in un’ottica di libero scambio senza sostituirsi al cittadino che ha bisogno di una riparazione. Il nostro è un vero e proprio laboratorio educativo, in cui la dimensione sociale e formativa è il fulcro del nostro lavoro. L’obiettivo è creare spazi protetti e strutturati per persone con difficoltà, affinché possano acquisire competenze tecniche e sviluppare maggiore autonomia.
In questo contesto, il lavoro manuale diventa l’elemento centrale, il denominatore comune intorno al quale si sviluppano dinamiche relazionali e di scambio. Attraverso la pratica, si creano opportunità di apprendimento che vanno oltre la tecnica, promuovendo il senso di appartenenza e il riscatto personale. La vera ricchezza del nostro progetto risiede proprio in questa interazione tra manualità, relazione e crescita individuale.

Genesi del progetto: la nascita di un’idea e il percorso evolutivo.
MFB. Riccardo, il progetto della ciclofficina sociale affonda le sue radici in un’esperienza personale e professionale ben precisa. Come è nata questa iniziativa? Quali eventi, riflessioni ed esperienze hanno contribuito a modellarla nel corso degli anni? E in che modo il tuo percorso di educatore professionale e imprenditore sociale ha influito sulla sua evoluzione?
RB. L’idea della ciclofficina sociale è nata esattamente diciassette anni fa e ha preso forma dalla fusione di diversi aspetti della mia vita. Da un lato, il mio percorso come educatore professionale, che ha sempre orientato il mio lavoro verso l’inclusione e la relazione d’aiuto. Dall’altro, il contesto dei servizi dell’associazione Movida, con cui collaboravo attivamente. Infine, c’era anche un mio momento personale di cambiamento e ricerca.
Proprio in quegli anni vivevo in alta Toscana, immerso nella natura, e lì ho riscoperto la bicicletta in un modo nuovo, quasi come un gioco per adulti. La bicicletta aveva accompagnato la mia infanzia, come per molti di noi, ma poi era rimasta in secondo piano. Fino a quando, per caso, durante un viaggio in camper, ho visto in un piccolo negozio delle Marche una bicicletta da corsa usata che mi ha colpito profondamente. È stato amore a prima vista: non ho resistito e l’ho comprata. Con quella bici ho iniziato a esplorare le montagne della Lunigiana, i Monti Apuani, l’Appennino, scoprendo il fascino dell’ascesa e la sensazione familiare di fatica nell’incedere lento, pedalata dopo pedalata. Era una nuova forma di meditazione: non immobile, ma dinamica; non a occhi chiusi, ma immerso nella natura più bella e selvaggia.
Ricordo in maniera indelebile le solitarie notturne estive tra i borghi montani sopra Carrara: quando finalmente il caldo lasciava il passo alla frescura serale, uscivo in bicicletta arrampicandomi tra colline e montagne, salite e discese. Animali selvatici erano i miei nuovi compagni di viaggio: la volpe, sempre nello stesso punto, il tasso, qualche cinghiale al limitare del bosco, la civetta che mi osservava con i suoi grandi occhi luminosi.
Questa passione per la bicicletta si intrecciava con un’importante fase di transizione nella mia vita. Sentivo il bisogno di cambiare anche rispetto al lavoro che svolgevo con l’associazione Movida, che gestisce il progetto della ciclofficina. Mi ero sempre occupato di viaggi e vacanze educative, ma era arrivato il momento di fare qualcosa di diverso. Poco prima di trasferirmi in Toscana, avevo iniziato a frequentare le ciclofficine popolari e mi affascinava il loro modello relazionale: spazi aperti in cui si condividevano saperi manuali, dove la riparazione della bicicletta diventava un mezzo di scambio e apprendimento.
Da questa esperienza è nata l’idea della ciclofficina sociale: trasformare quel modello destrutturato in un progetto con un focus educativo ben definito. Inizialmente, però, il mio obiettivo non era creare una ciclofficina, ma sviluppare, all’interno dell’associazione Movida, un servizio di viaggi e vacanze in bicicletta dedicato a persone con difficoltà. Avevo già sperimentato il tandem come strumento relazionale in diversi viaggi, tra cui un’esperienza incredibile con un paziente psichiatrico. Abbiamo viaggiato insieme per una settimana, attraversando l’Appennino fino alla Liguria, ed è stato un percorso umano ed educativo straordinario. La bicicletta si rivelava sempre più un ponte per la relazione e lo scambio con l’altro.
L’idea iniziale, quindi, era quella di creare un settore dedicato al cicloturismo educativo. Tuttavia, con il tempo, la passione per la ciclomeccanica ha preso il sopravvento anche come pratica manuale occupazionale. Volevo che i pazienti si sporcassero le mani, che lavorassimo concretamente con le bici, e ho capito che questo poteva essere il cuore del progetto. Così, nel 2013, ho avviato i primi esperimenti.
La nostra prima sede era un co-working nella zona di via Bramante 35, a Chinatown. Condividevamo lo spazio con uno stampatore 3D cinese e uno scultore brianzolo, in un seminterrato. È stato lì che ho iniziato a lavorare con i primi pazienti psichiatrici di alcuni presidi territoriali ospedalieri milanesi. Lavoravamo in moduli individuali, uno a uno, sperimentando la ciclomeccanica come strumento educativo e relazionale. I primi anni sono stati puramente sperimentali, ma incredibilmente affascinanti: la riparazione della bicicletta diventava un pretesto per costruire una relazione, per creare il setting del lavoro educativo, per lavorare sulla fiducia e sull’autonomia, per far crescere e fiorire la relazione d’aiuto.
Questa è stata la vera genesi del progetto: un intreccio tra esperienza personale, passione per la bicicletta e un forte desiderio di creare un’opportunità educativa concreta per persone con fragilità.




Modelli a confronto e ispirazioni per la Ciclofficina di Cormano.
MFB. Nel mondo esistono approcci differenti alle ciclofficine sociali: alcune nascono come progetti autogestiti e comunitari, come Atelier Vélorution Bastille a Parigi, altre hanno una struttura di impresa sociale, come il Bristol Bike Project, che offre percorsi di formazione per persone in difficoltà, o #BIKEYGEES e.V. in Germania, che aiuta donne migranti e rifugiate a imparare ad andare in bicicletta. In Italia, modelli come Associazione +bc Ciclofficina Stecca di Milano o Ciclofficina Popolare – APS Fucine Vulcano hanno sviluppato soluzioni innovative e sostenibili.
Nel costruire la Ciclofficina Sociale di Cormano, ci sono stati modelli italiani o internazionali che ti hanno ispirato? Quali differenze e similitudini vedi tra il tuo progetto e altre esperienze simili? Hai mai collaborato con altre ciclofficine per scambiare buone pratiche o costruire progetti condivisi?
RB. Sì, lo abbiamo fatto. Ho avuto modo di confrontarmi con diverse realtà a livello nazionale, anche se purtroppo non siamo riusciti a farlo su scala internazionale, sia per mancanza di risorse che di tempo. Ampliare lo studio ad altre esperienze fuori dall’Italia avrebbe richiesto un impegno più grande.
A livello nazionale, però, ci sono state molte contaminazioni. Qui a Milano, ad esempio, la vecchia Stecca e Associazione +bc, Unza a Niguarda, sono state punti di riferimento importanti. Sono spazi e persone importanti a cui rivolgersi quando c’è bisogno, dandoci una mano a vicenda.
In generale, la rete delle ciclofficine è sempre stata una fonte di ispirazione. Un’esperienza molto significativa è stata quella in Puglia, durante un viaggio che abbiamo fatto anni fa con un gruppo di ragazzi della nostra ciclofficina associazione e alcuni partecipanti del movimento della decrescita di Torino. Quel progetto, chiamato “Bike Tour della Decrescita”, fu organizzato dal Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante. Partì da Torino e arrivò fino in Sicilia, mettendo in connessione diverse realtà lungo il percorso. Noi ci siamo uniti a loro nel tratto tra la Basilicata e la Puglia, incontrando le ciclofficine popolari del Sud.
Questo viaggio è stato particolarmente interessante perché ci ha permesso di osservare da vicino le differenze tra le ciclofficine del Nord e quelle del Sud. Ogni ciclofficina ha una propria identità, modellata dal contesto in cui opera e dalle persone che la animano. Le ciclofficine popolari, in particolare, rappresentano un’importante opportunità di sviluppo per la comunità locale. In un mondo sempre più veloce e frenetico, luoghi come questi diventano spazi di incontro, condivisione e scambio, dove le persone possono sentirsi accolte e ascoltate in maniera spontanea. Nelle ciclofficine vigono dinamiche diverse: qui parlano le mani, gli sguardi e una bicicletta intorno alla quale si lavora insieme. Spesso non serve molto altro per comunicare.
In molti casi, i meccanici che portano avanti queste realtà sono persone con un forte spirito indipendente, che hanno scelto di non conformarsi ai modelli lavorativi tradizionali e spesso portano avanti idee molto definite anche dal punto di vista politico. La nostra esperienza di confronto con altre ciclofficine è iniziata proprio da quelle popolari, che rappresentavano il modello più vicino alla nostra idea di progetto.
Con il tempo, però, il panorama si è evoluto e sono nati nuovi progetti con una connotazione sociale più marcata, sia a Milano che in altre città italiane. Quando abbiamo iniziato, le uniche alternative erano le ciclofficine popolari – che, a mio avviso, sono comunque ciclofficine sociali – e i classici negozi di biciclette. Il nostro progetto, invece, introduceva fin da subito una componente educativa più strutturata e definita, che all’epoca era ancora poco diffusa.
Negli ultimi anni, questa idea si è diffusa e oggi a Milano esistono realtà come Ciclochard o l’Officina delle biciclette della Casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, gestita dall’associazione MiRaggio (attiva fino al 2012). Il panorama si sta evolvendo, con una maggiore attenzione all’aspetto educativo e sociale legato alla ciclomeccanica.

Bicicletta come metafora di vita e strumento educativo.
MFB. La bicicletta non è solo un mezzo di trasporto sostenibile, ma una potente metafora della vita e della società. Opere come “Il bello della bicicletta” di Marc Augé, “Elogio della bicicletta” di Ivan Illich, “La filosofia va in bicicletta” di Walter Bernardi e “Diari della bicicletta” di David Byrne ne evidenziano il valore simbolico, legandola a concetti come esplorazione, equilibrio, armonia, sforzo, autonomia, ma anche scoperta del territorio, democrazia partecipativa e riscatto sociale.
Sei passato dall’essere un educatore sociale a diventare un “cicloeducatore”, integrando la bicicletta come strumento formativo e di inclusione. In che modo la tua esperienza educativa ha influenzato il tuo approccio alla ciclofficina? E come la pratica della ciclomeccanica può diventare uno strumento di trasformazione personale e sociale per chi la vive?
RB. Questo è sicuramente un tema centrale nel mio lavoro e alla base della nascita della ciclofficina sociale. I concetti che hai citato rispecchiano profondamente la mia evoluzione professionale e di ricerca, e alcuni degli autori che hai menzionato sono stati dei riferimenti importanti nel mio percorso.
Credo che un educatore professionale, in quanto operatore sociale, sia sempre in ricerca. Ho studiato per esserlo, ma il lavoro educativo non si esaurisce nella teoria: c’è un forte elemento interiore, un processo di esplorazione intima e continua che, per me, è sempre stato il vero motore della mia pratica professionale. La ricerca non è solo un metodo, ma un’attitudine costante, una necessità di mettersi in discussione e di evolversi.
La bicicletta e la ciclofficina hanno rappresentato un vero e proprio salto di qualità in questo percorso. Mi hanno aperto nuove prospettive e possibilità, perché ognuno declina il lavoro educativo secondo la propria visione. Per me, è sempre stato un cammino dinamico, in continua trasformazione. Usando una metafora ciclistica: nel mio lavoro, come in bicicletta, ho sempre dovuto muovermi per non sentirmi statico, cercando un equilibrio che è sempre in divenire. E ancora oggi sono su quella strada.
Dopo molti anni di esperienza con realtà e persone diverse, ho sentito il bisogno di ampliare il mio orizzonte. A un certo punto, il mio lavoro sembrava aver raggiunto un limite, come se non potessi più andare oltre con gli strumenti che avevo a disposizione. Ed è stato proprio in quel momento che la bicicletta ha aperto nuove strade, sia in senso figurato che concreto. Ho iniziato a vederla come un oggetto magico, capace di coniugare simbolismo e praticità: da un lato è un potente veicolo di autonomia e libertà, dall’altro offre possibilità di apprendimento manuale, corporeo e relazionale.
Questa scoperta è stata rivoluzionaria per me, e il percorso che ho intrapreso da allora è tuttora vivo, in continua evoluzione. È un po’ come l’energia che si trasmette pedalando: ti spinge a muoverti, a cambiare prospettiva, a scoprire nuovi territori, sia interiori che esteriori.
Per me, questo lavoro è un vero e proprio spazio di gioco e scoperta, perché ogni giorno è diverso dal precedente. Il progetto della ciclofficina è ampio, sfaccettato, in costante espansione. L’ho sempre definito un “progetto polipo”, perché ha tantissime diramazioni e può svilupparsi in molte direzioni. Ed è proprio questa sua natura mutevole e adattabile che mi stimola continuamente. Ogni giorno mi offre la possibilità di imparare qualcosa di nuovo, sia nella visione strategica e progettuale su larga scala, sia nella relazione diretta con le persone che incontriamo. Ed è questa continua scoperta che rende il mio lavoro così entusiasmante.




La missione della Ciclofficina Sociale e i percorsi formativi.
MFB. La Ciclofficina Sociale non è solo un’officina di riparazione, ma un luogo di formazione e inclusione, dove la bicicletta diventa uno strumento di crescita personale e reinserimento lavorativo. Le vostre attività sono rivolte a persone con fragilità e vulnerabilità, offrendo loro competenze professionali e opportunità di socializzazione.
Quali sono i principali destinatari del vostro progetto? Lavorate principalmente con giovani, migranti, persone con disabilità o coinvolgete anche altre categorie? Quali sono le principali difficoltà che incontrano nel loro percorso di reinserimento sociale e lavorativo?
Come strutturate i percorsi formativi per i partecipanti? Esistono moduli didattici progressivi? Quali competenze tecniche e trasversali vengono trasmesse? Oltre alla ciclomeccanica, lavorate anche su aspetti come la comunicazione, l’autonomia e la gestione del lavoro?
Ci sono storie di persone che, grazie a questa formazione, sono riuscite a inserirsi nel mondo del lavoro o a migliorare la propria situazione personale?
RB. La mia esperienza educativa nasce nel mondo della disabilità e del disagio adulto, lavorando con persone con disabilità fisica e intellettiva e con problematiche psichiatriche. Gli obiettivi del mio intervento sono sempre stati legati all’autonomia, al miglioramento dell’autostima, all’inserimento occupazionale e alla costruzione di una progettualità condivisa con il paziente. Questo bagaglio è stato il punto di partenza per integrare l’uso della bicicletta nella mia pratica educativa.
La prima fase del progetto della ciclofficina è stata un vero banco di prova: abbiamo sperimentato come la ciclomeccanica potesse essere utilizzata in un setting di relazione d’aiuto, comprendendone le potenzialità sia in termini di sviluppo di competenze tecniche e trasversali, sia nella sua potente dimensione simbolica. Nei primi anni, ci siamo concentrati su questa sperimentazione, valutando se il progetto avesse basi solide per svilupparsi in quella direzione. La conferma è arrivata quando abbiamo osservato gli effetti positivi della pratica manuale in chiave relazionale sulle persone. In alcuni casi, l’impatto era talmente evidente da risultare sorprendente.
Oggi, per esempio, lavoro spesso con giovani che, nei contesti scolastici e familiari, manifestano difficoltà legate all’iperattivismo, ai disturbi dell’attenzione e all’ansia, con ripercussioni su diversi aspetti della loro vita. Nel lavoro in ciclofficina questi ragazzi trovano il loro spazio: la ciclomeccanica diventa per loro un metodo che li aiuta a dare ordine ai pensieri, a contenere le energie e a ritrovare concentrazione. Lavorando sulle biciclette, si calmano, si rilassano e riescono a esprimere al meglio le loro capacità. È proprio ciò che la scuola e la famiglia desiderano per loro, ma che spesso faticano a ottenere con gli strumenti tradizionali.
Con il tempo, la nostra attività si è ampliata e ha iniziato a intercettare nuove esigenze sociali. Un aspetto che ha segnato una svolta nel progetto è stato l’aumento delle richieste legate al fenomeno migratorio, con un crescente interesse per percorsi di formazione volti all’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo. Abbiamo così avviato moduli laboratoriali specifici per giovani provenienti principalmente dall’Africa, con un focus sulla formazione tecnica in ciclomeccanica. Con questo nuovo gruppo di utenti, il lavoro si è concentrato maggiormente sulla trasmissione di competenze professionali, a differenza della prima fase del progetto, più orientata agli aspetti relazionali e all’autonomia personale. Tuttavia, la dimensione educativa è rimasta centrale: l’integrazione tra formazione tecnica e accompagnamento educativo e relazionale si è rivelata una combinazione vincente.
Le persone che accoglievamo in ciclofficina non volevano solo imparare un mestiere, ma anche acquisire una nuova lingua, sentirsi accolti e inserirsi in un contesto sociale più ampio. La ciclofficina si è dimostrata un luogo in grado di offrire tutto questo, anche grazie alla comunità territoriale, che ci ha sostenuto sin dall’inizio, portando biciclette in riparazione e interagendo con i ragazzi.
Dal 2016, dopo i primi anni dedicati alla pura educazione e alla sperimentazione laboratoriale, abbiamo strutturato veri e propri percorsi di formazione al lavoro. Questo cambiamento ha segnato un momento di crescita fondamentale per il progetto, che è entrato in una nuova fase, ampliando le opportunità di inserimento professionale.
Una delle storie più significative di questo periodo è quella di Idrissa, un giovane della Costa d’Avorio che ha iniziato il suo percorso con noi attraverso un tirocinio. Fin da subito ha dimostrato una grande attitudine per la ciclomeccanica, unita a una forte determinazione e voglia di riscatto. Dopo una prima fase di formazione, ha proseguito con un secondo modulo avanzato, fino a essere assunto dalla nostra associazione prima come apprendista e poi come operaio specializzato. Con il tempo, ha aperto una sua partita IVA e, dopo quasi cinque anni, ha intrapreso un percorso lavorativo indipendente, restando sempre nel settore della manutenzione delle biciclette.
Questa esperienza ha rappresentato per noi un momento di svolta, dimostrando come il progetto potesse evolversi dalla pura formazione educativa a un inserimento lavorativo concreto. Oggi continuiamo a integrare questi due aspetti, perché il lavoro con i migranti non riguarda solo la formazione professionale, ma anche l’accompagnamento educativo. Molti di loro arrivano in Italia dopo esperienze traumatiche, sia nei paesi d’origine che lungo il viaggio per raggiungere l’Europa – in particolare il passaggio dalla Libia, spesso segnato da violenze e privazioni. Il percorso di inclusione sociale è lungo e complesso, e richiede un approccio che vada oltre il semplice apprendimento di un mestiere.
Il nostro obiettivo è costruire un circolo virtuoso in cui l’inclusione non si fermi alla formazione, ma porti a una reale emancipazione. L’idea è che le persone coinvolte non solo trovino un’occupazione, ma possano anche, un giorno, diventare parte attiva del progetto, contribuendo alla sua crescita. Per questo, puntiamo a trasformare la Ciclofficina Sociale in una cooperativa di tipo B, capace di autosostenersi e di creare opportunità di lavoro e autonomia per chi ne ha più bisogno.

Bicicletta e inclusione sociale.
MFB. La condizione di senza dimora è spesso il risultato di molteplici fattori, tra cui problemi psichiatrici, perdita del lavoro, separazioni familiari o una combinazione di questi elementi. Una volta che una persona finisce per strada, la marginalità tende a radicalizzarsi, rendendo ancora più difficile la reintegrazione sociale e lavorativa. La perdita della residenza complica ulteriormente il percorso di reinserimento, poiché l’assenza di documenti validi rappresenta un ostacolo per accedere al lavoro e ai servizi. Anche le soluzioni temporanee, come gli ostelli notturni, offrono solo un supporto parziale, lasciando molti senza un luogo stabile durante il giorno.
RB. Nel vostro percorso, avete mai lavorato con persone senza dimora o con gravi situazioni di marginalità? Quali sono, secondo la tua esperienza, le principali difficoltà che queste persone incontrano nel rientrare nel mondo del lavoro? Ritieni che la ciclomeccanica possa essere uno strumento utile per offrire loro un’opportunità di inclusione e autonomia? In che modo le dinamiche politiche e aziendali influenzano la possibilità di creare percorsi lavorativi per queste persone?
Le persone senza dimora sono spesso percepite come individui che hanno scelto questa condizione, ma la realtà è molto più complessa e sfaccettata. C’è chi rifiuta qualsiasi legame con i servizi, chi desidera mantenere la propria autonomia totale, e chi, invece, si trova in strada per una serie di circostanze avverse. Definire il confine tra scelta e necessità è molto difficile. Quello che è certo è che avviare un percorso di reintegrazione per queste persone è estremamente complesso.
Nel nostro caso, lavoriamo in uno spazio relativamente piccolo, e negli anni abbiamo dovuto trovare un equilibrio tra sostenibilità e possibilità di intervento. Non è mai semplice selezionare le priorità, ma abbiamo sempre cercato di rispondere alle richieste e alle necessità emergenti. Ad esempio, quando si è verificato un aumento delle richieste da parte di migranti, ci siamo concentrati su quel segmento, creando percorsi formativi mirati.
Inoltre, il contesto sociale e politico influisce molto sul tipo di interventi possibili. Attualmente, chi si occupa di inserimento lavorativo sta affrontando difficoltà crescenti, soprattutto nel dialogo con le aziende. La nostra realtà è vista molto positivamente perché, pur non essendo un’azienda nel senso classico, operiamo come un ponte tra i beneficiari e il mondo del lavoro. Offriamo tirocini e borse lavoro, ma il nostro punto di partenza è l’accompagnamento educativo e il tutoring, più che il semplice inserimento lavorativo.
Tuttavia, siamo una realtà piuttosto rara nel panorama italiano. Le logiche aziendali sono diverse da quelle educative, e spesso mancano strumenti adeguati per facilitare il reinserimento delle persone in grave marginalità. Probabilmente, in Italia siamo ancora indietro su questo fronte e servirebbero più iniziative in grado di coniugare inclusione sociale e formazione professionale.



Impatto sulla comunità e sul territorio.
MFB. Nel tempo, la Ciclofficina Sociale è diventata un punto di riferimento per Cormano e dintorni, contribuendo a rafforzare i legami tra le persone e a diffondere una nuova cultura della mobilità sostenibile. Se da un lato la ciclofficina offre formazione e opportunità a persone vulnerabili, dall’altro rappresenta anche un luogo aperto alla cittadinanza, un crocevia di scambi, incontri e collaborazioni.
Quali effetti avete osservato nel tessuto sociale della città? La vostra presenza ha influenzato il modo in cui la comunità locale percepisce la bicicletta e la mobilità sostenibile? Avete notato un maggiore coinvolgimento dei cittadini, delle istituzioni o delle realtà locali nel vostro progetto?
In che modo la Ciclofficina Sociale è diventata parte integrante della vita della città? Esistono iniziative, eventi o collaborazioni che hanno rafforzato il vostro legame con il territorio?
RB. Per il nostro progetto, l’apertura alla comunità è fondamentale. Quando dico “aperto”, intendo un progetto permeabile, in entrata e in uscita, che coinvolga tanto l’utenza specifica quanto i cittadini. Nelle varie sedi che abbiamo avuto nel tempo, ci siamo sempre impegnati a mantenere questa apertura.
In passato, ad esempio, siamo stati ospitati in una comunità per minori nel quartiere San Leonardo di Milano, ma lì ci siamo resi conto di essere troppo isolati. Una comunità è una microsocietà chiusa, mentre il nostro progetto ha bisogno di essere immerso nel tessuto territoriale per funzionare. Lo scambio con il cliente che entra e ci conosce è una parte essenziale di ciò che facciamo. Non siamo una ciclofficina popolare, ma a livello locale funzioniamo anche in quel modo: alcuni clienti ci chiedono di poter imparare, di mettere le mani sulla propria bici, e per noi questa è un’opportunità preziosa. L’interazione che si crea arricchisce i nostri ragazzi e rafforza i legami con la comunità.
Crediamo che l’integrazione si costruisca nel quotidiano, attraverso il confronto diretto. Ad esempio, ci capita spesso di accogliere clienti di generazioni e mentalità diverse, e il confronto tra loro è inevitabile. Abbiamo visto anziani del quartiere entrare con atteggiamenti inizialmente prevenuti nei confronti dei nostri ragazzi, magari con commenti poco opportuni. Ma è proprio in questi momenti che si innesca il cambiamento: l’anziano fa una battuta, il ragazzo si trova a dover affrontare quella situazione, a gestire l’interazione, a capire come rispondere senza chiudersi. Ci si confronta, ci si conosce e insieme si attivano processi di connessione e integrazione. Questo è un microcosmo di ciò che accade nella società su più livelli, ed è uno degli aspetti più importanti del nostro progetto.
Oggi siamo radicati nel territorio, grazie anche alla nostra attuale sede all’interno di Ferrovie Nord, un’opportunità arrivata nel momento giusto. Il quartiere ci ha accolto in modo molto positivo e, nel tempo, siamo diventati un punto di riferimento per molti cittadini. Questo ci permette di avere uno scambio costante con la comunità e di monitorare come veniamo percepiti dall’esterno, un aspetto essenziale. Nel terzo settore c’è spesso il rischio di essere autoreferenziali, di chiudersi nel proprio contesto, quasi auto-ghettizzandosi. A noi, invece, interessa essere parte attiva della città, renderci visibili, confrontarci con chi ci sta attorno.
Questa apertura, a volte, non ci rende la vita facile: ci porta a intercettare anche persone che non trovano spazio altrove, cittadini ai margini che cercano un punto di riferimento. Alcuni vengono solo per scambiare quattro chiacchiere, altri per chiedere un aiuto concreto. Del resto, accogliere significa anche gestire situazioni difficili, a volte scomode, e per noi questo fa parte della bellezza del nostro progetto. Crediamo che il nostro lavoro abbia senso solo se crea relazioni reali, interazioni autentiche e lascia un impatto sulla comunità.

Il ruolo delle istituzioni nel sostegno ai progetti sociali.
MFB. Le istituzioni locali possono avere un ruolo fondamentale nel sostenere e promuovere iniziative di inclusione e sviluppo sociale. In molti casi, l’assegnazione di spazi, il supporto economico o il riconoscimento ufficiale da parte delle amministrazioni comunali permettono a progetti come la Ciclofficina Sociale di radicarsi nel territorio e di crescere. Tuttavia, il rapporto con le istituzioni non è sempre lineare e può incontrare ostacoli di tipo burocratico, politico o gestionale.
Qual è il vostro rapporto con le istituzioni locali? In che modo il Comune di Cormano e altre amministrazioni del territorio supportano la vostra attività? Avete riscontrato difficoltà nel dialogo con gli enti pubblici? Ritieni che le istituzioni potrebbero fare di più per facilitare l’integrazione dei progetti del terzo settore nelle politiche locali?
RB. Abbiamo una convenzione con l’amministrazione comunale di Cormano, che è il nostro principale interlocutore istituzionale. Il progetto della Ciclofficina Sociale nasce dalla vittoria di un bando indetto dal Comune su impulso di Ferrovie Nord. Durante la riqualificazione della stazione, Ferrovie Nord ha previsto uno spazio da destinare a un’associazione del terzo settore, escludendo attività commerciali. Le amministrazioni comunali di Cormano e Cusano hanno quindi aperto un bando, e noi, trovandoci nel momento giusto, abbiamo partecipato e vinto, ottenendo l’assegnazione dello spazio in comodato d’uso.
Da allora, il nostro rapporto con il Comune si è sviluppato in un’interazione costante, in particolare con i servizi sociali, che ci segnalano persone da sostenere e coinvolgere nelle nostre attività. Collaboriamo anche con altre associazioni e con i presidi scolastici del territorio, sia attraverso progetti all’interno degli istituti sia accogliendo studenti direttamente in ciclofficina.
Il nostro approccio operativo si basa sulla massima apertura e disponibilità al dialogo, collaborando con chiunque condivida l’intento di costruire qualcosa di positivo, indipendentemente dagli schieramenti politici. Credo che, su certi valori e principi, sia fondamentale restare uniti e solidali.

Sostenibilità economica: il bilanciamento tra missione sociale e autonomia finanziaria.
MFB. Gestire una realtà come la vostra richiede risorse economiche costanti per garantire formazione, inserimento lavorativo e manutenzione dello spazio. Spesso, le ciclofficine sociali devono bilanciare la loro vocazione inclusiva con la necessità di sostenibilità economica, trovando modelli che permettano loro di essere indipendenti senza rinunciare alla missione sociale.
Quali sono le principali fonti di finanziamento della Ciclofficina Sociale? Qual è il ruolo delle vendite di biciclette rigenerate e dei servizi di riparazione in questo equilibrio? Ricevete finanziamenti pubblici o privati, oppure avete sviluppato un modello di autofinanziamento attraverso le vostre attività? Come coinvolgete la comunità nel sostenere economicamente il progetto? Ci sono stati momenti critici in cui avete dovuto ripensare il modello economico per garantire la continuità dell’iniziativa?
RB. La sostenibilità economica è un tema centrale per progetti come il nostro. Le ciclofficine popolari si basano prevalentemente sul volontariato e su una gestione più informale. Il nostro modello, invece, ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo di consolidarsi e autosostenersi. Ho sempre avuto un forte interesse per l’impresa sociale e credo che il futuro del terzo settore debba svilupparsi in una direzione capace di unire elementi profit e no profit, creando sinergie virtuose.
Nei primi anni, la Ciclofficina Sociale si è sostenuta grazie alle attività di Movida, che, come dicevo prima, si occupava di viaggi e vacanze educative e ha supportato con uno sforzo iniziale il lancio del progetto. Successivamente, abbiamo sviluppato un modello di autofinanziamento basato sui servizi di riparazione e vendita di biciclette rigenerate. Il miglioramento delle competenze tecniche ci ha permesso di proporci sul mercato come un’officina professionale a tutti gli effetti, con un valore aggiunto: l’attenzione al cliente e l’approccio educativo, che derivano direttamente dalla nostra missione sociale.
Abbiamo scelto di rendere trasparente ai nostri clienti che ogni servizio a pagamento sostiene direttamente il progetto. Questo ha creato un meccanismo virtuoso: molti clienti riconoscono il valore sociale del nostro lavoro e accettano volentieri di contribuire, talvolta anche con donazioni aggiuntive. Questo modello di autofinanziamento ha funzionato bene e ci ha permesso di crescere.
Parallelamente, ci sosteniamo attraverso il fundraising, partecipando a diversi bandi durante l’anno. Presentiamo progetti a enti erogatori pubblici e privati, sviluppando collaborazioni con realtà che condividono i nostri obiettivi. Attualmente, collaboriamo con la Fondazione Peppino Vismara, che cofinanzia una parte del nostro progetto con la possibilità di un prolungamento del supporto nel tempo. Questo dialogo con enti finanziatori ci ha spinto a strutturarci sempre più come un’impresa sociale, adottando criteri di monitoraggio, pianificazione e sostenibilità economica più simili a quelli di un’azienda.
Abbiamo inoltre sviluppato servizi innovativi per diversificare le entrate, come “Taylor Bike”, un servizio di personalizzazione e restyling di biciclette storiche che permette di recuperare mezzi con valore affettivo, trasformandoli insieme al proprietario in pezzi unici. Questo progetto ha avuto un buon riscontro e ha rafforzato il nostro legame con i clienti.
Attualmente non offriamo un servizio di noleggio per motivi logistici, ma stiamo lavorando al lancio di un nuovo progetto, “Social Delivery”, un servizio di consegne sostenibili legato a un’iniziativa finanziata dalla Fondazione Peppino Vismara. Per questo, stiamo valutando anche il lancio di una campagna di crowdfunding per ampliare ulteriormente il nostro impatto.
Viviamo ovviamente anche grazie a donazioni spontanee e abbiamo creato una linea di accessori brandizzati, come zaini e gadget con il nostro logo, che stiamo cercando di sviluppare ulteriormente.
Questo mix di strategie ci permette di mantenere l’equilibrio economico, di pagare il personale coinvolto e di garantire la continuità del progetto. Attualmente, oltre a me, lavorano nella ciclofficina un’educatrice e una consulente per la comunicazione, oltre ovviamente ai nostri apprendisti retribuiti e ai nostri amati volontari. Tutti contribuiamo a rendere il nostro modello sempre più solido e sostenibile.



Progetti internazionali: l’esperienza della Ciclofficina Sociale oltre i confini italiani.
MFB. Il vostro impegno ha varcato i confini italiani con il progetto Baiskeli in Tanzania, un’iniziativa che unisce solidarietà, formazione e mobilità sostenibile. Attraverso il recupero e la riparazione delle biciclette, non solo avete fornito un mezzo di trasporto essenziale alle comunità locali, ma avete anche offerto formazione ai giovani del posto, aiutandoli a sviluppare competenze professionali e a costruire opportunità lavorative.
Può raccontarci come è nato il progetto? Quali sfide avete dovuto affrontare nell’adattare il vostro modello a un contesto così diverso da quello italiano? Che tipo di impatto ha avuto la vostra iniziativa sulla comunità locale? Il progetto Baiskeli ha generato nuove idee per possibili sviluppi futuri, magari in altre aree del mondo? Da questo primo progetto sono nate altre iniziative in comunità italiane o estere?
RB. Nel 2019 abbiamo avviato una ciclofficina in un’area rurale della Tanzania, nella regione di Iringa, nel distretto di Kilolo. L’idea è nata dalla passione per il viaggio e, ancora una volta, dalla ricerca di nuovi stimoli. C’era la volontà di sperimentare se il modello di lavoro che avevamo sviluppato nel contesto urbano italiano potesse essere adattato anche a una realtà molto diversa, dove la mobilità e l’accesso a mezzi di trasporto sicuri sono bisogni fondamentali.
La bicicletta, in molte aree dell’Africa, è un bene di prima necessità, ma spesso inaccessibile economicamente. Abbiamo pensato che il nostro approccio potesse avere un impatto significativo, offrendo un mezzo di trasporto essenziale e al contempo creando un’opportunità di formazione per i giovani locali.
Per realizzare il progetto, abbiamo cercato partner tra le ONG attive sul territorio e abbiamo incontrato Tulime Onlus, un’organizzazione siciliana che opera in Tanzania con progetti di microcredito agricolo. Avevano già tentato di attivare un’iniziativa legata alle biciclette e hanno accolto con entusiasmo la nostra proposta. Abbiamo quindi strutturato il progetto e avviato una campagna di raccolta fondi per acquistare biciclette direttamente in loco, evitando le difficoltà logistiche legate all’importazione dall’Italia.
Con i fondi raccolti, abbiamo acquistato e rigenerato biciclette all’interno della ciclofficina, che abbiamo allestito nel villaggio ristrutturando una vecchia stalla. Le biciclette sono state poi distribuite alle famiglie e agli studenti delle scuole primarie e secondarie per aiutarli a raggiungere le scuole più facilmente. Abbiamo anche realizzato bike ambulance e carrelli da trasporto, collaborando con fabbri locali per costruire mezzi adatti alle esigenze della comunità. Inoltre, abbiamo creato un piccolo “Bike school bus”, una specie di risciò che permetteva di trasportare i bambini più piccoli all’asilo, sgravando le madri dall’obbligo di portarli in spalla mentre lavoravano nei campi.
Il progetto ha generato molto interesse e solidarietà e ha attirato ulteriori finanziamenti, in particolare grazie al supporto degli amici di Xmas Project, che hanno contribuito alla sua espansione attraverso la vendita di un libro e un’iniziativa dedicata alle scuole italiane. Tuttavia, dopo alcuni anni, Tulime ha subito cambiamenti interni e il progetto ha rallentato. Come da nostro format, l’obiettivo è sempre stato quello di rendere le realtà locali autonome nella gestione, ma il mantenimento della continuità è sempre una sfida.
Dopo l’esperienza in Tanzania, abbiamo iniziato a valutare nuove possibilità per replicare il format in altri paesi. Prima del Covid, era in fase di avvio una collaborazione con Terre des Hommes per sviluppare iniziative simili in Ecuador e Nicaragua, ma la pandemia ha interrotto questi piani. Ora stiamo tornando a esplorare nuove opportunità sia in Africa (Uganda) che in Sud America (Ecuador).
Nel realizzare questi progetti, il nostro contributo principale è portare competenze in ciclomeccanica e formazione professionale. È fondamentale avere un partner locale che conosca il territorio e le sue dinamiche, perché uno degli ostacoli principali nella cooperazione internazionale è il rischio che le comunità locali non si sentano responsabilizzate e realmente coinvolte nella gestione del progetto. Spesso, nei contesti africani, il ruolo degli stranieri viene visto come puramente finanziario, e il rischio è che, una volta terminato il supporto esterno, i progetti si interrompano.
Un elemento critico che abbiamo riscontrato in Tanzania è stata proprio la difficoltà nel mantenere la continuità del progetto senza la nostra presenza diretta. Questo ci ha fatto riflettere sull’importanza di strutturare meglio il passaggio di competenze e responsabilità agli attori locali. Dopo un primo anno di forte accompagnamento, è essenziale trovare il giusto equilibrio tra supporto esterno e autonomia locale. Abbiamo notato che, se il progetto è ben radicato nella comunità e trova interlocutori motivati, la sostenibilità a lungo termine diventa più realistica.
Con questa consapevolezza, ci stiamo approcciando al progetto in Uganda con un metodo più mirato, cercando di individuare fin da subito partner affidabili in grado di gestire il progetto anche dopo il nostro intervento iniziale.
L’esperienza in Tanzania ci ha insegnato molto e ha rafforzato la nostra convinzione che la mobilità sostenibile possa essere un potente strumento di inclusione e sviluppo. Ogni nuova iniziativa deve però essere costruita in modo da garantire continuità e sostenibilità a lungo termine, evitando la dipendenza dai soli finanziamenti esterni e lavorando per responsabilizzare le comunità locali nella gestione del progetto. Come sempre, lo scambio e la contaminazione sono la strada migliore.




Visione Futura: il futuro della Ciclofficina Sociale tra inclusione, sostenibilità e innovazione.
MFB. Guardando avanti, la mobilità sostenibile e i progetti di inclusione sociale legati alla bicicletta stanno guadagnando sempre più spazio nel dibattito pubblico. Le ciclofficine sociali possono evolversi in molti modi: ampliando le attività educative, collaborando con istituzioni pubbliche e private, sviluppando nuovi modelli di business sociale o sperimentando progetti di rete innovativi.
Quali sono le vostre ambizioni per il futuro? Ci sono nuove idee che vorreste sviluppare, magari legate a tecnologie emergenti, nuovi progetti educativi o l’espansione in altri territori? Quali sono i prossimi passi per la Ciclofficina Sociale e come immagina il suo ruolo nel contesto sociale e ambientale dei prossimi anni?
La mia speranza per il futuro è che la Ciclofficina Sociale possa proseguire nel suo processo di evoluzione. Spero che il progetto cresca ulteriormente come impresa sociale, creando un team stabile di beneficiari che, una volta formati, diventino essi stessi i propulsori dell’iniziativa. L’obiettivo principale è trasformare la Ciclofficina Sociale in una cooperativa sociale di tipo B, per garantire ai partecipanti autonomia, emancipazione effettiva, auto-determinazione e continuità.
RB. Uno dei miei sogni è ampliare lo spazio della ciclofficina, trasformandolo in un vero e proprio hub della mobilità sostenibile e dell’inclusione. Immagino un grande spazio multifunzionale che non sia solo un’officina per biciclette, ma anche un luogo di accoglienza e incontro per i vari avventori. Un cycle café, un punto di aggregazione per la comunità, dove promuovere la cultura della bicicletta attraverso eventi, presentazioni di libri e viaggi tematici. Un modello ispirato a realtà come Upcycle a Milano, ma con la nostra forte connotazione sociale e formativa. Penso a una parte dedicata alla ristorazione solidale, simile all’esperienza di Jodok, il progetto di Olinda nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, dove la ristorazione diventa un’opportunità di inclusione lavorativa. Oppure a un modello come PizzAUT.
Un altro aspetto che vorremmo sviluppare in futuro, sempre in linea con ciò che già facciamo, è quello del cicloturismo sociale. La bicicletta è sempre più un mezzo di scoperta del territorio e ci piacerebbe organizzare iniziative per avvicinare famiglie e scuole alla mobilità sostenibile. La nostra rete solidale è attiva e presente: abbiamo già sperimentato attività che coinvolgono genitori e figli nella manutenzione delle biciclette, e crediamo che questo approccio possa essere ampliato con escursioni nel Parco Nord e nel Parco di Monza, coinvolgendo anche i nostri ragazzi in percorsi educativi legati al territorio. Queste iniziative potrebbero essere solo un punto di partenza per arrivare, in futuro, a organizzare piccoli viaggi cicloturistici. La bicicletta riduce le distanze e abbatte le barriere.
Sul piano educativo, la collaborazione con le scuole sta crescendo. Abbiamo appena avviato un progetto legato al PNRRcon una scuola di Senago, con l’obiettivo di creare un laboratorio di ciclomeccanica interno, e stiamo sviluppando percorsi per ragazzi con disturbi dell’attenzione, ADHD e DSA, dove la psicomeccanica sta dimostrando di essere uno strumento efficace. Inoltre, collaboriamo con il carcere di Bollate, accogliendo detenuti in messa alla prova e valutando la possibilità di portare laboratori direttamente all’interno dell’istituto penitenziario.
Un altro progetto chiave per il futuro è il Social Delivery, che partirà in primavera. Grazie all’aiuto di Associazione +bc, abbiamo realizzato un prototipo di cargo bike, riciclando una vecchia mountain bike. Ora ne stiamo producendo altre, migliorando sempre più il modello. Queste bici da carico saranno impiegate per la consegna di generi di prima necessità, con un’attenzione particolare alle famiglie segnalate dai servizi sociali, agli anziani e alle persone con difficoltà motorie. Inoltre, la ciclofficina si farà promotrice della nascita di un Gruppo di Acquisto Solidale (GAS)interno, per offrire prodotti biologici e locali con consegne sostenibili in cargo bike. Anche per questo tipo di servizio offriremo esperienze formative e lavorative retribuite ai nostri apprendisti.
Per sostenere questo progetto, oltre al supporto della Fondazione Peppino Vismara, stiamo valutando una campagna di crowdfunding e la presentazione a nuovi enti finanziatori privati. Sempre nell’ottica della sostenibilità economica, stiamo anche espandendo la nostra linea di accessori brandizzati, come borse e zaini, che contribuiscono al sostentamento della ciclofficina.
Infine, stiamo sviluppando connessioni a livello internazionale. Recentemente siamo stati contattati da una realtà francese simile alla nostra per partecipare a un progetto Erasmus Plus, che ci permetterà di confrontarci con modelli di ciclofficine sostenute dal settore pubblico e sviluppare nuove strategie di crescita.
L’obiettivo per i prossimi anni è quindi quello di rafforzare il nostro modello di impresa sociale, continuare a innovare e creare un ecosistema sostenibile attorno alla mobilità dolce, che non sia solo un mezzo di trasporto, ma anche un motore di inclusione e sviluppo per la comunità.
Ciclofficina Sociale.
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