
ma l'amor mio non muore
Noi siamo la nostra partecipazione.
L’idea di camminare come caduta controllata è stata utilizzata da Laurie Anderson. Esprime la sensazione che la libertà, o la capacità di avanzare e di transitare nella vita non abbiano necessariamente a che fare con l’evitare le costrizioni.
Ci sono sempre delle costrizioni.
Quando camminiamo c’è quella di gravità. C’è quella dell’equilibrio, e del bisogno di equilibrio. Tuttavia nello stesso tempo, per camminare dobbiamo sbarazzarci di quell’equilibrio, abbandonarci a una caduta, per poi interromperla e riaquistare l’equilibrio. Andiamo avanti se giochiamo con le costrizioni, se non le evitiamo. Vi è un’apertura nel movimento anche se non vi sono costrizioni da evitare.
Accade qualcosa di simile nel linguaggio. Io lo vedo come un gioco di costrizioni, uno spazio per muoversi. Se pensiamo ad esso in modo tradizionale, come a una corrispondenza tra la parola e il suo significato, da un lato, e la sensazione corrispondente dall’altro, inizia ad addensarsi. È un sistema convenzionale per indicare qualcosa che vogliamo che qualcun altro riconosca. È una questione di indicare qualcosa che tutti sappiamo essere già lì. Tuttavia quando pensiamo a una cosa, proviamo una sensazione unica per ogni esperienza e l’espressione linguistica non potrà mai esaurire i dettagli di quella sensazione. In parte perché due persone che si trovano nella medesima situazione non ne faranno mai un’esperienza allo stesso modo — si metterebbero a discutere e litigare sulle sfumature in eterno. Ma in parte anche perché tra di loro è successo qualcosa di troppo complesso per essere espresso a parole — specialmente se pensiamo a ciò che era lì potenzialmente. Ci sono usi del linguaggio che sono in grado di portare in primo piano l’inadeguatezza tra la lingua e l’esperienza, e riuscire a trasmettere il “troppo” della situazione — la sua carica — in modo che incoraggi davvero nuove esperienze.
Lo humor ne è un ottimo esempio, e anche l’espressione poetica, presa nel suo senso più ampio. La lingua è biforcuta: è qualcosa che cattura l’esperienza, che la codifica, la normalizza e la rende comunicabile fornendole un codice di riferimento neutro. Ma, allo stesso tempo, essa può anche esprimere quelle che potremmo chiamare, “singolarità dell’esperienza”, quel tipo di movimenti dell’affettività caratteristici di una situazione specifica. Sperimentare questo potenziale, l’unicità e la ricchezza propria di ogni situazione, anche la più convenzionale, penso sia legato all’idea di navigare. Riguarda l’essere immersi in un’esperienza che sta già accadendo. Riguarda l’essere in armonia con quella possibilità di movimento. Riguarda l’essere tutt’uno con la correte. È come cavalcare una situazione, modificandola leggermente, senza dirigerla o programmarla. Lo schema del dirigere si avvicina all’esperienza come se ce ne trovassimo al di fuori e la osservassimo da lì, come se fossimo soggetti incorporei che maneggiano un oggetto. Ma le nostre esperienze non sono oggetti. Sono noi stessi, sono ciò di cui siamo fatti. Noi siamo quelle situazioni, siamo il nostro muoverci tra di esse.
Noi siamo la nostra partecipazione.
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