
connected family
It’s complicated: La vita sociale degli adolescenti sul web. danah boyd.
Sopra Jesse Darling, artista e performer di Londra. Tutte le immagini presenti nel testo sono tratte da “National #Selfie Portrait Gallery“, Moving Image Contemporary Art Fair in London.
Come scrive Jon Savage in “Teenage: The Creation of Youth Culture” (“L’invenzione dei giovani“, Feltrinelli 2009), i giovani non sono sempre esistiti.
“Nel 1944 gli americani cominciarono a utilizzare il termine “teenager” per designare la categoria di giovani che andava dai quattordici ai diciotto anni. Fin da subito si trattò di un termine specifico del marketing, usato da pubblicitari e produttori, che rispecchiava la nuova tangibile capacità di spesa degli adolescenti. Il fatto che per la prima volta i giovani fossero diventati un target significava anche che erano diventati un gruppo anagrafico distinto, con rituali, diritti ed esigenze propri”.
Una volta, almeno un paio secoli fa, la gioventù era considerata un momento di transizione, un’età che si consumava in fretta, un rito di passaggio, un terra di nessuno in cui erano permesse l’allegria e la follia.
È stato tra le due guerre mondiali, nella prima metà del ventesimo secolo, che l’invenzione della gioventù ha preso forma ed è diventata una realtà concreta, indipendente, riconosciuta. I giovani diventano un target prima militare e poi, con la fine della guerra, commerciale. Come aveva profetizzato lo psicologo americano Stanley Hall in “Adolescence: Its Psychology and Its Relations to Physiology, Anthropology, Sociology, Sex, Crime, Religion and Education” (D. Appleton and Company 1904), l’adolescenza stava diventando uno stadio separato della vita (Hall la paragonava a una seconda nascita).
Gli adolescenti in età da liceo, anche se erano dipendenti dai genitori, cominciavano a creare una nuova classe sociale che non s’ispirava agli adulti bensì ai coetanei. “Adolescence” s’intrecciava con altri due documenti fondanti del Ventesimo secolo: “Il mago di Oz” di L. Frank Baum e “Peter Pan” di J.M. Barrie, entrambi testi estremamente romantici che con un’incredibile preveggenza esploravano le diverse potenzialità di una sensibilità, se non di una società intera, basata sulla promessa di una giovinezza eterna.
Le ‘Working families’ in cui i bambini lavoravano con i genitori nei campi e nelle fabbriche cominciarono a sparire perché l’incremento della produttività industriale iniziava a creare nuovi surplus consentendo a milioni di ragazzi di stare al di fuori del mercato del lavoro e il nuovo ceto medio americano era indotto a pensare che i giovani, il loro tempo e le loro energie liberate, riversatesi nelle strade potessero diventare una seria minaccia per la società. Stanley Hall, risucchiato in questo dibattito nazionale in quanto più famoso esperto di giovani del paese, rivelò di aver ricevuto centinaia di lettere da genitori e amici preoccupati.
“La domanda contenuta in tutte queste lettere è cosa fare. I genitori o i parenti non sanno più che pesci pigliare e sono disposti a qualsiasi soluzione disperata”.
Le idee di Hall hanno portato la società americana nell’immediato dopoguerra a pensare agli adolescenti come una fetta di popolazione non ancora maturata, ribelle, vulnerabile e bisognosa di protezione.
Sono passati settant’anni, e il dibattito pubblico non sembra essere molto cambiato, da quando la parola teenager è stata coniata gli adulti hanno definito gli adolescenti passando da un’estremo all’altro, continuando a concentrare su di loro le aspettative e le speranze, ma anche le preoccupazioni e le paure per quanto accadrà in futuro. È così che nel nuovo millennio gli adolescenti, nella perenne caratterizzazione mediatica, sono definiti sempre come i poli positivo e negativo di una difficoltà di integrazione o di un radicale cambiamento: ribelli senza causa, leader attivisti, consumatori senza cervello, influencer, nativi digitali e naif.
Ed è così che in un’epoca in cui, come scrive l’economista Edward Castronova in “Synthetic Worlds: The Business and Culture of Online Games“, la nuova generazione, sembra aver deciso un esodo di massa verso i mondi virtuali, la domanda delle famiglie rimane sempre la stessa: cosa fare?
danah boyd, sociologa, Principal Researcher in Microsoft Research e Visiting Professor alla New York University, studia da sempre i comportamenti degli adolescenti in Rete (importanti le sue ricerche sulle proprietà dei ‘networked publics’ e quelle sulle stratificazioni sociali nei social network). Nella vita la boyd conserva lo spirito e un’estetica anti-establishment, (ha un piercing sulla lingua e scrive sempre il suo nome tutto in minuscolo), forse per questo
“It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web” (Castelvecchi 2014) evita molti dei cliché e delle polarizzazioni sull’adolescenza. Il nuovo libro della boyd affronta questo nuovo cambio generazionale con profondità e intelligenza. Scrive la boyd: “It’s complicated”, è: “Un tentativo di descrivere e spiegare le vite connesse dei ragazzi a persone che si preoccupano per loro – genitori, insegnanti, decisori, giornalisti, a volte perfino ai ragazzi stessi”. Per raccogliere il materiale su cui basare le sue riflessioni ha girato gli Stati Uniti dal 2005 al 2012, attraversando 18 Stati e intervistando 166 ragazzi – oltre ad osservarne le dinamiche online sui loro blog e social network. In ogni capitolo la boyd racconta le paure degli adulti mettendole a confronto con le aspirazioni, i bisogni, e soprattutto con il quotidiano degli adolescenti: gli incontri su Skype, invece che nella loro stanze, nei cortili o al parco, gli scambi di sms durante le lezioni, la condivisione dei loro problemi su Facebook. Comprende la preoccupazione dei genitori che i loro figli si possano trasformare in ‘Screenagers‘ ma anche quella degli adolescenti di dover subire un controllo, un’ingerenza che metta a rischio la preziosa intimità della loro vita sullo schermo. D’altronde come osservava acutamente Sherry Turkle nel 1995, in un libro che ha anticipato alcune riflessioni della boyd, “Life on the Screen” (“La vita sullo schermo”, Apogeo 1997), per gli adolescenti il confine tra computer e esseri umani appare sempre più sfumato.
“Ci si rivolge esplicitamente al computer – scrive la Turkle – per esperienze che si spera risultino capaci di modificare il nostro modo di vedere o di influenzare le nostre vite sociali ed emotive.
Quando ci si avventura in giochi di ruolo o mondi di fantasia, oppure quando si raggiunge una comunità per incontrarvi amici e amanti virtuali, non si pensa più al computer come a una ‘macchina analitica’. Si va scoprendo il computer come macchina per l’intimità”. E conclude: “Possiamo vivere in entrambi i luoghi, collegandoli insieme, trasformando sia il fisico sia il virtuale in ‘realtà’”.
“It’s complicated”, si chiama così proprio perché ha il merito di ridare risalto, fin dal titolo, alla complessità del rapportarsi di diversità, di genere, etnia, di condizioni economiche, contesti sociali e culturali complessi fuori e dentro la rete. Dicendo chiaramente che la questione va molto oltre il suo semplice aspetto tecnologico. Prima di tutto, “I ragazzi non sono dipendenti dai social media: sono dipendenti l’uno dall’altro”. Non vogliono Facebook, ma la possibilità di rimanere in contatto con i loro amici che Facebook consente.
Scrive la boyd.
“Molti genitori si chiedono: perché i miei figli sembrano incatenati al cellulare o continuano a scrivere sms agli amici anche quando sono nella stessa stanza? Perché sembrano costretti a controllare Facebook centinaia di volte al giorno? Sono dipendenti dalla tecnologia o stanno semplicemente sprecando tempo? Queste domande diventano molto meno urgenti e difficili quando riconosciamo le motivazioni sociali degli adolescenti. La maggior parte di loro non è costretta a comportarsi così dall’oggetto di per sé: è costretta dall’amicizia. Il dispositivo diventa interessante per loro soprattutto perché ha un fine sociale”.
I ragazzi, vogliono spazi pubblici di espressione e, dato che i tradizionali – dal centro commerciale al parco alla piazza – sono molto più regolati e controllati di prima, e dato che hanno vite sempre più piene, meno tempo libero, tempi sempre più contingentati, si riversano in rete. Dove possono relazionarsi anche mentre fanno tutt’altro, senza che le distanze importino.
“La fissazione degli adolescenti per i propri amici va di pari passo con il desiderio di entrare negli spazi pubblici liberamente accessibili agli adulti. La capacità di accedere agli spazi pubblici a scopi sociali è una componente essenziale del processo di raggiungimento dell’età adulta, ma molti degli spazi pubblici dove gli adulti si riuniscono (bar, club e ristoranti) sono inaccessibili ai giovani”.
Molti adolescenti frequentano scuole fuori dai loro quartieri, vivono in comunità chiuse e sono invitati (spesso dai genitori) a temere gli estranei (la ricerca della boyd fa riferimento alla situazione americana, ma considerazioni simili possono essere valide per la maggior parte delle città europee come è possibile leggere in quest’intervista a Francesco Tonucci “La città dei bambini”). Scrive la boyd.
“Facebook, Twitter e MySpace non sono nuovi spazi pubblici: in molti casi sono gli unici spazi ‘pubblici’ in cui gli adolescenti possono incontrarsi con facilità in gruppi numerosi di pari.
E, cosa ancora più significativa, lo possono fare rimanendo fisicamente a casa. Gli adolescenti mi hanno più volte detto che preferirebbero di gran lunga vedersi di persona, ma che la frenesia e i tanti impegni quotidiani, le difficoltà di spostamento e le paure dei genitori hanno reso impossibili queste interazioni faccia a faccia. Amy, una ragazzina di sedici anni, sintetizza così: “Mia madre non mi lascia uscire spesso di casa, così sto su MySpace, scrivo sms e telefono e questo è praticamente tutto, perché mia madre ha sempre qualche folle motivo per farmi stare a casa””.
Per i genitori e gli educatori che credono che i social media siano pericolosi, la boyd risponde che non c’è motivo di pensare che il ‘celibato digitale’ aiuterà gli adolescenti a diventare più intelligenti, più felici e più sani. Se gli adulti si preoccupano che i loro figli che abbiano perso interesse e amore per il mondo reale e pensano che immergersi nei loro sistemi operativi sia solo un venire a patti con l’esigenza di andare avanti (come nel film di Spike Jonze “Her”), “It’s complicate” offre loro un’interpretazione più positiva.
“Quando gli adolescenti usano i media in rete, stanno cercando di prendere il controllo della propria vita e della propria relazione con la società. […] I social media, ben lontani dall’essere il seducente cavallo di Troia, sono una valvola di sfogo che permette loro di rivendicare la propria e significativa socialità come strumento per gestire le pressioni e i limiti intorno a loro”.
L’insegnamento della boyd in sintesi è questo: se la preoccupazione è che ragazzi passano troppo tempo on-line, la risposta non è quella di staccargli la spina. Genitori, insegnati e urbanisti dovrebbero mettere in campo idee per dare loro maggiore libertà fisica, tempo libero e accesso agli spazi pubblici per accogliere e contribuire a migliorare concretamente le loro abitudini digitali.
Il libro da il suo meglio quando la boyd tratta il delicato tema della privacy. Centra il cuore del problema quando scrive: “La privacy non dipende solo dall’agentività: riuscire a ottenere la privacy è un’espressione stessa dell’agentività”.
I ragazzi hanno più potere e capacità di quanto possiamo immaginare, non sono semplicemente consumatori passivi ma sono creatori culturali con un buon controllo dello script delle loro vite e delle loro esperienze nel mondo digitale. La privacy non è un’entità statica, è un processo attraverso cui i ragazzi cercano di avere il controllo su una situazione sociale gestendo impressioni, flussi di informazioni e contesto. Gli adolescenti, sviluppano strategie innovative per ottenere la privacy, invece di agire limitando la visibilità di alcuni contenuti, sviluppano altre strategie per ottenerla in pubblico. La boyd fa l’esempio della “steganografia sociale”, una sorta di crittografia interpersonale, con cui i ragazzi cifrano in modo creativo i loro messaggi pubblici condividendo una grammatica segreta per nascondervi comunicazioni private. Ad esempio i genitori possono leggere ma non comprendere completamente i messaggi perché vengono utilizzati i testi di una canzone, battute, soprannomi, parole in un codice, tweeting subliminale o ‘subtweeting’ in modo tale che i tweet diventino privi di senso per estranei senza indizi. Dissimulare l’età e la propria posizione geografica sono come l’equivalente tecnologico di scrivere con l’inchiostro simpatico. Un modo per proteggersi e per esprimersi con maggiore libertà.
“Piuttosto che ricercare la privacy controllando l’accesso ai contenuti, molti adolescenti lo fanno controllando l’accesso al significato”.
“It’s complicated” per alcuni versi può offrire una visione un po’ ‘ottimistica’ di come si cresce in rete.
A mio avviso la boyd non esprime una sufficiente attenzione critica al fatto che gli adolescenti, impegnati nei social media ad acquisire, attenzione, reputazione e visibilità, sono immersi 24/7 in reti governate dalle logiche del marketing e della pubblicità, in spazi pensati per estrarre valore dalle loro vite trasformandolo in valore economico. Per questo, economia dell’attenzione e produzione del ‘valore di rete’ sono senz’altro due degli aspetti più problematici dei social media. Su questi temi Nicholas Carr, autore de “Il lato oscuro della rete” (Electa, 2008), riferendosi a Google (ma il discorso potrebbe valere anche per tutti social media) scrive.
“La natura del servizio offerto da Google è tale per cui i milioni di utenti che ne usufruiscono forniscono mano d’opera gratuita alla società di Mountain View: ogni nostra ricerca aiuta a migliorarne gli algoritmi e ad affinare il target degli annunci pubblicitari”.
E più recentemente in “The Cage Glass: Automation and Us” (WW Norton & Co Inc 2014), scrive.
“Lo smartphone, attraverso le sue ridotte dimensioni, la facilità d’uso, la proliferazione di applicazioni gratuite e la connettività costante, cambia il nostro rapporto con i computer in un modo che va ben oltre quello che abbiamo vissuto con i computer portatili”. Questo perché le persone tengono i loro smartphone vicino a loro “dal momento in cui si svegliano fino al momento di andare a letto, e in tutto questo tempo i dispositivi forniscono un flusso quasi continuo di messaggi e avvisi, nonché un facile accesso a una miriade di fonti di informazioni interessanti”. […]
“È un ambiente progettato per creare interruzioni e distrazioni costanti. Lo smartphone, più di qualsiasi altro gadget, ci ruba la possibilità di mantenere la nostra attenzione, di riflettere con calma sulle cose o di rimanere soli con i nostri pensieri”.
Un altro aspetto sul quale porre attenzione è che modificare le impostazioni di default delle applicazioni per limitare la cessione di dati ad aziende o crittografare i messaggi per garantirsi la privacy richiede del tempo e un impegno che pochi sono disponibili a investire. Le recenti rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza della NSA (National Security Agency) sulla vita privata delle persone e la diffusione di slogan come “Do Not Track” contro il data minining di società come Facebook e Google ci fanno capire quanto la nostra privacy sia sotto attacco (tra i file monitorati dalla NSA ci sono cartelle cliniche, bollette, messaggi strettamente personali, foto di bambini in vasca da bagno o che baciano le loro madri, immagini di donne in biancheria intima, quindi nulla di rilevante per la sicurezza nazionale). Ma non abbiamo ancora iniziato a immaginare cosa significa crescere pensando che ogni nostro messaggio in rete è con ogni probabilità sotto osservazione.
A suo credito la boyd, riconosce che il potere degli adolescenti ha dei limiti: i ragazzi a volte, sono oggetto di sfruttamento e diventano vittime di forme di bullismo virtuale. La loro privacy può essere invasa soprattutto perché, come sostiene Joshua Meyrowitz in “Oltre il senso del luogo” (Baskerville 1995), i media elettronici fanno collassare facilmente dei contesti apparentemente disconnessi. Un ‘collasso del contesto’ avviene quando si è costretti ad affrontare nello stesso momento contesti sociali altrimenti senza relazione fra loro e con norme diverse, e che apparentemente richiedono risposte sociali diverse. La boyd scrive.
“Quando gli adolescenti interagiscono con i social media, devono confrontarsi quotidianamente con “contesti collassati” e pubblici invisibili. I loro insegnanti potrebbero leggere ciò che postano per i loro amici e, quando i loro amici di scuola iniziano a parlare con altri amici del campo estivo, potrebbero essere contenti che i due gruppi di amici si mescolino oppure esserne infastiditi. […] Gli adolescenti immaginano spesso che il loro pubblico sia composto dai contatti che hanno scelto di ‘seguire’ o di cui sono ‘amici’, senza pensare a chi effettivamente potrebbe vedere il profilo”.
“It’s complicated” centra in pieno la difficile sfida che deve raccogliere chi si occupa di “culture giovanili”. Penso che il lavoro della boyd (come quello di molti altri autori) cammini all’ombra di Paul Willis e del suo, “Learning to Labor: How Working Class Kids Get Working Class Jobs”, Columbia University Press 1981 (“Scegliere la fabbrica. Scuola, resistenza e riproduzione sociale”, CISU 2012) un testo fondamentale sulla vita quotidiana dei giovani. Willis, sosteneva che i giovani figli degli operai non erano costretti a diventare operai, ma lo ‘sceglievano’ come forma di ‘resistenza’ alle strutture scolastiche che avrebbero permesso la loro mobilità sociale. Quindi dobbiamo pensare la ‘resistenza’ come una componente intrinseca del processo di riproduzione dei rapporti capitalistici che porta spesso a conseguenze non previste. Sarebbe saggio per i ricercatori che si occupano di educazione e di digital divide rileggersi le sue parole. Il desiderio di quasi tutti gli accademici che si occupano di media è quello di dimostrare che attività come l’invio di messaggi di testo, la registrazione e il caricamento di filmati su YouTube, gli aggiornamenti di status su Facebook, i selfie su Instagram sono pratiche distintive e abilitanti.
I vecchi ‘non capiscono’ i giovani sono ‘a posto’. Un modo di vedere le cose che spesso si abbina ad una critica superficiale delle istituzioni scolastiche, che non vengono più considerate come trampolini per la mobilità sociale (in accordo all’ideologia liberale dominante), che vengono invece viste come luoghi di ‘riproduzione’, dove gli studenti vengono inculturati allo scopo di assumere le posizioni e i ruoli loro assegnati nella struttura delle relazioni sociali esistenti. Questa connessione strutturale tra giovani e media si basa su rimozione di fondo: Internet – o Arpanet – hanno compiuto 46 anni, il World Wide Web, 24, il blogging è un adolescente (nel 1997 Jorn Barger, un commerciante americano appassionato di caccia, decise di aprire una propria pagina personale e coniò la parola weblog per descrivere la lista di link del suo sito). Queste piattaforme non possono essere considerate nuove e non sono certamente associabili a una particolare età.
Stan, uno dei ragazzi intervistati dalla boyd, dice:
“Ti sorprenderà sapere quanto poco le cose siano cambiate. Mi sembra che gran parte dell’azione sia la stessa, che sia leggermente cambiato solo il format. È come cambiare il carattere di un testo o lo sfondo del desktop”.
Forse i ricercatori, per rispondere ai genitori quando chiedono cosa fare, dovrebbero cercare di prestare più attenzione a quanto dice Stan.
“It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web” (Castelvecchi, 2014) su Amazon: http://amzn.to/1HDKYaz
“It’s Complicated: The Social Lives of Networked Teens” (Yale University Press, 2014) su Amazon: http://amzn.to/1BlN089
Il pdf libro è scaricabile gratuitamente in lingua inglese: http://bit.ly/19l8x9f
Il sito internet di danah boyd: http://www.danah.org
Il suo account Twitter: @zephoria
Il suo Facebook: http://on.fb.me/1FF5l6y
Lecture alla Politics & Prose Bookstore di Washington: https://youtu.be/9QKq15WyGkA
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