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Condividere non basta. “All That We Share” di Jay Walljasper.
“All That We Share: A Field Guide to the Commons” (New Press, 2011) di Jay Walljasper è un libro appassionante e esasperante.
L’entusiasmo viene dall’ascolto delle molte voci che mettono i beni comuni al centro di un ricco dibattito internazionale per pianificare uno stile di vita autonomo e sostenibile. L’esasperazione, dalla presa di coscienza delle difficoltà e dei numerosi problemi politici, economici e psicologici che dobbiamo affrontare se desideriamo ipotizzare una nuova vita per i beni comuni.
Nella prefazione, Jay Walljasper, giornalista americano, Editor di “Commons Magazine”, racconta com’è arrivato a capire che i “beni comuni” sono un “tema unificante” che lo hanno aiutato a vedere il mondo in modo diverso e lo hanno portato a credere che “più crescerà la consapevolezza delle persone nell’importanza dei beni comuni, più si moltiplicheranno iniziative che faranno la differenza per il futuro delle nostre comunità e del pianeta”. Definire i beni comuni come “What we Share” (ciò che condividiamo) fisicamente e culturalmente – dall’aria, all’acqua al software open-source – significa dire con chiarezza che una società che definisce il successo capitalista come un “veicolo di accumulo individuale incontrastato” è destinata a erodere la nostra umanità e distruggere gli ecosistemi del pianeta. Scrive, Walljasper: “Julie Ristau e Alexa Bradley, organizzatori di progetti comunitari, dicono che molte persone hanno interiorizzato l’ethos, la mentalità di un mercato basato sulla competizione in modo così radicale che credono che qualsiasi azione cooperativa è destinata a fallire”.
Eppure, allo stesso tempo, Ristau e Bradley, due dei molti autori presenti nel libro, rilevano nelle persone:
“un desiderio di speranza, di collaborazione, e di rinnovamento. Vediamo una notevole serie di sforzi per riconnettere le comunità, per rilocalizzare la produzione e la ridistribuzione di cibo, per muoversi verso l’economia cooperativa, per armonizzare la vita con la salute del nostro pianeta. Questi sforzi nascono da un profondo bisogno umano, il desiderio individuare un modo diverso di interagire e di organizzare le risorse che possono aiutarci a ricostituire la nostra capacità di condividere, collaborare e gestire la proprietà”.
Quindi, come scrive David Bollier in “Think Like a Commoner” – libro che abbiamo recensito in questo blog – (e come ‘predicano’ da anni, Kalle Lasn e i media attivisti di Adbuster), se vogliamo sperare in un cambiamento reale, dobbiamo incominciare a de-programmare noi stessi, dobbiamo prendere coscienza che tutta la nostra vita è completamente intrisa da una propaganda pro-mercato.
Walljasper ci chiede una “riconversione completa”, “un cambiamento di paradigma”, di “rivedere i principi fondamentali che guidano da cima a fondo la nostra cultura”. Su questo niente da dire. Purtroppo il libro evita di dirci quali siano i paradigmi specifici che dobbiamo affrontare. Com’è possibile una trasformazione basata sui beni comuni in un’economia che si fonda su principi predatori e su un modello di produzione industriale costruito sul consumo intensivo di energia a basso costo?
Come l’economista Jeffrey Sachs in “The Price of Civilization: Economics and Ethics After the Fall”, Vintage 2012 (“Il prezzo della civiltà. “La crisi del capitalismo e la nuova strada verso la prosperità”, Codice Edizioni 2012), “All That We Share” sembra indicare la strada di un “capitalismo gentile” con mercati più regolamentati, ma non vi è alcun richiamo a un impegno concreto per contrastare gli effetti dei princìpi corrosivi e insostenibili – l’avidità senza limiti e la crescita senza fine – su cui si basa il capitalismo. Possiamo forse aspettarci che questi princìpi evaporeranno magicamente?
Mi domando come faranno i beni comuni a diventare un dominio dei movimenti popolari, piuttosto che come sta accadendo, una nuova linfa vitale per le nuove release della macchina capitalistica. Il “capitalismo cognitivo” 2.0 di Don Tapscott e Peter Drucker o il “capitalismo responsabile” 3.0, per usare un’espressione di Peter Barnes -, mettono in valore dei processi sociali; spingono l’ideologia della ‘Gamification‘ (Tapscott scrive che i giovani desiderano divertirsi e lavorare “dove e quando vogliono”); fanno “saltare” il confine tra tempo lavoro e tempo libero, tra spazi pubblici e spazi privati. O come buona parte della ‘Sharing Economy‘, testa modelli di sfruttamento basati su forme sempre più sofisticate di Crowdsourcing e Crowdworking, esercitando un controllo capillare “dal basso” sulla produttività e sui ritmi di lavoro; parcellizzando mansioni e competenze e distruggendo, un po’ alla volta, ogni forma di organizzazione dei lavoratori.
Se non ci focalizziamo sulla natura intrinsecamente predatoria del capitalismo, è difficile immaginare come le persone possano avere la meglio sui profitti. Nel libro si discute poco dei problemi sociali, psicologici e materiali che nascono nel momento in cui incominciamo a pensare come limitare l’espansione del sistema di produzione industriale, che siamo soliti dare per scontato abbia generato il benessere materiale su cui immaginiamo si fondi la vita di milioni di persone. Una società sostenibile basata sui beni comuni richiede una drastica riduzione dei consumi, ma le persone interessate ai beni comuni affrontano raramente la portata dei cambiamenti necessari (a questo proposito, nel libro, il saggio più interessante è “Our Home on Earth” di Winona LaDuke che parla del “White Earth Land Recovery Project”, un piano per “tornare indietro”, per riconquistare le terre originarie del popolo Anishinaabeg).
Il problema non è che i “beni comuni” non siano un concetto prezioso, ma non possiamo pensare che le teorie e pratiche che li accompagnano possano essere un sostituto di un’analisi critica dei sistemi politici ed economici che li degradano. “All That We Share” documenta numerosi ‘esperimenti’ locali realizzati in modo cooperativo (tutti provenienti dagli Stati Uniti, tranne uno), ma dobbiamo avere la consapevolezza che i limiti dei sistemi esistenti faranno sì che questi progetti vengano etichettati come radicali.
I teorici politici di ispirazione gramsciana, Chantal Mouffe e Ernesto Laclau, in “Hegemony, Radical Democracy, and the Political”, Routledge 2005 (“Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti”, Bruno Mondadori 2007) hanno approfondito il tema della ‘democrazia radicale’, cioè della necessità di non accettare il messaggio che ci viene inviato ormai ogni giorno dell’assenza di alternative politiche e sociali. Le alternative in realtà ci sono, ma implicano una riattivazione del conflitto e un ripensamento delle logiche dello scontro politico. Scrive la Mouffe:
“Il conflitto ha sempre a che fare con relazioni di potere e di egemonia. (…) Il compito fondamentale della politica democratica è creare istituzioni e procedimenti che possano permettere ai conflitti di manifestarsi in una maniera agonistica e non antagonistica”.
Una politica e un’analisi radicale non sono un’indulgenza intellettuale, ma una necessità pratica.
Come modello per i “Commoners”, Walljasper cita la campagna ideologica alla fine del XX secolo delle forze di destra americane per modellare il fondamentalismo di mercato che alla fine divenne politica statale. Walljasper suggerisce che oggi “un gran numero di persone con ideologie differenti” possono unirsi nella battaglia per i beni comuni, e che questa può essere una strada concreta e praticabile. Ma sia le forze di destra, e ad là della apparenze, quelle di sinistra, sembrano voler difendere il capitalismo a discapito dei beni comuni. Tranne che in rare eccezioni si fatica a vedere un contro movimento che abbia la forza politica di mettere in discussione apertamente ed efficacemente l’attuale modello industriale (che continua ad essere ritenuto come un a priori difficilmente modificabile). Può essere che i beni comuni abbiano il potere di trasformare la coscienza delle persone come sembra sperare Walljasper, ma – come suggerisce il lungo sottotitolo al libro, “How to Save the Economy, the Environment, the Internet, Democracy, Our Communities and Everything Else that Belongs to All of Us” – l’idea che promuove ha più il sapore di ’evasione’ che d’impegno’. Alla fine, dobbiamo fare i conti con il capitalismo e con un modello industriale che sono profondamente radicati nei paesi occidentali e questo non può essere fatto in modo indiretto, è un problema di cui dobbiamo essere coscienti e che dobbiamo affrontare a testa alta.
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Una scheda del libro su “On the Commons”: http://bit.ly/1KmBhvO
Il sito internet di Jay Walljasper: http://www.jaywalljasper.com
Il suo account Twitter: @JayWalljasper
Il suo Facebook: http://on.fb.me/1GwYyd1
Jay Walljasper’s Keynote “On the Commons” (Vimeo): https://vimeo.com/31329271
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