commoning

Un’altra famiglia è possibile.

Ci siamo abituati a vederci come individui e consumatori, di conseguenza abbiamo una sempre minore comprensione delle responsabilità che ci riguardano in quanto membri di una comunità.
Certo, ci sono aspetti dell’individualismo che sono stati, e tutt’ora sono, costituitivi, fondamentali, “produttivi”, al fine delle politiche identitarie (penso principalmente alla sessualità o ai movimenti Lesbian, Gay, Bisexual & Transgender), ma credo che in questo momento dobbiamo pensare a un senso di società più collettivo. Ovviamente non sto dicendo che vorrei tornare a un punto zero e dimenticare quello che è successo, al contrario penso che oggi dovremmo ampliare il senso queste lotte cercando di focalizzarle sulle responsabilità collettive che sono state dimenticate nell’ambito delle rivendicazioni individualizzate.
Mi attrae molto l’idea di famiglia allargata. Mi spiego meglio. Penso che un l’elemento costruttivo e positivo nella famiglia sia quello della responsabilità, della cura e della fede che nasce in seno a quel rapporto. Se parliamo di un bambino o di un anziano che si avvicina alla fine, parliamo di responsabilità nei confronti di due esseri, responsabilità che oggi, in una società individualizzata, stanno svanendo. Non intendo negare l’incredibile brutalità che talvolta si consuma in seno alle famiglie. Non sto parlando di tornare a qualche tipo di normativa patriarcale della famiglia, sto solo dicendo che nella famiglia ci sono dei legami importanti, e che potremmo estenderli ad altri rapporti sociali (nei rapporti di lavoro ad esempio). In queste relazioni capita sempre più spesso di perdere la condivisione. Lavoro da più di vent’anni, e quando ho iniziato, c’era un certo cameratismo, un certo spirito di comunione, una certa complicità amichevole tra lavoratori, che è poi quello che il “contratto individuale” ha cancellato (essendo quello il suo scopo). Simili rapporti condivisi, non inseriti in processi “formattati” sono visti con sospetto. Ad esempio i momenti di incontro informale come fumare una sigaretta, prendere un caffè, ecc. che poi, secondo me, erano il piacere maggiore del lavoro, sono stati “formattati” all’interno di spazi dedicati, procedure, dispositivi di controllo indormale messi al servizio della produttività (su questo tema, il libro di Chade-Meng Tan, ex Google, “È facile lavorare felici se sai come farlo”, Corbaccio 2013). Ci viene detto, e noi crediamo, che se vogliamo mantenere il posto di lavoro e quindi continuare ad avere una vita borghese, dobbiamo lavorare con modalità che non prevedono nessuna reale interazione tra esseri umani.
Quando penso all’idea di famiglia, voglio quindi dire che tali legami — non necessariamente di sangue, ma quelli che comprendono responsabilità, impegni, affetti e amore condivisi — sono ancora, diversamente possibili.
Una delle cose più belle degli ultimi anni è stato ritrovarmi a lavorare con i ragazzi. Vedere l’affinità e l’affetto che sono in grado di sentire uno per l’altro, qualcosa di ormai introvabile negli adulti. Per fare un esempio, non vediamo nessuno nei corridoi del nostro posto di lavoro, camminare mano nella mano o a braccetto. Bisogna avvicinarsi alla giovinezza, alla famiglia in un nuovo modo, mettendo da parte gli idealismi e cercando di trovare nuove possibilità al loro interno.

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