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887.
“Ti ricordi, il ricordo di un ricordo di un ricordo”.
Robert Lepage
“Remembering is a noble and necessary act”, Elie Wiesel ha scritto pronunciato queste parole l’11 dicembre del 1986 quando gli è stato conferito il premio Nobel per la pace. “The call of memory, the call to memory, reaches us from the very dawn of history”. Per Robert Lepage le parole di Wiesel sono diventate una specie di mantra.
Robert Lepage può essere interpretato in modi diversi: raffinato sperimentatore della scena d’avanguardia, o grande creatore di fantasie pop, un inventore, col teatro e il cinema, di storie che si seguono con la stessa passione di un serial televisivo. Chi li ha visti si ricorda dell’immenso potenziale di intelligenza, immaginazione e racconto dei suoi spettacoli, ogni volta veri eventi: lo strepitoso “Needles and Opium”, “The Andersen Project“, “Lipsynch“, la bellissima “The Dragon Trilogy“, l’immenso “Der Ring des Nibelungen” di Richard Wagner al Met Opera di New York per cui ha avuto un Grammy Award e “The Seven Streams of the River Ota” nato nel 1994 per commemorare il 50° anniversario del bombardamento di Hiroshima e paragonato “Nicholas Nickleby“, “Angels in America“, al “The Mahabharata” di Jean-Claude Carrière e Peter Brook e a “Einstein on the Beach” di Bob Wilson.
Les Aiguilles et l’Opium / Needles and Opium on Vimeo.
Lepage, canadese, 57 anni, regista, storyteller, ha ricevuto premi da tutto il mondo, fa teatro col linguaggio del cinema e una straordinaria compagnia, Ex-Machina, da lui fondata nel ’94, è tornato a recitare in “887“.
Se in “The Seven Streams of the River Ota” Lepage partiva da Hiroshima per affrontare il tema dell’identità, dei rapporti familiari, dell’amore e dei legami sentimentali, con “887”, il regista tiene insieme racconti multipli in bilico tra memoir e testimonianze storiche.
“887”, dall’indirizzo della via in cui Lepage ha vissuto con la famiglia in Québec (Rue Murray 887), è un tuffo nella memoria personale, intima e insieme collettiva. La domanda da cui scaturisce lo spettacolo è:
“À quoi nous sert-il de nous rappeler? De quelle façon le théâtre fondé sur l’exercise de la mémoire, est-il toujours pertinent aujourd’hui?”.
La memoria è innanzitutto un tema teatrale e specificamente attoriale, ed è proprio da qui che si parte: come spiega l’artista al pubblico, lo spunto per lo spettacolo gli venne da un episodio – vero o presunto che sia – riguardante la sua difficoltà a memorizzare un componimento poetico in occasione del Festival dei 40 anni della Poesia contemporanea in Québec. Il testo poetico “Speak White” (“Parlez Blanc”) scritto da Michèle Lalonde nel 1968 parlava anch’esso di memoria, una memoria politica, la memoria delle vicende del Québec separatista. Il titolo del poema altro non è che l’ingiuria sprezzante rivolta ai franco-canadesi da parte degli inglesi. In qualche modo lo spettacolo a questo punto è già definito: un contesto storico e geografico di riferimento – che unisce, se non tutti, almeno quelli che conoscono la breve ma intensa stagione caratterizzata dal Front de libération du Québec (FLQ) degli anni Settanta – e un racconto autobiografico, quello del giovane Lepage, terzo di quattro fratelli, figlio di un tassista e di una casalinga, che coltiva in giovane età la sua vocazione attoriale.
Alla sensazione di smarrimento di fronte alle numerose banche dati di cui ci circondiamo per archiviare il nostro vissuto tramite ogni genere di dispositivi, Lepage contrappone la memoria umana, associativa e immaginaria, con la sua labilità, con le sue falle, che nel suo continuo rielaborare i ricordi, riorganizzarli è quell’ombra indelebile che ci accompagna e ci plasma nel nostro cammino. Ed è su questo sguardo di oggi sulle vicende drammatiche del passato, personali e collettive, rivissute in scena come un flashback quasi in forma di “terapia psicoanalitica”, che lo spettacolo innesta il suo “patto” con lo spettatore. La memoria cui guarda Lepage non è ovviamente solo quella d’archivio, delle fotografie e dei testi scritti. Remy Charest in “Connecting Flights” intervista Lepage che dice a questo proposito:
“La nostra società ha perso la sua memoria orale. Noi ci affidiamo sempre di più a documenti scritti o visivi per immortalare il passato, per archiviare le cose che ricordiamo, la nostra storia; e come risultato, la nostra memoria non distorce più i fatti filtrandoli, la qual cosa rende più difficile per la storia trasformarsi in mitologia… Le persone si dispiacciono della non affidabilità della memoria, ma dovrebbero esserne felici, e usarla come strumento creativo”.
Con queste premesse non è difficile arrivare alla conclusione che in “887” il racconto della sua famiglia e della Révolution tranquille del Québec, passando attraverso il filtro soggettivo del narratore, diventa una ripetizione “creativa” della vicenda reale, con continue ramificazioni, diversioni, variazioni. Ripetere a memoria a teatro, sembra suggerirci Lepage, rendendo contemporanea la lezione dell’epica, vuol dire rivivere e far rivivere una vicenda, far venire alla luce una situazione e da qui partire per ricrearla, prendendo come guida le parole, i volti che ci hanno maggiormente coinvolto e impressionato. Nel mondo dell’oralità il cantore usava, per aiutarsi nella memoria, il canto, il ritmo, la metrica, oppure scene disegnate, qua Lepage usa non più la tela ma uno schermo, un macchina teatrale-contenitore di immagini prodotte da una molteplicità di ’dispositivi’.
“887” ci dà ancora una volta la dimensione di un Lepage perfettamente in grado di trarre dagli strumenti della quotidianità tecnologica storie teatrali di straordinario respiro: gps, webcam, proiezioni fotografiche e video diventano utili strumenti di storytelling, per evocare luoghi e situazioni. Così mentre Lepage entra in scena chiedendo al pubblico, come fosse una normale prassi di servizio, di spegnere i cellulari estraendo dalla tasca e mostrando il suo, contestualmente mostra in proiezione numeri di telefono della sua rubrica, foto e indirizzi archiviati e memorizzati. Abbiamo demandato al dispositivo elettronico le operazioni di memoria e il ricordo digitale ci può indurre a smettere di avere fiducia nella fragilità della memoria umana e preferire quella digitale, in fondo più precisa e accurata.
L’“887” si trasforma nel corso della storia, nelle foto della famiglia e nei ricordi visivi associati a quel numero, soprattutto quelli del padre: prima bagnino, poi militare in Marina poi tassista. L’edificio in cui ha abitato la famiglia di Lepage è ricostruito in forma di plastico in scena, poco più alto dello stesso Lepage, è una struttura mobile, scomponibile e e praticabile: cucina con arredo, con tanto di tavolo e frigo, sala con tv, ma anche interno di un taxi, un locale notturno, un fast food. Questi momenti hanno il fascino di una commossa rievocazione interiore: la memoria, esattamente come la scenografia che appare e scompare sotto gli occhi dello spettatore, è una scatola che si apre, dove tornano alla luce inaspettatamente dettagli insignificanti collegati a sentimenti personali e dove episodi centrali si perdono nell’oblio.
Tra le teorie della memoria, a legarsi meglio al contenuto dello spettacolo sembra essere quella dell’engramma, o traccia mnemonica che lascia un’alterazione permanente nel sistema nervoso in seguito all’esperienza e all’apprendimento. L’engramma rappresenta la seconda di tre fasi che Richard Semon nel 1904 utilizzò per descrivere la memoria quotidiana: il primo, detto engrafia, nel quale le informazioni vengono codificate nel cervello, il secondo, chiamato engramma, che corrisponde a un cambiamento permanente del tessuto nervoso che conserva il ricordo dell’esperienza e infine il terzo momento, detto enforia, in cui si attua un processo di recupero delle informazioni.
Lepage drammatizza il processo di memorizzazione e visualizzare nella scenografia, l’antica arte mnemotecnica detta anche palazzo della memoria che utilizza come strategia di ricordo, le immagini di un luogo familiare associato a un elemento da ricordare. Questa tecnica richiede di richiamare alla mente luoghi che conosciamo molto bene: la nostra abitazione, una via che percorriamo tutti i giorni o un luogo di cui ricordiamo anche i minimi particolari.
Man mano che Lepage, racconta (e ricorda) i dettagli delle famiglie che la componevano, il plastico del condominio si anima nelle sue sei finestre con balconi grazie a minuscoli video che annunciano le attività e le vite che si svolgono all’interno: una famiglia di immigrati, un pianista che suona sempre Chopin e vive con la madre dopo un incidente, la casalinga bigotta del piano di sopra e la portinaia di facili costumi proprio sotto casa Lepage, infine la signora Penny, inglese, che pur di star via da casa, trova lavoro come cameriera in una sala da tè. Così la sua famiglia, con un fratello maggiore che fa la scelta dell’inglese come lingua, e il condominio di rue Murray, rappresentano in miniatura il Quebec, con la stessa percentuale di francofoni, inglesi e immigrati, attraversata sin dagli anni Sessanta da tensioni e contraddizioni, rivendicazioni e richieste di riconoscimento politico. I personaggi sono presenti in forma di piccole bambole che vengono mosse dallo stesso Lepage a raccontare le relazioni e le loro storie fatte di drammi ordinari. Dentro queste stanze si forma anche la curiosità di Lepage per il teatro, simboleggiato significativamente da un racconto casalingo fatto con le ombre.
La memoria è letteralmente evocata in forma di stanze e camere-scatole e porta Lepage a rievocare episodi della giovanile vocazione teatrale, associati a momenti di bellezza (quando per la prima volta sentì recitare “Gli uccelli” di Aristofane) e a momenti dolorosi e sanguinosi (gli attentati a firma del FLQ, la Crisi di Ottobre e il clima violento del Québec degli anni Settanta). Le note vicende del Front de Libération du Québec, l’organizzazione separatista che aveva come manifesto il volume di Pierre Vallières “White Niggers of America: The Precocious Autobiography of a Quebec “Terrorist”” (scritto in carcere a New York nel 1966) responsabile del sequestro e uccisione del ministro Pierre Laporte (1970) appaiono in scena come flash, disturbi sonori, rappresentazioni di fughe e di paure.
Alcuni momenti teatrali sono memorabili: il discorso in Canada di Charles De Gaulle nel luglio del 1967 passato alla storia per l’enfasi che diede alla frase “W le Québec libre“, con il quale il presidente sembrò sposare la causa nazionalista, viene raccontato con un’azione da teatro di figura con aggiunta di tecnologie. Lepage muove una piccola bambola nascosta nel taschino della giacca e contemporaneamente la riprende con una webcam ingigantendola in proiezione. Ancora, esilarante la richiesta di aiuto di Lepage “smemorato” e in crisi esistenziale e artistica all’amico attore, temporaneamente in un programma di recupero per alcolisti: il monologo avviene tramite una segreteria telefonica che però scatta sempre troppo presto. Ricco di dialoghi che sembrano rubati al cinema, prospettive teatrali come fossero inquadrature, Lepage in 887 ci propone una perfetta sovrapponibilità tra teatro e cinema a cui ha abituato, sin dai tempi di “Poligraphe” (1989), il pubblico internazionale.
Ma tutto lo spettacolo sembra in realtà quasi preparatorio al momento più alto, intenso e vibrante che lascia letteralmente senza fiato la platea: la recitazione, sotto un potente cono di luce bianca che annulla tutto il resto, del poema “Speak White” di Michèle Lalonde. Qui si concentrano la potenza inaspettata di una voce appassionata e drammatica e la forza di una scrittura teatrale che annuncia il senso, la necessità e il valore politico della memoria e che incarna contemporaneamente l’urlo di una generazione a cui non resta altro che “ricordare con rabbia”.
“speak white
c’est une langue universelle
nous sommes nés pour la comprendre
avec ses mots lacrymogènes
avec ses mots matraques”
Il registro emotivo e il coinvolgimento fisico inviano onde d’urto che ci costringono a cimentarsi con i nostri ricordi che provengono dagli ‘anni caldi’ di una storia di soprusi, di paura, di lotta, e di discriminazione che ci riguarda da vicino. Lepage ci permette di sentire scossa di ciò che Wiesel chiama la pulizia “noble and necessary” della memoria.
Quando ricordiamo, riviviamo e non siamo più alla deriva – il dolore ci rende vicini.
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Video.
“887” Trailer (Vimeo 1:28): https://vimeo.com/133663299
“Robert Lepage nous parle de son nouveau spectacle solo: 887” (Vimeo 2:27): https://vimeo.com/125478829
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