ma l'amor mio non muore

Atti di solitudine.

Sto pensando ai crimini compiuti in nome dell’amore, come dell’amore per un paese o per la propria nazione. Quando una comunità, che sia essa una famiglia, un singolo individuo, un gruppo sociale, una nazione attraversa una crisi, una crisi economica (elevata disoccupazione, inflazione), o un crisi sociale (l’afflusso di stranieri) diventa molto difficile superare quella crisi senza aggrapparsi ad un’identità ideale come a una stampella, facendo deragliare se stessi nel fanatismo. Sentire di appartenere è un modo di prevenire questa crisi di identità. Possiamo criticarla e vederne i limiti, ma è inevitabile: in questo momento l’umanità ha bisogno di questa appartenenza per poter sopravvivere.
Il luogo in cui ci sentiamo a posto, che sia la famiglia, la religione, un’etnia, o una nazionalità, è come una cintura di sicurezza di cui non possiamo fare a meno. La domanda è se siamo in grado di slacciarla, quella cintura. Non credo che possiamo farlo ora, forse i tempi non sono ancora maturi. Se io lo facessi ora, mi sentirei nudo.
Ma c’è bisogno che sia così stretta? C’è bisogno di stringere così tanto sino a impedire di muoverci? Il rischio è che un po’ alla volta ne restiamo soffocati. Allora, possiamo allentarla un po’? Io credo che questo sia possibile, ma non senza fare un grosso sforzo come individui, né senza ripensare al nostro modo di concepire la democrazia.
Vorrei fare un esempio di come potremmo allentare la nostra struttura identitaria, la cintura di sicurezza. Ultimamente stanno uscendo moltissimi nuovi libri che raccontano storie d’amore. Un’amica qualche tempo fa mi disse: “gli scrittori fanno bene a continuare a scrivere storie d’amore, ma nessuno sa come si sta da soli”. Sono rimasto molto colpito da quella frase, perché la mia amica non intendeva dire che faremmo meglio a starcene da soli. Credo piuttosto, che pensasse alla patetica e bizzarra fame del pubblico per le storie d’amore, all’incapacità di stare da soli. Non solitudine ma “esseulement”.
Donald Woods Winnicott parla di “essere-uno-con”, ovvero l capacità di unificarsi, di costruire uno spazio autonomo per se stessi, che è poi una forma di solitudine, la capacità di stare da soli.
Winnicott in “Gioco e realtà”, (Armando editore 2001), scrive:

“Questo senso di essere qualcosa di anteriore all’essere-uno-con perché non esiste ancora null’altro che l’identità”.

Winnicott crede che possediamo fin dalla nascita un’autonomia originaria e, ad esempio, senza tale autonomia un feto non lascerebbe mai l’utero. Si tratta ovviamente di qualcosa di molto fragile perché, come sappiamo tutti, un bambino ha bisogno della madre, e questo essere con, questo rapporto con se stessi, continua a svilupparsi nel corso di tutta la nostra vita, attraversando fasi distinte che possiamo imparare a riconoscere. Dovremmo idealmente raggiungere un punto in cui riusciamo a tollerare la solitudine, e credo sia questa capacità a generare la creatività che ci serve per imparare a stare da soli.
Dobbiamo essere in grado di avere un rapporto con noi stessi, a livello biologico e intellettuale, e questo rapporto è un modo di sostenere la solitudine, invece di fare affidamento esclusivamente sul mondo esterno. Questo è il punto.
Chi è preparato alla solitudine è preparato anche a relazionarsi con gli altri, nel senso di prendersene cura, senza questo, rimaniamo inevitabilmente confinati in uno stato di bisogno costante e ci possiamo consumare per il modo in cui quell’amore diventa divorante. Per quanto riguarda l’individuo, quindi c’è ancora molto lavoro da fare prima che si radichi quel senso dell’uno-con, che è poi una sorta di indipendenza originaria, un valore fondamentale della civiltà contemporanea. È importante, poiché può insegnare alle persone a rapportarsi con gli altri senza richieste e aspettative. Chiediamo sempre qualcosa allo stato, alla scuola, alla nostre famiglie, ma cosa diamo loro indietro se mai riusciremo a diventare indipendenti? Dobbiamo lavorare sull’idea di democrazia. C’è sempre stata una tendenza a fare affidamento su una collettività, come una monarchia o una repubblica, che trattiamo come divinità, dalle quali dipendiamo e che si dovrebbero prendere cura di noi. L’idea è che sperimentiamo la repubblica come se fosse una struttura onnipresente, che malgrado i suoi aspetti repressivi e dogmatici, ci promette di fornirci qualsiasi cosa e dalla quale decidiamo di dipendere per la nostra sicurezza, per ottenere la nostra salvezza. La realtà è che preferiamo questo stato al rischio a una vera democrazia. Una democrazia che si basi su un dialogo continuo tra individui indipendenti ci terrorizza, ma è questa la democrazia che dobbiamo impegnarci a costruire.

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