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La vita segreta di Jackson Heights.
Nel mese di giugno del 2015, Frederick Wiseman, l’ottantacinquenne maestro del cinema documentario americano, non aveva abbastanza soldi per terminare il suo 42° film girato nel quartiere di Jackson Heights nel Queens. Spinto dalla Zipporah Films, la casa di produzione di Wiseman, ha quindi deciso di tentare la strada di Kickstarter.
Anche per un grande autore come Wiseman, raccogliere fondi per i documentari non è mai stato facile. Durante i suoi 50 anni di carriera la raccolta fondi ha rappresentato principalmente un impegno privato e avviare una campagna di crowdsourcing rappresentava per lui un’esperienza completamente nuova che lo ha messo a disagio.
“Ciao sono Fred Wiseman” dice il regista nello scarno video di presentazione del progetto. “Faccio documentari dal 1966”. L’espressione è stanca, e una presentazione non particolarmente brillante unita alla bassa qualità del video, mostrano un uomo poco convinto che probabilmente avrebbe preferito seguire strade più “tradizionali” piuttosto che essere lì a parlare di sé di fronte a una telecamera.
L’obiettivo di raccogliere 75.000 $ con Kickstarter non va in porto e per finanziare il film la casa di produzione decide posticipare il rientro dell’investimento con gli incassi che arriveranno dalle proiezioni del documentario, dalla vendita del dvd e dai passaggi televisivi. “Il crowdfounding è un’esperienza che certamente non ripeterò”, ha detto Wiseman in un’intervista. “Può andare bene per alcune persone, ma io ho trovato la cosa decisamente umiliante”.
Kickstarter a parte, nella sua lunga carriera Wiseman non ha mai accettato compromessi. I suoi film, come ama dire, sono studi sulle “istituzioni” che hanno sempre indagato temi complessi con uno stile che si è distinto per il minimalismo narrativo.
Ma l’istituzione, e le persone nel rapporto con essa, vuoi che sia un manicomio criminale, come il documentario di esordio “Titicut Follies” (1969) – bloccato per più di vent’anni negli States – o “La Danse” (2009) sul corpo di ballo de l’Opéra National de Paris, sono il nucleo nel lavoro di Wiseman, che a partire da uno spazio definito costruisce le sue storie, racconti di individui e metafore umane, politiche, poetiche. Un “metodo” (in apparenza) semplice e consolidato, che si permette poche variazioni. Ogni film è un viaggio in un pianeta diverso con cui negli anni, e in una filmografia lunghissima, ha inventato un modo unico di guardare il mondo.
La realtà come la filma Wiseman non è raccontata attraverso interviste, o primi piani di teste parlanti, al contrario è fatta da individui colti nel loro quotidiano di un “ecosistema” cha appare sempre fragile, immersi in una società che il sociologo tedesco Ulrich Beck ha chiamato “Risikogesellschaft”, la “società del rischio”. Senza retorica o enfasi di lacrime e seduzioni sentimentali. Con i personaggi non interagisce mai, non si palesa, non fa domande, mentre si sente la presenza della macchina da presa, ma al tempo stesso è come se non ci fosse.
Dice Weisenman:
“La vita di tutti i giorni è paragonabile a un film di fiction, triste, drammatica, divertente, devi solo essere fortunato e riuscire a catturarne i momenti essenziali. Molti documentaristi pensano che i loro film possano cambiare il mondo, un punto di vista che a me non interessa. Io approccio ogni soggetto senza aspettative, con la mente aperta, senza un punto di vista prestabilito, sono pronto a tutto, non mi aspetto niente, perché altrimenti limiterei le mie scelte e di conseguenza il risultato del film”.
Con “In Jackson Heights”, Wiseman racconta per la nona volta una delle tante facce di New York, la complessità della città e delle sue istituzioni osservate attraverso la vita dei newyorchesi: l’American Ballet Theatre (“Ballet”), il Central Park (“Central Park”), il mondo della moda (“Model”), la scuola pubblica (High School II) , l’ippodromo di Belmont Park (“Racetrack”), il New York’s Metropolitan Hospital (“Hospital”), il Madison Square Garden (“The Garden”), il sistema del welfare (“Welfare”), in quello che è forse il suo film più bello, più importante e artisticamente riuscito, che mostra l’assurda complessità di un sistema che dovrebbe assistere e supportare chi ne ha bisogno, mentre per sua stessa natura non fa che ostacolare e umiliare quelle stesse persone che vi si rivolgono in attesa di un sostegno a cui in teoria hanno diritto ma che potrebbe non arrivare mai. E infine, ancora in lavorazione è l’ultimo progetto che uscirà nel corso del 2017, “Ex Libris: New York Public Library” in cui Wisenman analizza come un’istituzione culturale centrale per la città sostiene le attività tradizionali e si adegua alla rivoluzione digitale. Quelle che descrive il regista americano, sono macchine economiche, culturali, commerciali, sportive, assistenziali, educative, finanziarie, nei cui ingranaggi non meccanici, le persone compongono e disfano le proprie soggettività, in cui la gente vive e lavora ogni giorno, con tutta la bellezza e la brutalità che ne consegue. Sono macchine che assorbono e i riti e i ritmi della città.
Jackson Heights, un quartiere situato nella zona nord-est del Queens è una delle comunità etnicamente e culturalmente più eterogenee degli Stati Uniti. Ci sono immigrati da ogni paese, Europa, Sud America sono largamente rappresentate ma non mancano nemmeno, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, India, Cina. Questo è il terzo film di Frederick Wiseman che di fatto chiude una trilogia sulle comunità intrecciata ad un prezioso ritratto della vita contemporanea, gli altri sono “Aspen” (1991) e “Belfast, Maine” (1999).
A Jackson Heights si parlano 167 lingue, nel quartiere vivono immigrati di prima, seconda e terza generazione, resistono ancora i piccoli negozi di quartiere, si studia inglese per diventare cittadini americani, si sfila per le strade con orgoglio LGBT, si celebrano santi, si macella la carne halal e kosher, si cucina nei forni tandoori, si chiacchiera seduti sui marciapiedi davanti casa, ci si riunisce in comitati per i diritti di cittadinanza e per tutelare il piccolo commercio della zona che rischia di essere fagocitato dalle grandi catene, si vive sotto alla sopraelevata di Roosevelt Avenue, dentro ad apartment buildings scarsi di fascino ma che incominciano ad attrarre professionisti e famiglie da oltre l’East River.
Anche questa volta il principale interesse dell’autore è quello di osservare e raccontare “come la gente in America organizza la propria vita attraverso le istituzioni”, in questo caso come vive la gente in un quartiere che è il più diverse al mondo in termini linguistici, etnici e culturali e come si relaziona alle istituzioni di quel territorio, quelle che rappresentano la gente a tutti i livelli – religione, scuola, uffici municipali, associazioni.
Weisenman ne parla in questo modo:
“Non ho fatto un film per dare voce ad un gruppo particolare di persone. Mi interessava esplorare quella parte di New York, comprendere quali situazioni e dinamiche si sono instaurate a Jackson Heights fra i gruppi con differente orientamento sessuale, etnia ed estrazione sociale. In generale l’integrazione è un tema che attraversa tutto il mio lavoro. Ciò che accade agli immigrati, sia quelli senza documenti che quelli legali, ai gay, alle lesbiche, ai trans, mi interessa molto perché ci racconta verso dove va una società. Jackson Heights è nata diversa, è un vero e proprio laboratorio. Non so per quale motivo sia diventata un’area che ha raccolto così tante persone da ogni parte del mondo, probabilmente all’inizio gli alloggi erano a basso prezzo e si è abbastanza vicini a Manhattan. Non bisogna dimenticare che è stato uno dei primi luoghi scelti da ebrei, italiani e irlandesi e nel film vediamo i discendenti di quegli immigrati. Lavorare su comunità così numerose fa sì che sia molto più frutto del caso ciò che si trova e ciò che si filma. Per puro caso ero in giro quando la comunità ha deciso di pulire le strade a Jackson Heights. Quando filmi una zona così ti affidi anche al passaparola, alle informazioni in cui ti imbatti”.
New York si trova ad essere al centro delle mire espansioniste di grosse aziende che non trovano spazio utile nell’affollatissima Manhattan. Cosa significa questo dato meramente economico? Significa innanzitutto mutamento geopolitico della zona, che si trasforma in problema sociale per una vasta fetta di working class a basso reddito e quindi in una riflessione antropologica per Wiseman. Il film è questo e molto di più: sonda i problemi di singole persone e li espande senza nessuna forzatura al mondo intero, alla collettività come problema etico universale, alla nostra comunità travolta nel nuovo millennio da cicliche crisi finanziarie e migrazioni drammatiche e urgentissime.
“Ho scelto Jackson Heights perché è un quartiere che riflette tutto ciò che accade in tutto il mondo occidentale. E poi ero consapevole della grande diversità della popolazione. In molte inquadrature si vedono ispanici di recente immigrazione che vengono trattati molto male, ma ci sono anche delle organizzazioni che cercano di aiutarli. Sono contrario alle generalizzazioni, cerco di vedere ciò che avviene sul terreno. L’America è un paese di immigrati. A Jackson Heights gli immigrati del Sud America e dell’Asia vivono e lavorano al fianco dei discendenti degli immigrati del XIX secolo, provenienti dall’Europa centrale e occidentale”.
La decisione Wiseman di girare un film sul quartiere non è nata da un’improvvisa epifania o è emersa a seguito di ricerche approfondite. Il figlio di immigrato russo che viveva nella zona era interessato a realizzare un film sui nuovi residenti, e sugli amici che vivono a Jackson Heights e lo ha invitato a visitare il quartiere. “Ho fatto un giro e dopo un po’ ho deciso che Jackson Heights sarebbe stato il mio successivo film”, ha detto il regista.
Prima di iniziare le riprese, il Wiseman ha contattato numerose organizzazioni presenti nella comunità, i leader civili, gli attivisti, i rappresentanti delle istituzioni, costruendo un rapporto di fiducia e di rispetto con le “fonti locali” o preferisce chiamare gli “informatori”, questo approccio diretto ha contribuito ad aprirgli le porte del quartiere.
“Rispetto molto le persone che si impegnano socialmente, ammiro lo sforzo degli attivisti che a Jackson Heights hanno contrastato le speculazioni dei grandi proprietari immobiliari. Il film è servito anche a portare alla luce il loro egregio lavoro. Il sindaco attuale di New York è a favore dell’impegno di questi attivisti ma si trova sotto pressione da parte di grossi gruppi. Quando lavoro non penso mai alla destinazione, non ha senso interrogarsi sul pubblico che è eterogeneo, viene da educazione ed esperienze differenti, fruirà il film in modo diverso: chi in sala, chi in tv. Faccio già fatica a capire cosa penso io, non ho fantasie sulle reazioni degli altri”.
Wiseman ha lavorato al documentario 12 ore al giorno, per nove settimane con una piccola troupe formata da John Davey, il suo cameraman storico e con un assistente.
“L’analogia per fare film come questi è Las Vegas, perché è sempre come un lancio di dadi. L’unico modo è iniziare e continuare a starci abbastanza a lungo, in questo modo prima o poi troverò il mio film.”
Come i suoi precedenti lavori, “In Jackson Heights” non ha una struttura narrativa convenzionale, ma piuttosto è un mosaico che, nel suo insieme, compone un arazzo sociale e politico invitandoci a riflettere e ponendoci domande su temi come l’immigrazione e l’integrazione, sui lavoratori, sui diritti degli immigrati, sui gay, sulla speculazione edilizia e la gentrificazione (ho parlato di gentrificazione e delle trasformazioni urbane nelle città americane in: “Città ribelli. Dal diritto alla città alla rivoluzione urbana. David Harvey”.
In Jackson Heights Official Trailer from Zipporah Films on Vimeo.
Il documentario racconta una passeggiata nel quartiere Jackson Heights, della durata di qualche giorno. Giorno e notte si alternano, e si susseguono le riunioni, le iniziative, ma anche le chiacchiere quotidiane. Wiseman ci accompagna in alcuni negozi e ci rende partecipi della crisi dei piccoli lavoratori, costretti a fare concorrenza a un negozio della catena Gap aperto dietro l’angolo; si infiltra nelle riunioni degli immigrati in cui in cui si raccontano le drammatiche esperienze al confine o quelle per farsi dare uno stipendio decente, entra negli incontri della comunità LGBT, nelle manifestazioni e le sue lamentele contro le discriminazioni; e infine segue i festeggiamenti di tifosi della nazionale colombiana, una festa di compleanno, un confronto fra due anziane signore, una delle quali ritiene che i soldi possono comprare tutto, anche l’amicizia, e tanti altri piccoli accadimenti che Wiseman prende come spunto per riflettere sulla diversità.
In Jackson Heights – Immigration on Vimeo.
In Jackson Heights – Gentrification on Vimeo.
In Jackson Heights – Community on Vimeo.
Infatti la comunità di Jackson Heights diventa una sintesi dell’intera umanità, nelle sue più disparate forme/aspetti/condizioni di vita. Wiseman si sofferma sui volti tramite numerosissimi primi piani, e rimane implicitamente affascinato dalle capacità cooperative di persone sempre sul punto di perdere tutto, e sempre intenzionate a risollevarsi spesso con il sorriso sul volto, e qualche illusione dimenticata (l’anziana che scopre che tutti gli attori che adorava da giovane si erano rivelati omosessuali). La regia invisibile del regista americano rende tutto privo di moralismi, e non è mai invadente nei confronti dei drammi dei singoli, perseguiti con passione e interesse. E alla fine tre ore e dieci passano in un lampo quando le immagini sanno ricostruirsi con tanta cura nel lavoro di montaggio (ci sono certi raccordi, tra le varie sequenze, indimenticabili), e viene data un’idea di umanità che è solo quella che è, e che il grande cinema ci ha fatto esperire finalmente per intero, con Wiseman che alla fine con la sua cinepresa va sempre più indietro, sempre più in alto, finché non si intravedono i palazzoni di Manhattan, e si ristabiliscono le distanze.
Wiseman esplora il quotidiano in cerca di un dramma, di umorismo del significato delle cose. Un piccolo cane vestito con la maglia di calcio del Messico nella vetrina di un negozio di animali. Una performance musicale in una lavanderia a gettoni. Un cliente che aiuta una negoziante a riparare il braccio spezzato di una piccola statua di Gesù.
Le mani di una estetista che su muovono in modo ipnotico sul viso di una cliente.
In Jackson Heights – Diversity – LGBT on Vimeo.
In Jackson Heights – A Jewish Community Center in Jackson Heights on Vimeo.
In Jackson Heights – Diversity – Temple on Vimeo.
In un video realizzato da PBS (la Public Broadcasting Service è un’azienda no-profit statunitense di radiodiffusione pubblica che appartiene ad un consorzio che rappresenta 349 stazioni televisive pubbliche nazionali), si vede Wiseman percorre in silenzio i luoghi in cui ha girato il documentario. Come nei suoi film, il silenzio serve a far emergere i suoni degli ambientali e delle strade, il medley di lingue, lo stridio metallico e assordante della metropolitana, le grida dei venditori, il traffico e il suo tripudio clacson.
“C’è così tanta musica per le strade, ho cercato di usare il suono dei luoghi per collegare le scene”.
Una passeggiata con Frederick Wiseman. Intervista PBS. on Vimeo.
Il film di Wiseman mi ha ricordato un libro pubblicato da poco Suketu Metha, “La vita segreta delle città” (Einaudi 2016) e qualche riflessione su come stia cambiando la narrazione delle città contemporanee. Si tratta della raccolta di una serie di letture fatte da Mehta (noto per aver pubblicato nel 2008 “Maximum City. Bombay città degli eccessi” (Einaudi) nelle università statunitensi, su temi come urbanizzazione, gentrificazione, migrazione, interlocalitá, concentrandosi in particolare – nuovamente – su quei luoghi che lo scrittore conosce meglio, due su tutti: New York e Bombay.
Metha conduce le sue letture utilizzando esplicitamente tecniche da “story-teller” e contando anche su un efficace apparato documentativo.
Fare esperienza dei quartieri come Jackson Heights ci dice Mehta, è importante perché ci ricorda che ogni città è molte città in conflitto tra loro: narrative centrifughe che si oppongono alla narrazione ufficiale venduta alla classe multinazionale dei super-ricchi.
Scrive Metha:
“Nel 1975, quando il comune di New York stava per fare bancarotta, il banchiere che mise a punto un piano di salvataggio espresse le proprie riserve su come New York si raccontava: una città spendacciona e infestata dal crimine, troppo preoccupata dalla previdenza sociale, troppo accogliente nei confronti delle masse provenienti da Portorico e altri paesi poveri.*
*Era necessario che la storia cambiasse: la città doveva diventare una mecca per il turismo per il resto del paese, e attirare i turisti europei allarmati dalla deriva sinistrorsa dei propri governi. New York deve rivolgersi all’Europa e dirle: dammi i tuoi ricchi!”.
La New York degli anni ’70 costituisce ancora il modello di success story di riferimento per le città di tutto il mondo, che hanno imparato a vendersi sul mercato globale come veri e propri brand: un processo di cui fanno parte allo stesso modo i mega-eventi come le Olimpiadi, la costruzione di grattacieli sempre più alti o di intere isole artificiali e la gentrificazione manipolata dalle agenzie immobiliari. Lo scopo è sempre lo stesso, attirare capitali.
Può il successo di una città essere controproducente? Una città dove il tasso di criminalità è basso, la metropolitana puntuale, la cultura cosmopolita e i ristoranti stellati? Sì, perché questo significa che non te la puoi permettere. E una cosa è essere escluso se sei un nuovo arrivato, un’altra è quando gente appena scesa da un aereo ti esclude da un luogo dove la tua famiglia vive da quattro generazioni.
Il punto sollevato qui è meno scontato di quello che potrebbe sembrare a prima vista, perché ci costringe a ripensare a quello che consideriamo desiderabile nel posto in cui viviamo. Per ottenere una città più vivibile ed economicamente sostenibile dobbiamo accettare di perdere parte del nostro controllo: accettare che le nostre città siano luoghi di tensioni e conflitti, le cui narrative si sottraggono alle proiezioni del nostro desiderio; e dunque – e questo è il punto del discorso di Metha più difficile da accettare per una sensibilità occidentale – dobbiamo essere pronti ad accettare nelle nostre città anche un margine di illegalità.
Se c’è qualcosa che le città occidentali contemporanee stanno perdendo è questa capacità di produrre narrative, perché hanno deciso di barattarla con una storia più redditizia: quella che racconta il tessuto urbano come un concentrato di commodities.
Per questo non è sbagliato dire che la crisi della città contemporanea è prima di tutto una crisi della narrazione della città: quel palinsesto che dovrebbe contenere le tracce di tutti i suoi abitanti invece ne contiene solo una. Qui entra in gioco la psicogeografia e la sua capacità di frantumare la narrazione unitaria del luogo – la famosa definizione di Michel De Certeau del camminare come “processo dell’essere assenti” e del pedone come “bracconiere” di narrative alla deriva nella metropoli.
Suketu Metha in un’intervista rilasciata a Sara Marzullo per la rivista online The/Towner sollecitato dall’intevistatrice parla del quartiere di Jackson Heights, del documentario di Wiseman e della necessità di dare una nuova dimensione al racconto delle metropoli contemporanee, un percorso che Wiseman ha anticipato e su cui continua a dare contributo fondamentali.
Dice Metha:
“Personalmente ho amato il documentario di Wiseman e, per dirla tutta, ho lottato perché vincesse il premio della Municipal Art Society di New York, di cui sono giurato. Per me aveva anche un valore personale: Jackson Heights è il posto dove sono andato alle medie, dove mi sono trasferito quando sono arrivato in America a 14 anni e dove poi ho vissuto i successivi otto anni; la mia fascinazione per questo posto è tale che gli ho dedicato una sezione molto ampia nel libro su New York, che sto preparando da anni. Il documentario parla molto di citizen democracy, di politica fatta a livello locale, come il percorso di chi deve sostenere gli esami per la cittadinanza, la parata del Gay Pride o i comitati di quartiere: Jackson Heights, insomma, è molto più di un posto dove si parlano 170 lingue diverse (nell’intera New York se ne parlano addirittura 800.
Crescendo là, ho capito che Jackson Heights è il modello di come dovrebbe funzionare una città. Qui le persone vivono insieme e negoziano le loro differenze, differenze vere, ma è una questione che va ben al di là della tolleranza; per esempio: nel palazzo dove sono cresciuto, abitavano persone che prima di venire qui si sarebbero uccise tra loro, pachistani contro indiani, domenicani contro haitiani, e persino la tavola calda greca al piano terra era di un turco. Il punto è che non è che non fossimo diversi, ma che avevamo trovato un modo per scendere a compromessi. Wiseman è bravo a farcelo vedere chiaramente, per questo vorrei che questo documentario lo vedessero più persone possibile, specialmente in Europa, dove le città hanno bisogno di escogitare un modo per negoziare le differenze.
Quando scrivevo il mio libro su Bombay, la sfida che doveva affrontare questa città era come accogliere un milione di persone che stavano arrivando là da tutte le parti dell’India, mentre la sfida che New York, Parigi, Roma o Amsterdam devono affrontare adesso è come accogliere forse non un milione, ma migliaia di persone, che però vengono da tutte le parti de mondo, ovvero devono comprendere come rendere la città una cosmopoli. In questo processo è fondamentale lo storytelling: quando parlo di come andavano le cose a Jackson Heights non dovete immaginare che ci sedessimo e ascoltassimo l’uno i problemi dell’altro; era piuttosto attraverso i racconti che risolvevamo le questioni: invitavamo i pachistani a casa e gli offrivamo chai e samosa e così scoprivamo che li avevano anche loro e che le nostre nonne si assomigliavano e così via; ecco, è così che sono sopravvissuto alle difficoltà che ho avuto trasferendomi: grazie allo scambio di storie, di memorie. È per questo che nel libro non parlo molto di norme e di politiche, perché volevo che questo fosse un libro di storie e di storie della città. Sono convinto che siano proprio le storie non ufficiali delle città quelle che ne raccontano la verità”.
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