s'entrevoir

La danza come linguaggio comune.

Già nel suo nome si legge una storia di meticciato, Thierry Thieû Niang, artista franco-vietnamita, ha scelto di esprimersi attraverso il linguaggio universale del movimento, della danza, anche se è grazie al teatro che ha raggiunto la notorietà internazionale.
Personalità generosa, semplice e aperto, profondo e leggero, da anni realizza parallelamente, produzioni con artisti professionisti di diverse discipline e progetti di creazione partecipativi che coinvolgono le comunità più diverse, dagli adolescenti agli anziani, dai detenuti ai rifugiati.
Thierry Thieû Niang è un danzatore e coreografo che dalla metà degli anni ’90 ha realizzato progetti di creazione che hanno coinvolto sia artisti provenienti da diverse discipline che persone comuni, come bambini, anziani, detenuti, persone autistiche. Nelle sue vene c’è un po’ di Asia, un po’ d’Africa e un po’ di Europa.

I suoi lavori e le sue collaborazioni sono innumerevoli, tra le più note e significative quella con il regista di teatro e cinema Patrice Chéreau. L’abbiamo incontrato per parlare del “Une jeune fille de 90 ans”, documentario di Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, prodotto da Agat Films & Cie con la partecipazione di ARTE France girato in un ospedale della periferia parigina che ospita malati di Alzheimer, ma non solo.

Tra i suoi progetti più noti, “…du printemps!”, risultato di un workshop di danza durato sette anni con venticinque danzatori tra i sessantadue e i settantacinque anni. Un workshop che è diventato uno spettacolo rappresentato centinaia di volte e un film.

…du printemps! – Thierry Thieû Niang et Jean-Pierre Moulères on Vimeo.

In questo incontro Thierry Thieû Niang racconta e afferma la sua poetica ed estetica che nasce e si nutre nell’incontro con l’altro.

S’entrevoir. Thierry Thieû Niang da anni affianchi le collaborazioni per spettacoli d’opera o di teatro ad atelier partecipativi, perché hai deciso di lavorare contemporaneamente su questi due livelli?

Thierry Thieû Niang. Quello che m’interessa è l’altro. Il corpo di un altro, che esso sia di un danzatore, di un musicista o di un attore, di un bambino o di un anziano. Che siano corpi con degli impedimenti o meno, con diverse esperienze, tecnica, maturità, curiosità. Il mio movimento lo cerco nel movimento dell’altro, questo lo posso trovare nel corpo di un bambino che non riesce a smettere di muoversi, o in quello di un detenuto che ha dei movimenti limitati. A un certo punto della mia storia mi sembrava di essere troppo nel mio sé, in una danza contemporanea francese in cui tutti più o meno avevamo la stessa tecnica, eravamo della stessa generazione, avevamo tutti la stessa storia, avevo bisogno di altri corpi che mi facessero reinventare la mia danza.

S. Quanto c’è di autobiografico in questa scelta.

TTN. Mah, direi che c’è un buon quaranta, forse cinquanta per cento, l’autobiografia c’è per il meticciamento, mio padre è del Vietnam, ma i suoi nonni provenivano dal Senegal, mia madre è di Strasburgo cresciuta sotto un regime tedesco, c’era dunque qualcosa nella mia famiglia che riguardava l’incontro, l’ibridazione, che mi portava a domandarmi: cosa faccio con una mamma protestante e un papà buddista? Per entrambi i miei genitori il francese non rappresentava la lingua materna, credo che la questione dello strano-straniero faccia parte della mia storia. Poi forse ho dovuto danzare perché ero perduto nelle lingue e ho cercato una lingua universale, come io considero che sia la danza, forse perché ero un bambino timido e attraverso lo sport e poi la danza sono riuscito a trovare un mio posto nel mondo. C’è poi una questione di classe sociale, mi considero un transfuga di classe. Genitori immigrati, di classe operaia, con pochi studi: l’accesso al mondo e alla cultura per me è avvenuto con la scuola e non attraverso la famiglia. Sì credo che sia stato anche una sorta di complesso di classe. Oggi mi ritrovo a rappresentare una cultura francese ufficiale, ma la mia famiglia benché orgogliosa del mio lavoro spesso si sente inadeguata e pensa di non avere gli strumenti per capire. Uno dei problemi della nostra società è che le arti sono percepite come le arti del Re, del potere anche se cerchiamo di democratizzarle, ad esempio come io faccio andando a danzare nelle prigioni, nelle scuole, negli ospedali, tutto ciò non è ancora dato per scontato, bisogna andare sempre più verso le persone e dirgli che quel lavoro è per loro, e anche se non ne conoscono i codici è già loro.

S. Incontri spesso corpi con piccoli o grandi impedimenti, ma anche corpi che hanno fatto del proprio corpo un mestiere. Cosa significa dunque l’incontro con l’altro corpo?

TTN. La domanda mi fa pensare a Pina Bausch che diceva, non lavoro con danzatori o danzatrici, lavoro con degli uomini e con delle donne che danzano. Quando lavoro con dei danzatori professionisti, ciò che m’interessa è la persona che sta dietro quel danzatore. Cosa la spinge a danzare? La sua storia? La sua cultura? Quando realizzo degli spettacoli con degli adolescenti o con degli anziani è lo stesso pensiero che mi accompagna. Possono essere persone che danzano, molto, poco, con passione, non danzare affatto, ma in cui intravedo in loro una danza possibile. Ed è questa danza possibile che mi dà la voglia di lavorare con quella persona. Credo che dobbiamo smetterla di specializzare le arti, i nostri mestieri. Quello che intendo specializzare è mia scrittura e come attraverso quel corpo io possa creare una scrittura comune che passerà da un corpo all’altro, che racconterà un’emozione, un gesto astratto o meno. Cerco il gesto giusto e la tecnica in seguito perché faccio appello all’immaginario, al sensibile alla relazione, allo spazio, agli altri corpi. Quei corpi mi mettono in danza, mi mettono alla ricerca, in movimento, e posso così scrivere una coreografia.

S. Parlare di mediazione culturale per te ha radici profonde, inizia oltre vent’anni fa. Affermi che la tua non è arte-terapia ma un lavoro di creazione. Il rischio di fare confusione è però alto, puoi spiegarci qual’è la differenza?

TTN. A riguardo della mediazione è successo che a un certo punto le arti hanno dovuto essere il medium tra ciò che succedeva in scena e le persone che erano nella sala. Noi artisti siamo stati chiamati per fare qualcosa nella ricerca di nuovi pubblici. Per una decina di anni la cosa ha funzionato, ma poi il pubblico era sempre lo stesso. Con un po’ di confusione si è pensato: “Ah geniale! Tutti gli artisti faranno della mediazione”. Ma non tutti gli artisti ne avevano Vogli a e lo sanno fare. Si è artisti e non necessariamente pedagoghi, o animatori socio-culturali o insegnanti. Per invitare un altro corpo a partecipare al processo di lavoro, siano workshop o vere e proprie creazioni, bisogna avvertire una necessità insita nella propria ricerca. Io non sono un terapeuta, non “riparo” nulla, lavoro con queste persone come lavoro con dei professionisti in un processo di creazione. Cerco un gesto poetico che possa essere condiviso e che lasci traccia di sé, attraverso un incontro con il pubblico, un film, uno spettacolo. Le persone che hanno partecipato alla creazione firmano con me l’opera e spesso condivido con loro anche i diritti d’autore perché sono partner del progetto questo è anche un modo per invitarli a non essere solo consumatori di arti o di workshop ma autori del progetto quanto lo sono io.

S. Nel tuo sito web alla voce “Paroles” ha pubblicato numerosi testi, letterari, filosofici, ma anche articoli di attualità politica. In quanto artista, qual’è la tua visione della nostra società, marcatamente concentrata sul consumo.

TTN. In Francia, abbiamo la fortuna di avere un sistema che sostiene la cultura, permette a molti di lavorare, di realizzare i propri progetti. Personalmente ho maturato un’esperienza tale che mi ha dato un riconoscimento pubblico. Credo però sia urgente riflettere senso del vivere insieme, cosa succede tra le generazioni, nelle comunità, tra i lavoratori. Penso che la danza sia un medium molto importante perché va al di là del linguaggio, il quale a volte può escludere l’altro. La presenza di un corpo permette di trovare il giusto posto. Di posizionarci vis-à-vis con l’altro, la cui presenza ci modifica e trasforma anche i pensieri, il nostro quotidiano. Mi nutro dunque di esperienze politiche e poetiche di pittori, scrittori contemporanei e non, perché tutte le espressioni artistiche sono state coinvolte in un movimento politico a causa delle guerre, degli esili, dei molti traumi del nostro secolo. Io cerco un movimento condiviso, che a volte può essere semplicemente camminare insieme, fianco a fianco, darsi la mano, piccoli gesti che diventano enormi. Tutti oggi dall’artista al commerciante devono porsi le domande: Cosa dono? Cosa vendo? Cosa offro? Cosa ricevo?

S. Lavori contemporaneamente a molti progetti, recentemente ti abbiamo visto nel film “Une jeune fille de 90 ans”, ora su cosa stai lavorando ora?

“ANIMA” on Vimeo.

TTN. Chi visita il mio sito web può pensare: “O la la, fa veramente molte cose contemporaneamente”. Il punto è che ci sono molti lavori che ho terminato ma che continuano ad essere presenti come il film che ho realizzato con Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, l’abbiamo girato in sei giorni nel gennaio del 2016 nel reparto di geriatria di un’ospedale della periferia parigina con persone affette da Alzheimer. Questa sarà la loro ultima casa. Persone che sapevo che non mi avrebbero sempre riconosciuto, che sono sotto effetto di medicamenti, con un programma del tempo ritmato dalle cure. Ho trascorso la settimana con loro ballando, a volte solo, insieme a loro o davanti a i curanti. Siamo stati filmati con discrezione, nessuno sapeva dove ci avrebbe portato questa esperienza, era una prima volta per tutti noi ma abbiamo capito subito che poteva diventare un film. Si è avverata una specie di magia, ogni giorno qualcuno dei malati consegnava qualcosa di inedito, di misterioso, di emozionante che esulava dalla malattia. Fino a che una signora s’innamora di me e questo le da la voglia di ricominciare a camminare, di danzare, di parlare. Improvvisamente non è più malata ma una donna come tutte. Queste esperienze non le prevedo in anticipo. Ad esempio ho lavorato a un progetto con dei detenuti che s’intitola anima “Anima“, ha coinvolto tre carceri, Marsiglia, Barcellona e Bollate, c’erano solo uomini dai diciotto ai settant’anni. Eravamo in quattordici persone in una stanza di nove metri quadrati, alla presenza di uomini abituati a una prossimità fisica pericolosa, con molte regole, limiti, tabù, stereotipie. Ma un certo punto succede che si danza insieme, che qualcuno porta nelle proprie braccia un’altro e diventa danza. Amo queste scommesse, perché mettono in questione come vivere insieme anche quando si è diversi e non si ha niente da dirsi. Non penso al dopo, ma costruiamo insieme nel presente. È come andare in un paese straniero di cui non capisco la lingua, in cui sono obbligato, se voglio sopravvivere, a trovare il modo e nel mio paese il modo è la danza, un movimento danzato comune.

Une jeune fille de 90 ans on Vimeo.

S. La scorsa estate al Festival d’Avignon, Thierry Thieû Niang ha presentato “Au cœur” uno spettacolo delicato e toccante in cui sono stati coinvolti giovani dai sette ai diciotto anni. L’infanzia è sempre stata a cuore a Thierry Thieû Niang che si è formato inizialmente come maestro. Durante il servizio civile è stato volontario nell’associazione Médecins Sans Frontières dove si è occupato soprattutto di ragazzi che avevano subito traumi e incidenti fisici. Tema di “Au cœur” è la caduta, una riflessione sulla giovinezza, in un momento storico in cui la gioventù cade a morte. Ragazzi che muoiono spesso per mano di altri giovani in attentati che funestano il mondo. Giovani caduti che si aggiungono alla moltitudine di immagini di morti nei naufragi o uccisi dalle bombe. Dopo avere lavorato con persone nell’autunno della vita, Niang ha avvertito urgente il desiderio di lavorare con la primavera della vita come ci ha raccontato lui stesso.

TTN. C’è un’espressione francese che dice “fare il morto”, i bambini cadono fingendo di morire e poi si rialzano, un gioco che amano molto fare, volevo partire da questo paradosso legato all’infanzia. I bambini devono imparare a stare in piedi, ma poi per gioco adorano cadere nel letto, nell’acqua, per terra. Ho così iniziato a lavorare con dei giovani ponendo loro delle domande: “Cosa ti fa paura nella realtà?”, “E nell’immaginario”, “Quando cadi chi ti sostiene?”, “Chi ti raccoglie?”. È uno spettacolo che mette al centro la responsabilità individuale e quella politica di questi corpi che cadono. Cosa ci aiuta a rialzarci e a resistere? Spesso diciamo agli anziani e ai bambini: “Non ti muovere che cadi”, in francese si dice “tomber amoureux“. Per me cadere non è un fatto definitivo ma un movimento, uno slancio, una spinta.

“Au Coeur” – Thierry Thieû Niang – Festival d’Avignon 2016 on YouTube.

S. E tu cos’hai paura, come adulto e in quanto artista?

TTN. È terribile, ma come dico spesso, non ho paura di niente. Non ho paura perché credo che la paura impedisca noi e chi è intorno a noi. Conosco gente che ha paura, che ha avuto paura. Mio padre e mia madre hanno avuto paura perché sono stati figli della guerra, dell’esilio, della fuga, della migrazione. Sono cresciuto vedendo dei genitori che avevano paura di avere paura, che avevano paura che noi figli avessimo paura. Ho fatto un lungo lavoro su di me, analitico. Ma anche un lungo lavoro sulla storia dell’arte, della politica che in parte si trova nel mio sito web nella sezione “Paroles”. Quando ho lavorato per Médecins Sans Frontières, mi sono ritrovato in campi profughi e in zone di guerra con dei bambini handicappati, mutilati. L’infanzia mi ha permesso di capire che anche in situazioni estreme ci può essere sempre una speranza, una gioia. Quando ho avuto paura dopo gli attentati in Francia, la mia era un paura del dispiacere, ovvero una paura del dispiacere del mondo, che ci ritrovassimo ad avere tutti paura e che non facessimo più nulla. Non danzeremo più, non canteremo, non vivremo più insieme. Sì, se ci penso di questo ho avuto paura. Ma personalmente mi sono liberato di tutta una serie di paure, che erano piccole paure, poco oggettive, che sono legate all’egoismo, al narcisismo. Ad esempio in un workshop recente ho lavorato con delle persone anziane chiedendo loro di passare sotto le sedie o di alzarle, di sedersi e di alzarsi, all’interno di un museo in cui bisogna stare attenti a come ci si muove. Bene ho scoperto che nessuno di loro ha avuto paura. Uno dei partecipanti mi ha detto che era sorpreso del fatto che dicevo loro che tutto andava sempre bene, mai che qualcosa non andasse bene. In effetti mi prendo il tempo per capire, per vedere cosa va bene, perché solitamente ci sentiamo dire cosa non va bene, mentre io ho voglia di fare il contrario. Ad esempio un’altra signora durate un workshop aveva male alla spalla sinistra, le chiesto come andava con l’altra spalla, mi ha risposto: “la destra funziona”. “Bene” le ho detto, “allora danzi usando solo quella”. Era contenta e ha spostato l’attenzione sulla spalla sana e non su quella malata. Certo è un lavoro, a volte bisogna mettersi il casco, l’armatura, ma una volta che hai attraversato il fuoco, la battaglia, dici: “è tutto qua? In fondo non è una gran cosa”.

S. Se il tuo linguaggio è la danza, ciò che ti ha reso celebre è il teatro, le esperienze con Patrice Chéreau con cui hai collaborato a lungo. Tra i molti lavori a cui avete lavorato insieme cito “La Douleur” di Marguerite Duras, “La Nuit Juste Avant les Forêts” (“La notte poco prima della foresta“) di Bernard-Marie Koltès di cui sei stato co-regista. Possiamo dire che in queste occasioni hai cercato di far danzare le parole?

TTN. Abbiamo parlato di frontiere, di famiglia. Molto presto ho avvertito il bisogno di lavorare con le altre arti. Sono un buon lettore e credo che ci siano dei libri che ci salvano davvero la vita, certo questo vale anche per dei film o per la musica. Ma c’è una relazione particolare che si sviluppa con il silenzio del libro. Alcuni hanno la capacità di lavorare con il silenzio dei corpi, altri  hanno la capacità di far sentire le parole in movimento. M’incuriosiva capire cosa succedeva nell’incarnazione fisica dei testi, delle canzoni. Poi ho avuto la fortuna d’incontrare dei registi come Patrice Chéreau, un certosino nel far muovere i corpi. Quando ho iniziato la collaborazione con lui, mi ha subito detto: “non ho bisogno di un coreografo, di qualcuno che faccia danzare i miei attori, ma di qualcuno che mi offra un altro sguardo”. Lavorare con lui è stato molto bello, io guardavo come avveniva il movimento nello spazio fisico e lui era attento a capire come l’attore era attraversato dalla lingua dell’autore. Io offrivo alcuni strumenti utili agli attori, come alzarsi, sedersi, correre e così via. Una poetica che incontrava l’immaginario del testo. Il corpo non era semplicemente figurativo, un personaggio, ma anche un movimento, un’anima, una drammaturgia dei corpi che incontra un testo e diventa una presenza.

S. In questa tua lunga carriera ci sono stati degli incontri che hanno modificato il tuo punto di vista, che ti hanno profondamente segnato?

TTN. Sì ci sono stati. C’è stata Marguerite Duras tra le prime a parlarmi dell’Indocina ancora prima che mio padre osasse parlarmene. Un Vietnam coloniale ma in cui vi era una storia d’amore. Mi ha fatto capire che non bisogna essere bianchi o neri per sentirsi stranieri. Della Duras ho amato la scrittura intima di esilio e di amore. Poi c’è stato il pittore Henri Matisse di cui ho amato l’infanzia, quel ritagliare con le forbici i colori e forme. C’è stata Pina Bausch, che raccontava le belle storie che appartengono alle donne e agli uomini e il suo riportarci dei paesaggi coreografici dei luoghi che visitava. C’è stata anche Virginia Woolf e poi molte personalità del teatro come Patrice Chéreau, Maguy MarinAriane Mnouchkine. E poi dei musicisti come, BachBjörkAntony and the Johnsons.

S. Una lunga lista.

TTN. Sì, perché penso che noi siamo fatti d’incontri con l’immaginario e con il reale. Ma potrei continuare elencando le molte persone che ho incontrato, ragazzi, anziani. Non so se sono liste o sono delle famiglie, dei nomi. So che da solo non sarei un gran che. Sono l’addizione di tutte queste persone e di tutti questi secoli.

S. Una contabilità di persone insomma.

TTN. Sì, perché in effetti coloro che spariscono o sono per me sempre presenti o spariscono davvero.

Il sito internet di Thierry Thieû Niang: http://www.thierry-niang.fr
Intervista Radio France Culture “Thierry Thieû Niang : “Je ne pouvais que leur donner ma danse” (in Francese).

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