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È possibile celebrare la memoria dell’Olocausto nell’epoca del turismo di massa?
“Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente uno stesso identico stato di cose – di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa”.
Walter Benjamin, “Scavare e ricordare” in “”Opere complete V, Scritti 1932-1933“.
Come abbiamo visto in ““Austerlitz” e l’estetica della post-memoria”, nel lavoro di Winfried Georg Sebald l’estetica della post-memoria è un modo per riattivare e ridare corpo alle storie del passato reinvestendole di forme di mediazione risonanti, individuali e generazionali e di espressioni estetiche. In questo modo anche i partecipanti meno coinvolti possono diventare parte della generazione della post-memoria, che può sopravvivere anche quando tutti coloro che furono testimoni diretti e i loro discendenti famigliari sono scomparsi.
Ma l’estetica della post-memoria cerca anche di segnalare la distanza, per evitare una facile identificazione e accoglienza di un passato che deve rimare lontano ed altro. Più dei racconti orali o scritti, le immagini fotografiche che sopravvivono a una devastazione di massa, vivendo più a lungo dei loro soggetti e dei proprietari, si comportano come fantasmi di un mondo irrimediabilmente passato. Ci permettono, nel presente, non soltanto di vedere e di toccare il passato, ma anche di cercare di rianimarlo annullando il carattere definitivo dello scatto fotografico. L’ironia retrospettiva di ogni fotografia consiste precisamente nella presenza simultanea di questo tentativo e della consapevolezza della sua impossibilità.

Fotografia di Georges Didi-Huberman, tratta dal suo libro “Scorze” (Nottetempo 2014).
Jill Bennett, professore di Experimental Arts, fondatrice e direttore del National Institute for Experimental Arts (NIEA) in “Empathic Vision: Affect, Trauma, And Contemporary Art” (Stanford University Press, 2005) afferma che la vista è profondamente collegata alla “memoria affettiva”:
“Le immagini hanno la capacità di rivolgersi alla memoria fisica dello spettatore; di toccarlo facendogli sentire l’evento invece di vederlo soltanto, attraendolo dentro l’immagine attraverso un processo di contagio affettivo. […] In questo modo la risposta fisica precede l’iscrizione del racconto o l’emozione morale dell’empatia”.
Quando guardiamo le immagini fotografiche di un passato scomparso, soprattutto di un passato annientato con la forza, noi non cerchiamo soltanto informazioni o conferme, ma un materiale privato e una connessione emotiva che possano comunicare la qualità affettiva degli eventi. Guardiamo per essere scioccati (Benjamin), toccati, feriti e per provare rimorso (Barthes), per essere fatti a pezzi (Didi-Huberman). In questo modo le fotografie diventano degli schermi – spazi di rappresentazione e approccio e di protezione. E nel presente le immagini si trasformano in spazi attraverso i quali cercare di testimoniare il passato, in retrospettiva.
Il confine delle immagini in collisione tra passato e presente viene analizzato da Georges Didi-Huberman in “Scorze” (Nottetempo, 2014) e in “Immagini malgrado tutto” (Raffaello Cortina Editore, 2005). In “Scorze” Didi-Huberman compie una visita Campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, oggi “luogo di cultura”, ieri “luogo di barbarie”, nella distanza che separa queste due definizioni, una visita a ciò che resta si intreccia con ciò che è stato:
“Che cosa dire quando Auschwitz deve essere dimenticata nel suo luogo reale per costituirsi come luogo fittizio destinato a ricordarsi di Auschwitz?”.
L’improvviso atterraggio di un uccello, che si posa tra due recinzioni di filo spinato, attira l’attenzione Didi-Huberman sull’inevitabile (ma non per questo pacifico) compromesso che congiunge le due definizioni: sullo sfondo, corre il filo spinato elettrificato del Campo, col suo metallo ormai scurito dalla ruggine; in primo piano, un filo spinato più chiaro, intrecciato in modo diverso, evidentemente installato di recente: “Rendermene conto mi fa stringere il cuore”, scrive Didi-Huberman; e poi: “Sento che l’uccello si è posato tra due temporalità terribilmente disgiunte, tra due modi completamente diversi di gestire la stessa porzione di spazio e di storia. L’uccello, senza saperlo, si è posato tra la barbarie e la cultura”.
“Austerlitz” il film del regista bielorusso Sergei Loznitsa il cui titolo è una citazione al libro di WG Sebald, si muove su questo confine, tra questi due tipi di filo spinato, tra lo sguardo – inevitabilmente spettrale – di una barbarie passata e lo sguardo “culturale” di chi oggi visita il Campo – un Campo che deve mentire per dire la verità, semplificare per far capire, essere didattico e accogliente per costituirsi come “luogo della memoria”.
Scrive Loznitsa nelle note al film: “L’idea di Austerlitz mi è venuta tre anni fa mentre visitavo Buchenwald. Fu un’esperienza molto bizzarra. Provavo disagio nello stare in quel luogo senza sapere come comportarmi. La visita del Campo ti forniva un sacco di informazioni tecniche sull’organizzazione del Campo e sull’assetto dei forni crematori e delle camere a gas, ma ti dava poco in termini di riflessione sulla tragedia, di redenzione e catarsi: quello che pensavo dovesse essere l’essenza della visita. Che ci facevo io là? Avevo il diritto di stare in quel Campo come visitatore? È questo il modo per commemorare e piangere migliaia di vittime innocenti? Domande che sono rimaste a lungo nella mia testa. Ho girato Austerlitz nel tentativo di trovare una risposta”.
“Austerlitz” Trailer Lab 80 film from Lab 80 film on Vimeo.
È dunque possibile celebrare la memoria dell’Olocausto nell’epoca del turismo di massa?
Il film di Loznitsa si compone di una serie di piani sequenza in Campo fisso girati a Sachsenhausen, un Campo di concentramento a 35 chilometri da Berlino dove vennero uccisi trentamila ebrei. È una giornata d’estate, i turisti sciamano nei vialetti dell’orrore con noncuranza, voltano distrattamente il capo a destra e sinistra come se fossero all’orto botanico o in un museo. Davanti a forni crematori qualcuno si scatta un selfie. Vicino alle camere a gas un gruppo di ragazzi si accomoda sull’erba per un picnic improvvisato. I pali della fucilazione diventano uno scenario suggestivo per fotografie in posa, le braccia in alto allacciate al fusto di legno per mimare la contenzione. Ma l’attrattiva più forte sembra il cancello con la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi: qui si forma addirittura la fila dei turisti che cercano l’inquadratura migliore, i selfie con la testa inclinata, ritratti di famiglia nel lager (sul tema dei selfie e del turismo Campi di concentramento, “Il selfie del mondo: Indagine sull’età del turismo“, Marco d’Eramo, Feltrinelli 2017) . L’unica colonna sonora è data dal rumore dei passi sul selciato, il cinguettio degli uccelli, le spiegazioni delle guide nelle diverse lingue che rendono l’atmosfera irreale.
I 92 minuti di “Austerlitz” mostrano con crudo realismo il fallimento del nostro confronto con quello che Didi-Huberman in “Scorze” chiama l’inimmaginabile:
“”È inimmaginabile”. L’ho detto , l’ho detto come tutti. Ma se devo continuare a scrivere, a guardare, a inquadrare, a fotografare, a montare le mie immagini e a pensare a tutto questo, è proprio per rendere incompleta la frase. Si dovrebbe dire piuttosto: “È inimmaginabile, quindi devo immaginarlo nonostante tutto”. Per dare forma a qualcosa almeno, a quel minimo che possiamo sapere. Ho guardato, era inimmaginabile e semplice al tempo stesso. […] Ma oggi, per me su questa pagina, per chiunque davanti a un libro o al sito di Auschwitz, è la necessità di non restare in questo vicolo cieco dell’immaginazione, questo vicolo cieco che fu esattamente una delle grandi forze strategiche – attraverso le menzogne e la brutalità – del sistema di stermino nazista”.
La frizione tra una cultura e l’altra (perché anche la barbarie lievita da una certa cultura) prende a poco a poco la forma di una (altrettanto inevitabile) profanazione, e Loznitsa ha perfettamente ragione a interpretare lo sguardo del luogo e delle cose come fisso, e cioè prigioniero della sua stessa posizione, quasi carcerario – una specie di videosorveglianza della storia. L’incessante movimento della folla – che può entrare la mattina e uscire la sera, che può camminare liberamente, bere e mangiare, riposarsi e fumare, ridere e farsi una fotografia – somiglia a un’invasione, a un’assalto che non ci permette di uscire attraverso l’immaginazione da quel vicolo cieco della barbarie nazista di cui parla Didi-Huberman e su cui ha lavorato per gran parte della sua opera WG Sebald.
Una cosa è certa, Loznitsa non avrebbe potuto fare il suo film sul Campo trasformato in luogo della memoria se non confrontandosi con questa impossibilità:
“Questi centri commemorativi – dice Loznitsa – rappresentano l’esatto contrario di ciò che dovrebbero essere: non luoghi della memoria, ma della dimenticanza. Non è possibile acquisire reale consapevolezza della catastrofe solo immagazzinando dati meccanici sul funzionamento dei forni crematori o facendo un selfie dentro la camera a gas. Dovremmo invece creare dei luoghi dove sia possibile pregare, piangere, raccogliersi in meditazione. La sola cosa che si impara da questi memoriali è che la tecnica di assassinio di massa era molto efficiente. E che la macchina dello sterminio potrebbe essere rimessa in moto ancora e uccidere altri milioni di persone. Ma se vogliamo che la storia non si ripeta dobbiamo trovare un modo che faccia riflettere davvero i nostri contemporanei”.
Sergei Loznitsa.
“Austerlitz”, Sergei Loznitsa, distribuzione italiana, Lab 80 film
“Intervista a Sergei Loznitsa“, Nicolas Rapold, Film Comment.
“An Interview with Sergei Loznitsa on “A Gentle Creature””, Karin Badt , Huffington Post.
Jill Bennett, “Empathic Vision: Affect, Trauma, And Contemporary Art” (Stanford University Press, 2005).
Georges Didi-Huberman, “Scorze” (Nottetempo, 2014).
Georges Didi-Huberman, “Immagini malgrado tutto” (Raffaello Cortina Editore, 2005).
Il sito internet di Sergei Loznitsa: http://loznitsa.com
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