
ma l'amor mio non muore
Il governo degli stolti.
Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità: questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti Stati arabi. In Italia coloro che si dicono indignati non si contano; in Francia i 28.000 Gilets Jaunes che hanno occupato le piazze di molte città si proclamano indignati; in Spagna gli studenti che manifestarono nel 2011 si definivano “Los indignados”. La parola dignità ha eclissato molti altri termini del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo.
In effetti la prima è caduta nel ridicolo da quando si è incominciato a parlare di “comunità internazionale” (non si capisce bene che legame affettivo vi possa essere in una comunità che vada al di là del locale e per chiarire meglio il concetto basterebbe rileggersi “Comunità e società” di Ferdinand Tönnies che ne è stato il teorico); quanto ai “diritti umani”, che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne continua fare sia da sinistra che da destra (vedi la recente elezione a presidente della commissione diritti umani della leghista Stefania Pucciarelli), li ha svuotati di credibilità. Anche la parola dignità non appare esente da equivoci, fraintendimenti e usi impropri (il “Decreto Dignità” di Luigi Di Maio).
Come al solito bisogna risalire alle origini, se si vuole farne davvero un concetto coerente. Per quanto la nozione sia attribuita ai filosofi Stoici, è difficile trovare in greco una parola che corrisponda alla “dignitas romana” (la quale è a sua volta ambigua perché è una caratteristica di chi occupa un ufficio pubblico, dall’altro ricalca l’idea stoica secondo cui tutti gli uomini, al di là dei confini politici e delle divisioni etniche, sono riuniti da una naturale inclinazione benevola verso i propri simili basata sul fatto di condividere il logos, la ragione). Delle tante virtù individuate dagli Stoici, le parole che si avvicinano di più sono la decenza, la socievolezza, il pudore, l’autodominio, ma nessuna di queste corrisponde a dignità. Fatto sta che per gli Stoici, la perfezione morale, personificata nella figura del saggio, implica una completa padronanza delle passioni, che si ottiene attraverso la virtù della coerenza. Gli Stoici hanno introdotto nella filosofia la nozione di dovere definendolo come un principio di coerenza nella vita tale da poter essere giustificato razionalmente. Esso ha la propria ricompensa in se stesso e proprio perciò consente all’essere umano di stare fermo e saldo nell’esperienza del presente.
Questa fermezza non è tuttavia immobile, ma si regge sul tònos, una tensione che mantiene gli opposti in equilibrio tra loro, attraverso un continuo esercizio su se stessi.
Ora la domanda cruciale è: l’attuale politica populista può permettersi di intestarsi l’indignazione, se non possiede nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci noi stessi se non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale si capovolge tutto in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di “stoltezza” (li aveva descritti altrettanto bene Gilles Deleuze nel libro scritto con Félix Guattari “Che cos’è la filosofia?”). Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso, ma l’essere umano che, in preda ad un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e pretendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale.
Per essere indignati, per offrire dignità, bisogna almeno avere il coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino). Noi italiani (e forse noi occidentali) siamo troppo deboli (anche quando sembriamo agire con il pugno di ferro) per permetterci di essere indignati. Perciò o si ritorna alle origini, cioè all’insegnamento dell’antichità classica o non c’è scampo. La dignità non è un dato, non è qualcosa che si possiede per il semplice fatto di essere umani, ma un esercizio di autocontrollo e di perfezionamento di se stessi, insieme ad uno sforzo continuo di aiutare gli altri (in antitesi a quanto propongono i nuovi populismi e nazionalismi). Bisogna meritare di essere umani.
Nessuno può dire di essere pienamente riuscito in questo compito, ma per costruire una nuova politica che sappia rappresentare l’indignazione degli uomini e contribuisca nel dare loro dignità, è fondamentale almeno avere la volontà di provarci.
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