ma l'amor mio non muore

Guardare il mondo senza vederlo.

La grande Cartagine condusse tre guerre.
Dopo la prima era ancora potente, dopo la seconda era ancora abitabile.
Dopo la terza non si poteva più trovare.

Bertolt Brecht
Werke; grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe 1898-1956.

Roma 23 marzo.

La pace ha bisogno di essere inventata. Cosa può voler dire “inventare”, se non creare qualcosa di nuovo? Solitamente la guerra e la pace sono viste come due opposti: o c’è guerra o c’è pace.
Sentiamo riecheggiare, per molti versi, le acute parole di George Orwell, quando scrisse che le grandi macchine della propaganda del ventesimo secolo hanno rivendicato la guerra come pace, e la pace come guerra.
Si può dire che il fenomeno si sia amplificato nel ventunesimo secolo. Forse il più grande ostacolo per la pace è la paura che essa incute, cioè la paura dell’incertezza, dato che la maggior parte di noi non dispone di un vocabolario morale o visivo adatto alla pace.

Nel dramma del 1939 “Madre Courage” e i suoi figli, Bertolt Brecht ritrae così l’assurdità della guerra e della pace:

“Brigadiere: Si vede che è troppo tempo che non hanno fatto guerra, da queste parti. Allora, dico io, come volete che ci sia una morale? La pace è roba da rammolliti; non c’è che la guerra per metter ordine. In tempo di pace, l’umanità fa cilecca. Gente, bestie, uno spreco da porci, come valessero zero. […] Io sono arrivato in certi posti, che non c’era stata mai guerra da settant’anni e gli uomini non sapevano nemmeno come si chiamavano, non sapevano chi erano. Soltanto dove c’è guerra ci sono elenchi ben ordinati, liste di nomi, grano nei sacchi e sacchi in spalla, gente e bestie li contano proprio bene, e poi li portan via. Perché si sa: senz’ordine, niente guerra”.

Brecht coglie molto bene il modo in cui la guerra viene valorizzata, mentre la pace è annoverata tra i progressi morali e le passioni che la guerra stessa genera. Per esempio, virtù come il coraggio, l’eroismo, la speranza e la fiducia sono indotte dalla necessità della guerra e non della pace, che è intesa quasi sempre come “astratta” e inconcepibile mentre la guerra è reale e inevitabile.


Se si pulissero le porte della percezione,
ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita.

William Blake

Roma 24 marzo.

Parlare oggi del sacro significa analizzare il tempo e lo spazio in cui il valore e il significato prendono forma. Siamo consapevoli dei paradossi che possono emergere da tale affermazione: noi, per esempio, non ci occupiamo di santità e di “guerre sante”, ma piuttosto riflettiamo su come il sacro sia il ponte tra i mondi della violenza e della pace. C’è differenza tra l’imperialismo teologico e una concezione del sacro che mette in discussione le nostre abitudini culturali. Questa valutazione si evolve attraverso storie, immagini e percezioni, che possono incoraggiare nuovi modi di vedere il mondo e modi diversi di intendere la pace. Essenzialmente, la pace consiste nell’immaginare un mondo diverso, ma che già ci circonda. È il fare e il disfare rituali e tradizioni nella nostra vita quotidiana, in quanto sacri e santi.
Implica il “diventare consapevoli”, come direbbe il filosofo Martin Buber. Ossia un tipo speciale di osservazione, un modo di guardare al mondo con compassione, grazia e cura. Il quotidiano e il sacro richiedono cura e attenzione verso il futuro, ed esse a loro volta implicano un’etica fondata sul rapporto tra l’infinito e il quotidiano.
Secondo lo scrittore inglese Aldous Huxley le condizioni per la libertà e la pace non possono essere create da teorie e filosofie rivoluzionarie per le quali il mondo e la dimensione “spirituale” siano orientati unicamente al futuro.
Huxley scrive:

“La pace che sorpassa ogni intelligenza è il frutto della liberazione nell’eternità; ma nella sua forma ordinaria e quotidiana la pace è anche la radice della liberazione. Perché dove ci sono passioni violente e distrazioni imperiose, questo bene ultimo non si potrà mai realizzare. Questo è uno dei motivi per cui la politica correlata alle filosofie dell’eternità è tollerante e aliena dalla violenza. L’altro motivo è che l’eternità, la cui realizzazione è il bene supremo, è un regno del cielo dentro di noi. Quello sei tu; e sebbene Quello sia immortale e impassibile, l’uccisione e la tortura dei “tu” individuali è una questione di rilevanza cosmica, in quanto interferisce nei rapporti normali e naturali tra le anime e il divino, eterno Fondamento di tutto l’essere. Ogni violenza è, sopra ogni altra cosa, una ribellione sacrilega contro l’ordine divino”.


Non si entra in un mondo ma in una domanda.

Emmanuel Lévinas

Roma 25 marzo

Sembra che molti degli ostacoli alla realizzazione della pace ruotino intorno alla questione di come guardiamo il mondo senza vederlo quando c’è tanta violenza, tanta ingiustizia e tanta sofferenza. Il nostro è più di ogni altro il secolo delle immagini. Le immagini che circolano per il globo, a velocità sempre più intensa, sono così tante che le guardiamo in continuazione, ma non abbiamo più i mezzi o le capacità per vedere. Quali sono le conseguenze etiche e morali di guardare senza vedere? È una delle domande fondamentali del nostro tempo. Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty ha fatto notare che il soggetto della percezione è il soggetto del potere; in altre parole, il nostro modo di vedere è quello prescritto dai rapporti etici e di potere che costituiscono il nostro mondo quotidiano e sociale.
Più precisamente, Merleau-Ponty scrive:

“Il problema di sapere qual è il soggetto dello Stato, della guerra ecc. [è] esattamente dello stesso tipo che il problema di sapere qual è il soggetto della percezione: non [si] risolverà [la] filosofia della storia se non risolvendo [il] problema della percezione”.

“Vedere”, in questo contesto, coinvolge tutti i nostri sensi e anche la memoria e la tecnologia: al giorno d’oggi l’atto del guardare è una combinazione di tutti questi fattori, che rappresentano i metodi o le tecniche con cui diamo forma al nostro io, alla nostra dimensione etica e ai nostri incontri con gli altri. Dobbiamo riflettere sulla differenza fra “vedere” e “far vedere” in un mondo tecnologico, e su come mettere insieme la tecnologia, il sacro e il futuro del vedere.
Come scrisse il sociologo Émile Durkheim, il sacro trae origine da tecniche e rituali creati da noi. È dunque una realtà sociale. Fondamentalmente, le immagini, i riti e i rituali ai quali diamo vita creano le condizioni per la pace nell’esistente: un modo in cui vivere, abitare questo mondo e immaginarlo.

Per citare le parole di Durkheim:

“La società ideale non è al di fuori della società reale; ne fa parte. Lungi dall’essere divisi tra di esse come tra due poli che si respingono, noi non possiamo appartenere all’una senza appartenere anche all’altra. Una società non è costituita semplicemente dall’insieme degli individui che la compongono, ma, in primo luogo, dall’idea che essa si forma di sé”.

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