
ma l'amor mio non muore
Pax.
Tutto ciò che perdura è in uno stato di quiete.
Rainer Maria Rilke
Roma 31 marzo.
La pace richiede uno sguardo amorevole. Per il regista russo Andrei Tarkovskyj, osservare la realtà con cura e attenzione è la necessità spirituale e artistica del cinema.
Scrive Tarkovskj:
“Il tempo registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali, ecco in che cosa consiste, secondo me, l’idea fondamentale del cinema e dell’arte cinematografica.”
A suo modo di vedere, ciò che conta in un’impresa spirituale e artistica è essere fedeli agli incontri della vita; quando gli eventi e gli incontri vengono “interpretati” si perde l’unicità dell’esperienza, non c’è più un vero dialogo con l’evento. Scrive ancora: Bisogna far ricorso all’osservazione della vita e non alla costruzione stereotipata e senz’anima di una falsa vita in nome del gioco dell’espressività cinematografica. […] Per convincersi della giustezza delle considerazioni sopra riportate la cosa più semplice è chiedere ai vostri conoscenti di raccontarvi, per esempio, delle morti alle quali hanno assistito. E sono certo che rimarrete sbalorditi dalle circostanze, dalle manifestazioni del carattere, dall’assurdità e – scusate la bestemmia – dall’espressività di queste morti. […] Un gruppo di soldati è davanti al plotone d’esecuzione in attesa di essere fucilato per tradimento. Essi attendono in mezzo alle pozzanghere accanto al muro dell’ospedale. È autunno. Viene loro ordinato di togliersi i cappotti e le scarpe. Uno di loro si aggira a lungo tra le pozzanghere con i suoi calzini bucati alla ricerca di un luogo asciutto per posare il cappotto e gli stivali che tra un istante non gli serviranno più.
Ed eccone un altro. Un uomo va a finire sotto un tram e gli rimane amputata una gamba. Lo appoggiano con la schiena contro il muro di una casa e lui se sta lì seduto, attorniato dai curiosi che lo sbirciano spudoratamente, in attesa dell’ambulanza. Non potendone più, tira fuori di tasca un fazzoletto e copre con esso il suo moncone. Ciò è espressivo? Altroché! Vi prego ancora una volta di scusarmi. Naturalmente non si tratta di collezionare per i tempi magri i casi di questo tipo genere. Si tratta invece di mantenersi fedeli alla verità dei caratteri e delle circostanze, piuttosto che alla superficiale bellezza delle soluzioni “per immagini” escogitate.
Quando Tarkovskj parla dell’insensatezza della morte e degli esempi delle nostre reazioni a ciò che è orribile e osceno, quel che sottolinea è l’attenzione e il rispetto per ciò di cui si è testimoni. Per Tarkovskj, la fedeltà dell’immagine proviene dai mezzi poetici; la poesia è per lui l’espressione essenziale della realtà. Egli parla dell’haiku come della forma essenziale dell’immagine.
Scrive: “Insomma, l’immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un intero mondo che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto!”
La poesia in questo senso fornisce gli strumenti per un dialogo autentico con il mondo, la sua verità. Riusciamo a sentire il brusio del mondo, i discorsi dei vinti e quelli dei vincitori e degli uomini liberi. Questa sensibilità offre un modo per rispondere alla violenza senza violenza, bensì con l’attenzione e il rispetto per ciò di cui si è testimoni. I film di Tarkovskj rappresentano uno spazio per la contemplazione, e allo stesso tempo un mezzo per aiutarci a creare ciò che vediamo attraverso una lente diversa, quella dell’immaginazione e della memoria.
Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano, Ubulibri, 1988, p. 59.

Roma 2 aprile.
Quando gli fu conferito il prestigioso premio internazionale per la pace dagli editori tedeschi, Martin Buber parlò di una cosa chiamata la “grande pace”. Quel che disse è ancora più sorprendente se si considera che eravamo nel 1953 e il mondo era in piena Guerra fredda. Quanto segue è un estratto di quel discorso. La grande pace è qualcosa di sostanzialmente diverso dall’assenza di guerra.
Nell’”Allegoria del buon governo” di Ambrogio Lorenzetti si vedono riunite le virtù civiche. Meritevoli, e consapevoli dei loro meriti, le donne sono sedute, tutte tranne una che si erge come una torre sopra le altre. Questa donna si distingue non per dignità, ma piuttosto per una composta maestà. Tre lettere annunciano il suo nome: Pax. Essa rappresenta la grande pace che ho in mente. Non nel senso che, una volta instaurata questa pace, ciò che gli uomini chiamano guerra non esiste più: sarebbe troppo poco per definirla una grande pace. Qualcosa di nuovo esiste veramente, qualcosa di più grande e potente della guerra. Le passioni umane fluiscono nella guerra come le acque nel mare, e la guerra se ne disfa come vuole. Ma queste passioni devono entrare nella grande pace come il metallo grezzo nel fuoco che lo fonde e lo trasforma. Allora i popoli costruiranno insieme, con maggiore zelo di quanto ne abbiano mai impiegato nel distruggersi reciprocamente. Il pittore senese aveva intuito la maestà della pace solo in sogno. Non ne aveva acquisito la visione dalla realtà storica, perché essa non vi era mai comparsa. Quel che nella storia è stato chiamato pace, in realtà non è mai stato altro che una pausa beata, illusoria o gravida d’ansia, fra una guerra e l’altra. Ma il genio femminile del sogno dell’artista non è la Signora delle interruzioni, bensì la Regina di nuove e più grandi imprese”.
Martin Buber, “Genuine Dialogue and the Possibilities of Peace”, in Id., Pointing the Way: Collected Essays, London, Routledge and Kegan Paul, 1957, p. 235.
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