
ma l'amor mio non muore
Ma l’amor mio non muore.
Il cinema è l’altro lato di uno specchio che non smetteremo mai di amare, perché è il riflesso del nostro desiderio di continuare ad immergerci nelle sue immagini?
“Ma l’amor mio non muore!“, girato nel 1913 da Mario Caserini, è una delle opere più rappresentative del cinema muto italiano. Una propaganda del vivere inimitabile. Un intrigante connubio tra arte e vita. Melodramma d’amore, tradimento e morte, interpretato da Lyda Borelli – che, come scrive Ivo Bloom, è stata la più languida e seduttiva, la più liberty e decadente, la più iconica ed elegante, la più pittorica e internazionale, tra le dive d’epoca. È la storia di Elsa Holbein, figlia di un alto ufficiale del Granducato di Wallenstein. Sconvolta dalla morte del padre – Capo di Stato Maggiore, suicidatosi perché accusato ingiustamente di tradimento – si allontana e si rifugia in Riviera, dove calca le scene come cantante e pianista con lo pseudonimo di Diana Cadouleu. Qui s’innamora del Principe Maximilian ma la scoperta che l’amato è parte integrante di tutto ciò che l’ha portata alla rovina, la convince a togliersi la vita ma al contempo a consegnare al proprio amante prima di morire uno struggente messaggio d’amore: “ma l’amor mio non muore!”.
Quali sono gli strumenti per difenderci se veniamo deprivati della possibilità di costruirci un nostro immaginario?
“…ma l’amor mio non muore” è il titolo di un libro pubblicato nel 1971 da Arcana edizioni, che rischiò il sequestro, cosa che non accadde perché tutte le copie di quell’edizione furono vendute prima e andarono esaurite. In seguito ripubblicato da Castelvecchi e da Derive Approdi, il libro, curato da Gianni Emilio Simonetti, è un testo cult della storia del movimento antagonista italiano. Documenta le idee, i progetti e i propositi di un’intera generazione che mirava a innescare nuovi conflitti tra i poteri costituiti e la “realtà”. Corpo, desiderio, rifiuto dell’autoritarismo quotidiano: l’universo situazionista dei “marginali” irrompeva nel centro delle città italiane, filtrando le esperienze del maggio parigino. Nella prefazione del libro Simonetti contrappone l’edonismo dell’essere all’edonismo dell’avere che domina la sfera borghese. Non a caso nel 2004 Bernardo Bertolucci in “The Dreamers” sceglie il nesso tra corpo e immaginario come punto d’osservazione per una rivisitazione del ’68. Oggi, mentre la prima generazione videoelettronica entra sulla scena dobbiamo porci nuovamente i medesimi interrogativi che hanno animato quegli anni: come si modellano, come si proiettano, come si accumulano, come si dissipano gli investimenti sociali del desiderio?”. Nel film “Elephant“, Gus Van Sant ci racconta la devastazione psichica che si produce quando si riduce il tempo per l’affettività e lo sostituisce con una cascata di immagini e interazioni virtuali, con frigide rassicurazioni famigliari e con l’ossessione del successo economico che diventa l’unica chiave per mantenere il controllo sulla propria identità. Come scrive Franco Berardi in un articolo su Liberazione, oggi, lo scambio simbolico tra esseri umani viene elaborato senza empatia, escludendo il corpo dell’altro.
È possibile un valore d’uso etico delle nostre percezioni?
“Ma l’amor mio non muore” è anche il titolo di un’installazione del collettivo francese Claire Fontaine. Realizzata Roma nel 2006 alla galleria T293 , esprime la speranza e la fiducia in un futuro di libertà, in un momento scoraggiante, in un momento in cui “resistere” è diventato duro e pericoloso.
Claire Fontaine scrive parole intense:
“Le ragioni di un amore che non muore affondano spesso nel passato più che nel presente. Forse perché l’amore non ha, per così dire, il senso della realtà, ma ha il senso del possibile, è parente stretto del non ancora e del non più. Che noi amiamo il comunismo – e che lo amiamo ancora – vuol dire che per noi il futuro esiste e non è soltanto la proprietà privata dei dominanti di oggi o di domani. Vuol dire che l’amore che alimenta il passaggio del tempo, che rende possibili i progetti ed i ricordi, non è possessivo, geloso, indiviso, ma collettivo; che non teme né l’odio né la rabbia, non si rifugia disarmato nelle case, ma percorre le strade ed apre le porte chiuse. Gli affetti, oggi si crede, sono un fatto privato e personale, e invece sono il luogo che il governo globale ha scelto di colonizzare, con la merce o con il terrore. Tutti abbiamo dei desideri e delle paure che non ci piacciono e che non vogliamo confessare, perché vengono dagli obblighi che ci sono imposti e non dalle inclinazioni di ciascuno. Per esempio, tutti questi altri terribili corpi sconosciuti che ci circondano cosa potrebbero condividere mai con noi se non le strade, i negozi ed i mezzi pubblici? Eppure… Una possibilità dorme sotto le nostre dita stanche a fine giornata, negli sguardi vagabondi che lanciamo fuori dai finestrini, sulle altre macchine in fila sotto un cielo metropolitano.
È la possibilità di scoprire che siamo tutti singolarità qualunque, egualmente amabili e temibili, prigionieri delle maglie del potere, in attesa di un’insurrezione che ci permetta di cambiare noi stessi.
Che noi amiamo il comunismo vuol dire che noi crediamo che le nostre vite impoverite dal commercio e dalle informazioni siano pronte a sollevarsi come un’onda e a riprendersi i mezzi di produzione del presente”.
Possiamo trasformare la speranza in una politica rivoluzionaria?
In questi mesi ho pubblicato su Medium – una piattaforma editoriale nata da un’idea dei fondatori di Twitter – alcune riflessioni nate dall’incontro e dal confronto con queste tre opere.
La domanda che mi sono posto è: in che modo, nell’ambito di una costante trasformazione del capitalismo, (informazioni, media, economie, tecnologie), le restrizioni delle libertà (il controllo della nostre vite) coinvolgono la nostra dimensione affettiva?
L’affetto è quel margine di movimento che ci dice “dove possiamo andare e cosa saremmo in grado di fare” in ogni situazione. L’affetto ha a che vedere con la speranza, se intendiamo la speranza come un concetto non legato ad un’attesa, all’ottimismo e al pessimismo, a un’illusoria proiezione di successo, ad una sorta di calcolo razionale dei risultati, ma al presente. Il motivo per cui speranza e affetto sono così importanti è che ci spiegano perché è meglio concentrasi sul prossimo passo piuttosto che immaginare bei quadretti utopistici. Significa più che altro continuare a essere li dove siamo – ma più intensamente. Credo che speranza e affetto ci dicono che l’amore non muore mai ma a patto che ognuno abbia una certa disponibilità ad assumersi dei rischi, a sbagliare e talvolta persino a dare l’impressione di essere degli stupidi.
I testi sono stati postati in una “Publications” (una collezione) aperta, vale a dire che chiunque ha un buona idea può pubblicare un proprio contributo. Per farlo bisogna innanzitutto iscriversi a Medium, scrivere un testo, diventare membri (Follower) della collezione “Ma l’amor mio non muore. Possiamo trasformare la speranza in una politica rivoluzionaria?“, sottoscrivere il vostro testo, che in questo modo verrà aggiunto a quelli già pubblicati.
Spero di leggervi, mi farebbe piacere.
Ho riflettuto su quanto hai scritto sulla speranza in relazione all’affettività e mi è venuto il seguente pensiero: come tu dici, la speranza non è un parente stretto dell’attesa o dell’aspettativa di un risultato, questo riguarda piuttosto il fatto di porsi un traguardo da conseguire, quindi, più che di speranza potrebbe trattarsi di ansia per il risultato. La speranza è un parente dell’affettività, perchè si accende in presenza di una fonte di calore. Non importa tanto la sorgente, quanto il fatto che tutto ciò che è in grado di scaldarci ci mette in moto aprendoci a possibilità di trasformazione, e rendendoci più attivi attivi diventiamo un fattore creativo di potenziale cambiamento. Credo che le persone abbiano semplicemente bisogno di sentirsi riconosciute come tali ed essere tenute in considerazione, così si genera lo spirito che rende capaci di affrontare anche le peggiori difficoltà.
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