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Mount Olympus. Cosa viene dopo la tragedia?
“’Dopo la tragedia’ vuol dire ‘dopo la cerimonia degli addii’. Cioè dopo quella scintilla e quell’istante di tenuta, la cui perdita o la cui rappresentazione della perdita organizza ciò che non possiamo più chiamare la nostra tragedia, ma il nostro dramma o la nostra desolazione”.
Jean-Luc Nancy, “Corpo teatro” (Cronopio 2010).
“Ecstasy” è il nome di un magazine porno, di scuole di yoga, di yogurt, di succhi di frutta, “Ecstasy” è un brand per linee cosmetiche da supermercato. Lo shopping è estasi, l’ultimo modello di iPhone, le auto sportive anche. Oggi l’estasi è onnipresente e forse proprio per questo ne abbiamo dimenticato il significato. Dio è morto e il diavolo è il nome di una droga. Si tratta di un paradosso: nella più libera delle società, forze esterne decidono infinite regole per la nostra vita. Non fumare, indossa il casco, paga sempre i tuoi debiti, metti il preservativo, mangia senza glutine. L’autonomia concessa non può essere mai troppa.
Ma l’estasi era qualcosa di profondamente diverso di una club drug che ti fa abbassare lo stato di ansia. Per gli antichi greci, l’“estasi” (“ἔκστασις”), era uno “stato di stupore della mente”, un “essere fuori” (“ἐξίστημι”), un “uscire di sé” o un “uscire fuori di sé”. L’estasi era uno stato mistico in cui si trascendevano i limiti della condizione umana per unirsi alla divinità. L’estasi era la porta d’accesso alla verità. I greci chiamavano estasi: ballare, mangiare, scopare.
Sappiamo, come scriveva Gilles Deleuze, che gli uomini fabbricano ombrelli per riparasi, sulla sua parte interna disegnano un firmamento e scrivono le loro convenzioni, le loro opinioni; ma il poeta, l’artista pratica un taglio nell’ombrello, lacera il firmamento, per far passare un po’ di caos libero e ventoso e inquadra in una luce brusca una visione che appare attraverso la crepa. Dobbiamo ai greci e al loro teatro aver saputo guardare dentro l’abisso umano, prima che la conoscenza cessasse di far convivere uomini e dei.
Saldamente piantato nel solco della tradizione nietzschiana, Roberto Calasso, nelle “Nozze di Cadmo e Armonia” (Adelphi 2013), definirà la conoscenza frutto dell’inganno e dello stupro della ragione.
Poi, come sentenzierà magistralmente Christa Wolf in “Cassandra” (Edizioni e/o 2012), ciò che ci stupirà di più nella storia delle civiltà sarà “l’indifferenza degli dei verso gli uomini”.
Nel rapporto tra il mondo di oggi e il mondo di Cassandra (nel suo vedere, nel suo svelare come atto di resistenza contro il potere non essendo creduta), questo tacere verità che tutti sanno e questo riprodurre il silenzio e l’indifferenza come forma tacita e a volte inconsapevole di assenso all’ideologia dominante, costituisce un elemento di stretta affinità.
Nel gelo di questa indifferenza i nuovi greci hanno visto affondare le speranze nella vittoria dei No al referendum del 5 luglio 2015 contro le misure di austerità imposte dall’Unione Europea, schiacciati dalla negazione estatica e da un pragmatismo finalizzato a continuare il sogno delirante di un capitalismo amorale.
È affascinante vedere un’Europa di diverse culture e lingue che si uniscono. Ma è tragico vedere nazioni respinte dall’ideologia dominante che nell’indifferenza decidono di seppellire i valori, gli ideali e i principi della democrazia.
Per Slavoj Žižek la tragedia contemporanea si è ormai trasformata in una grande farsa. La tragedia è quella dei milioni di individui schiacciati dalle logiche perverse di un sistema che si alimenta grazie all’imperativo impossibile al godimento (pensiamo ai recenti roots inglesi con i giovani rivoluzionari che sfasciavano vetrine per accaparrarsi l’ultimo iPhone). La farsa è quella dei milioni euro bruciati dagli Stati e dagli organismi economici per risollevare le finanze delle banche, causa dello sfacelo. Un meccanismo perverso di cui ormai conosciamo le geometrie: la farsa è quella di un capitalismo che produce cinicamente nuove forme di “speranza” per intensificare il processo attraverso il quale il profitto porta profitto. Il capitalismo alla Starbucks che propone un “caffè etico” ad un prezzo maggiorato derivante da quel’“etico” aggiunto di straforo. Il capitalismo alla Bernie Madoff che è stato uno dei più grandi colpevoli della crisi, ma che allo stesso tempo è un celebre “filantropo” (sui continui ribaltamenti di fronte che hanno finito per trasformare le trattative per la rinegoziazione del debito greco in un teatro dell’assurdo consiglio di leggere il testo di Stathis Kouvelakis, “From the Absurd to the Tragic” pubblicato sulla rivista “Jobin”).
Quindi la domanda è: cosa viene dopo la tragedia? Tutta la nostra storia ha pensato o si è pensata “dopo la tragedia” o prendendo congedo da quella tragedia o per rimpiangerla e cercare di trovarne la verità.
Scrive Jean-Luc Nancy in “Corpo teatro” (Cronopio 2010):
“Sappiamo bene che le sorti della democrazia e della tragedia sono strettamente legate. In questo senso, la democrazia, qualunque sia la riforma di cui sarà capace, non ritroverà niente ne ritroverà se stessa, se continuerà a mancarle la tragedia o la funzione che essa svolgeva. […]
Comunque stiano le cose con la verità tragica, essa non è più la nostra, nonostante la prossimità o anche l’intimità che possiamo avere con essa, e nessun ‘ethos’, nessuna ‘teche poietike’ possono restituirci la possibilità di vivere di essa qui e ora, di renderla una funzione della nostra vita di un popolo o di polis”.
Mount Olympus from Troubleyn/Jan Fabre on Vimeo.
Jan Fabre, 57 anni, belga, regista, coreografo, performer, visual artist, senz’altro uno degli artisti contemporanei più innovativi ed eclettici, con il progetto teatrale “Mount Olympus. To glorify the cult of tragedia”, ha aperto uno straordinario laboratorio per ripensare il ruolo e il significato della tragedia oggi.
Che cos’è la giustizia? Che cos’è la legge? Qual è il rapporto tra gli dei e l’uomo? Esiste una violenza legittima? Che significato ha la responsabilità? Quali sono le conseguenze della superbia? Qual’è il significato della moralità? C’è una catarsi anche per noi? Cosa significa in una società come la nostra, dominata da internet e social network, riunirsi, incontrarsi di persona, condividere uno stesso luogo, per una giornata intera? C’è una possibile purificazione? Intendo dire da un punto di vista filosofico, sociale e poetico?
Jeroen Olyslaegers co-autore dei testi di “Mount Olympus” insieme a Fabre e a Miet Martens, scrive in una nota al progetto teatrale:
“Eppure, gli antichi Greci sono in mezzo a noi.
No, forse non è del tutto vero. I sogni degli antichi greci sono ancora tra noi; sepolti nel profondo del nostro DNA culturale. I loro sogni e pensieri sono stati tramandati come i miti e le opere teatrali basati su questi miti. Sono stati trasmessi e diventati una fonte di ispirazione per gli artisti nel corso dei secoli. Ci hanno incantato, fatto interrogare su noi stessi e sul perché siamo giunti a un livello ancora più elevato di disperazione culturale, ci hanno fatto accettare quello strano animale crudele chiamato ‘uomo’. […] Abbiamo testato questi sogni come topi in laboratorio, fino al punto in cui non sapevamo più se stavamo facendo un test o se eravamo noi i topi da testare. […] È rito che permette alla persone di trasformarsi, prepararsi per un’altra tappa nella loro esistenza, per morire un’altra morte e dare il benvenuto a un’altra vita. […] Il linguaggio è il materiale di cui sono fatti i nostri sogni. La lingua parlata e scritta forma i nostri pensieri e infonde i nostri sensi. Ma, come ha dichiarato William S. Burroughs, il linguaggio è un virus. Siamo assuefatti dagli stereotipi e dai cliché della mitologia. Il loro significato si è consumato, perché ci siamo illusi nel credere il suo valore senza sentirlo. Per connettere veramente noi stessi con i miti dobbiamo attaccarli con un anti-virus, con una lingua diversa”.
E “Mount Olympus” è l’anti-virus.
“Mount Olympus” è una performance teatrale di 24 ore realizzata da un gruppo di lavoro di 35 persone, composto da tecnici, musicisti guidati da Dag Taeldeman e da ventisette performer della compagnia Troubleyn, appartenenti a quattro generazioni diverse, tutti uniti da Jan Fabre per “glorificare il culto della tragedia”. È un progetto monumentale nato sei anni fa che ha richiesto oltre un anno di prove e di incontri con filosofi, scrittori, scienziati; dodici ore al giorno di studio, di esercizi, di improvvisazioni e di ricerche. Ma “Mount Olympus” – che dopo le rappresentazioni di Berlino, Amsterdam, Salonicco è andato in scena al RomaEuropa Festival – è soprattutto un rito emotivo, sociale, collettivo.
“Dionysus in ’69” di Richard Schechner on YouTube.
L’immersione in “Mount Olympus” mi ha ricordato la violenza primitiva e l’energia assoluta de “Le Sacre Du Printemps” di Pina Bausch con i trenta ballerini del Wuppertal Tanztheater. Ma anche le ricerche di Romeo Castellucci e Einar Schleef, sulla forma tragica nel nuovo millennio.
In alcuni momenti l’ho accostato a “Dionysus in ‘69” di Richard Schechner, che segna senz’altro una tappa decisiva della storia performativa contemporanea (nel 1970 Brian de Palma con Robert Fiore e Bruce Rubin ne girarono un film).
Ho rivisto in “Mount Olympus” la violenza catartica, gli organi macellati, il rosso, la musica, i balli, le crocifissioni, la satira dell’“Orgien-Mysterien-Theater” di Hermann Nitsch.
Il lavoro performativo mi ha fatto anche venire in mente, le teorie su gender/sexuality/queer di Elisabeth Freeman, in particolare ciò che lei chiama, “Transtemporal Drag”, vale a dire trasformare il momento specifico di una storia eteronormativa, ricomponendolo con altre fonti, come ad esempio in “Mount Olympus” nella narrazione del conflitto di Aiace quando Fabre impiega frammenti di “Romeo and Juliet” di William Shakespeare o momenti del film “A Few Good Men” (“Codice d’onore”) di Rob Reiner.
Jan Fabre con “Mount Olympus”, ancora più di questi grandi autori, ci dice che sappiamo ben poco sulla tragedia greca. Le questioni della tragedia, del teatro, della politica e di tutto ciò viene confusamente detto “etico” sono accomunate dal fatto di condurre tutte verso un luogo deserto, un luogo che Jean-Luc Nacy chiama “religione civile”, che è diventato impossibile occupare. E forse ciò che c’è in gioco in “Mount Olympus” è proprio cercare di sperimentare l’essenza di questo inconoscibile e di questo inimmaginabile. Per questo “Mount Olympus” non può essere un’attualizzazione della tragedia greca, ma un laboratorio in cui Fabre indaga l’irrappresentabilità di ciò che ci lacera e ci purifica, ancora oggi.
In “Residui e altri testi” (Editoria & Spettacolo 2015), un volume presentato a Roma in contemporanea a “Mount Olympus”, Fabre ne parla in questo modo:
“Per noi i miti
sono come i sogni
Malgrado tutte le differenze
i sogni e i miti una cosa
ce l’hanno in comune:
sono stati scritti tutti nella stessa lingua dimenticataImparando di nuovo questa lingua
dimenticata ricca di fantasia
entriamo in contatto
con la fonte più importante della saggezza:
la meraviglia
Portatrice di cognizioni
da noi stessi a noi stessiQuesta lingua dimenticata universale
ha una logica diversa
rispetto alla lingua convenzionale che usiamo
quando siamo svegli
Quando dormiamo
ogni cosa cambia
e ci svegliamo
in un’altra forma di esistenza
Sogniamo
e dirigiamo i nostri sogni”.
Internet.
“Mount Olympus”: http://mountolympus.be
Jan Fabre/Troubleyn: http://www.troubleyn.be
Facebook: http://on.fb.me/1GxhpZH
Twitter: @FabreJan
Video.
YouTube: http://bit.ly/1NB0xR6
Vimeo: https://vimeo.com/user11828391
Interviste.
“The Interview: Jan Fabre – Mount Olympus“, Hunger TV.
“Roads to Mount Olympus“, Berliner Festspiele.
“Rehearsal Matters interview with Jan Fabre“, Laboratoriet.
Il racconto dell’evento – per immagini, pensieri, sogni – lo si può trovare on-line: in un post realizzato “in staffetta” da un gruppo di giovani critici per TeatroeCritica; su Twitter e su Instagram all’hashtag #MO24.
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