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Andare a piedi. La filosofia del camminare di Frédéric Gros.

“Camminare non è uno sport”.

Ogni azione ha una reazione uguale e contraria, ha scritto Isaac Newton parecchio tempo fa.
Più ci immergiamo nel mondo digitale, più cresce l’impulso opposto: il desiderio di riscoprire con il corpo mondo fisico attraverso un’azione, un’attività, che si tratti di alpinismo, free climbing, andare bicicletta o a piedi. I camminatori, e chi ha scritto sul camminare, hanno la tendenza a dividersi in due categorie: i flâneurs urbani, discendenti di una lunga tradizione che va da Charles Baudelaire, ai Situazionisti, e quelli che sulle orme di Rousseau, Thoreau e Edward Thomas sono rimasti folgorati dalla natura. Finora, questo è stato il percorso. Che camminare significhi aprirsi al mondo, lo aveva già scritto David Le Breton, antropologo del corpo nel “Il mondo a piedi”:

“L’atto del camminare immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la partecipazione di tutti i sensi, si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, per scoprire luoghi e volti sconosciuti, o anche, semplicemente, per rispondere al richiamo della strada. Camminare è un modo tranquillo per reinventare il tempo e lo spazio. Prevede una lieta umiltà davanti al mondo”.

Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo e i suoi allievi si chiamavano peripatetici, dal greco peripatein (passeggiare), proprio per questo. I sofisti invece si spostavano a piedi di città in città per insegnare la retorica. Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene. Nella Grecia classica il luogo di pellegrinaggio più famoso era Delfi dove si andava per ricevere i responsi della Pizia. Da allora camminare è diventato un atto rivoluzionario, quasi eversivo.
Lao Tse ha scritto che un viaggio di mille chilometri comincia sempre con un passo. Il primo passo.
Che è l’unico che conta perché senza il primo, come per il respiro, non ce ne saranno altri, perché segna un distacco. Dalla vita di tutti i giorni, dagli affetti, dalle comodità, dalla propria casa, dal lavoro.
Henry David Thoreau scriveva “Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, il fratello e la sorella, la moglie e i figli e gli amici e a non rivederli mai più, se hai pagato i tuoi debiti e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino”.
Camminare definisce una soglia tra un prima e un dopo, oltrepassata la quale si entra in una vita dove non si è nessuno, dove si cammina nel regno dell’incognito. David Herbert Lawrence scriveva, “Sospesi tra l’identità passata e quella futura si vive in uno stato liminale di continua potenzialità. La casa dell’anima non è in Paradiso, ma nella strada aperta. L’unica cosa da fare è mettersi liberamente in cammino. Il viaggiare per una strada aperta, esposti a ogni contatto, incontrando chiunque venga per via, accompagnandosi a coloro che sono sospinti nello stesso senso, senza scopo, su due lenti piedi, per la strada aperta…”. Il tempo gli appartiene, e non ne è più schiavo. Come il Gesù di Christian Bobin in “L’uomo che cammina” (Qiqajon 1998): “Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su sessanta chilometri di lunghezza e trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli sia vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine potremmo fare a meno di quel libro e ricevere sue notizie ascoltando il canto dei granelli di sabbia sollevati dai suoi piedi nudi”.

Una “fretta escatologica” che Pasolini ha ben rappresentato nel suo “Vangelo secondo Matteo”.
I musulmani vanno alla Mecca e questo è uno dei cinque pilastri delle regole del Corano. E nel mondo ebraico tutti i maschi ebrei (il maschio bambino appena è in grado di dare la mano al padre), sono tenuti ad andare a Gerusalemme. Anche il buddhismo e l’induismo hanno sempre favorito il pellegrinaggio sia delle persone comuni che camminano alla ricerca di una maggiore vicinanza con il divino sia dei monaci erranti. Govinda è andato a piedi in Tibet e giunto in cima al passo più alto, fedele alla tradizione ha girato più volte intorno alla piramide di pietre a cui ogni pellegrino aggiunge la propria in segno di gratitudine per il percorso fatto. E Matreya, il Buddha del futuro, declama “Da solo erro per mille miglia…e chiedo alle nuvole bianche la strada da seguire…”. Nel buddhismo Vipassana camminare è uno dei quattro modi di meditare e Thích Nhất Hạnh, un monaco vietnamita, ha scelto la Provenza per edificare il suo Plum Village dove si insegna e si pratica il vagabondaggio meditativo. Nel buddhismo Zen si alternano meditazione seduta e meditazione in cammino.
Camminare a volte coincide con la protesta: marce di protesta (come la Marcia di Gandhi, nel 1930, contro la tassa britannica sul sale), marce della pace (la Pellegrina della Pace americana che nel 1953 fece voto di continuare a camminare finchè il genere umano non avesse imparato la via della pace e che camminò per 28 anni e morì in uno scontro frontale), le marce contro la Guerra in Corea o in Vietnam, le marce per i diritti civili (le marce delle suffragette e quella di Martin Luther King a Birmingham nel 1963), le marce delle Madri intorno all’obelisco della Plaza de Mayo, che, per non incorrere nell’accusa di occupazione abusiva di suolo pubblico dovettero alzarsi e camminare in circolo, e ancora scioperi e cortei e processioni. Tutte queste manifestazioni si svolgono per la strada che è, per eccellenza, il luogo che appartiene a tutti e sono perciò strettamente connesse con il concetto di democrazia come spiega Rebecca Solnit che scrive nel suo bellissimo “Wanderlust. A History of Walking” (Verso Books), (“Storia del camminare”, Bruno Mondadori 2005) che “camminare non ha classi” raccontando come la questione dell’accesso ai terreni in Inghilterra sia stata nei secoli invece proprio una specie di guerra di classe (come del resto lo sono tutte le questioni di accesso a un bene comune). Il conflitto verteva su due diverse immagini del paesaggio, la prima che vedeva la campagna come un grande corpo suddiviso in parti ben distinte, la seconda come un organismo collegato da un sistema circolatorio costituito dai sentieri. Le servitù di passaggio affermavano, in accordo a questa seconda visione, che la proprietà non comportava necessariamente diritti assoluti e che i sentieri erano principi altrettanto significativi dei confini.

71hqvf+S07LIl rapporto tra letteratura, religione, filosofia, antropologia, sociologia, politica e il camminare è sterminato. Ogni anno gli autori che, come scriveva Honoré de Balzac in “Théorie de la démarche”, (“Teoria del camminare” SugarCo 1993), “fanno nascere i pensieri camminando”, riconfezionano le loro esperienze di viaggio per il pubblico sedentario. Frédéric Gros, emerito professore di filosofia di Parigi, con il suo “Andare a piedi. Filosofia del camminare” (Garzanti 2013) cosa può quindi aggiungere alla nostra comprensione? Inevitabilmente c’è una sovrapposizione nella selezione degli scrittori del passato che hanno studiato il camminare.
Tuttavia, la sua prospettiva aggiunge alcuni elementi degni di nota anche per chi conosce approfonditamente il tema, per esempio, l’analisi dei vecchi e nuovi atteggiamenti sul rapporto tra viaggiare a piedi e natura. Per un europeo, scrive Gros, un viaggio nel deserto è un ritorno ad un antica, casa ancestrale, mentre per un nordamericano come Thoreau, rappresenta il futuro. Gros appartiene alla categoria di studiosi membro della ‘scuola di camminata campestre’, e rivendica che “camminare in città equivale a soffrire, per chi ama le lunghe passeggiate nella natura, perché implica, un ritmo a scatti irregolare”. Nonostante ciò, dedica un capitolo alla figura del Flâneur (termine reso famoso dal poeta francese decadentista Charles Baudelaire che indica il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, provando emozioni nell’osservare il paesaggio), nata nel XIX secolo, quando “la città ha raggiunto dimensioni tali da diventare paesaggio”. Scrive Gros:

“Il flâneur è sovversivo. Sovverte la folla, la merce e la città, come pure i loro valori. Il camminatore dei grandi spazi, l’escursionista con lo zaino sulle spalle oppone alla civiltà l’esplosione di una rottura, la perentorietà di una negazione (Jack Kerouac, Gary Snyder…) L’atto di camminare del flâneur è più ambiguo, la sua resistenza alla modernità ambivalente. La sovversione non sta nell’opporsi, ma nell’aggirare, nello stornare, nell’amplificare fino ad alterare, nell’accettare fino a superare. Il flâneur sovverte la solitudine, la velocità, l’affarismo e il consumo”.

Sempre parlando di città, un’altro capitolo è dedicato ai giardini pubblici in cui “la passeggiata degenera in artificio mondano, anziché rivelare l’estetica delle strade o delle campagne”. I giardini, come Tuilieries di Parigi, creano una vera e propria moda di passeggiate galanti, raffinate, dove si cammina soprattutto per mettersi in mostra. I giardini giardini sono luoghi dove:

“D’estate ci si attarda fino a sera inoltrata nella luce arancione e nei riflessi viola, nella dolcezza del buio che scende pian piano, e nella polvere di quelle migliaia di passi. Gli alberi recano tutti la ferita di un nome di donna inciso col coltello da amanti tristi”.

Per chi abita in città, l’esterno è solo un luogo di transizione, un intermezzo, quasi un ostacolo fra un qui e un là. Non ha un valore in sé. La vita reale la continua in ufficio o a casa, prevalentemente all’interno di spazi chiusi. Prevale il ‘dentro’, rispetto al ‘fuori’. Scrive Gros:

“Il tragitto da casa propria alla metropolitana lo si fa con ogni tempo, il corpo frettoloso, la mente ancora rivolta a particolari privati e già proiettata verso gli obblighi del lavoro, le gambe che trottano, mentre la mano controlla, palpando nervosamente le tasche, che non ci si sia dimenticati di niente. Il fuori esiste appena: come un grande corridoio che separa, un tunnel, un’immensa vasca fra due chiuse”.

In una passeggiata di alcuni giorni in campagna l’ordine viene invertito, il ‘fuori’ non è più una transizione, ma l’elemento di stabilità. Si va di bivacco in bivacco, di rifugio in rifugio, è il ‘dentro’ a trasformarsi in variabile. Quando ci si lascia alle spalle i muri del rifugio e ci si trova faccia a faccia con il vento, “in mezzo al mondo: questa è proprio casa mia, per tutto il giorno, è qui che rimarrò camminando”.

Come era prevedibile, per Gros è fondamentale che riusciamo a costruire un rapporto equilibrato tra paesaggio fisico e mentale. In “Andare a piedi. Filosofia del camminare” si percepisce l’amore per le idee Friedrich Nietzsche, quando scrive, “Ci sono pensieri che possono venire soltanto al di sopra delle pianure e delle rive smorte”, o quando cita “La gaia scienza”, “Non si scrive soltanto con la mano. Anche il piede vuole scrivere sempre”; il fascino per Rousseau, per le sue camminate verso Torino, attraversando le Alpi, verso Parigi, Lione, che gli fanno scrivere, “Non ho mai pensato tanto, non sono mai tanto esistito, e non ho mai tanto vissuto e non sono mai stato tanto me stesso, se così posso dire, come nei miei viaggi, che ho fatto da solo e a piedi”; o per la ricerca di Rousseau dell’“uomo naturale, non alterato dalla cultura, dall’educazione, dalle arti: quello di prima, prima dei libri e dei salotti, prima delle società e del lavoro”.
Gros non ama i libri, o meglio non ama i libri di autori prigionieri delle loro pareti, inchiodati alle loro poltrone, indigeste e pesanti. Sono libri come “oche grasse: farciti di citazioni, ripieni di riferimenti, gonfi di chiose. Sono pesanti obesi e si leggono con lentezza, noia, difficoltà”, ma a suo modo costruisce il suo libro con riferimenti, citazioni e mini-biografie, di Thoreau, Rimbaud, Wordsworth e Kant. Raccontando toccanti storie di vita, dove il camminare può essere interrotto solo dalla malattia o dalla morte: Arthur Rimbaud, “l’uomo dalle suole di vento” e la sua ‘smania’ di fuggire a piedi, “non sono altro che un pedone”, le sue “gambe senza rivali” si fermano solo a causa di un’infezione al ginocchio e da una parziale amputazione della gamba destra; Nietzsche, il guerriero delle montagne, con il suo disprezzo per i “seduti”, le sue estenuanti emicranie, il dolore agli occhi, la follia e la paralisi che gli blocca la schiena sino a obbligarlo su una sedia a rotelle.
“Andare a piedi” è un bel libro, uno di quelli che non ti stancheresti mai di rileggere, uno di quei libri che bisogna leggere possibilmente al mattino, prima di uscire di casa, se si vuol resistere, nel quotidiano, al quotidiano. O come dice Gilles Deleuze in “Pourparler” (Quodlibet 2000), uno di quei libri che è: “un oggetto completamente accessibile, una cassetta degli attrezzi formidabilmente aperta, purché se ne abbia bisogno o se ne abbia voglia in quel momento”. Certo di molti libri e di molti autori ho sentito la mancanza: della “La passeggiata” (Adelphi 1976) dello scrittore svizzero Robert Walser, che rappresenta il capolavoro della letteratura del flâneur nonché una vera e profonda metafora dell’esistenza; di Sébastien de Fooz, che in “A piedi a Gerusalemme, 184 giorni, 184 volti” (Libri Scheiwiller 2010) ha raccontato il suo viaggio a piedi per sei mesi da Gand, nelle Fiandre, fino alla Città Santa attraversando 13 paesi con uno zaino e cinquanta euro in tasca per depositare, in una breccia nel Muro del Pianto, un sasso raccolto nel lager nazista di Dachau; o ancora, David Le Breton “Il mondo a piedi. Elogio della marcia” (Feltrinelli 2003); Duccio Demetrio, “Filosofia del camminare”; Thomas Espedal, “Camminare. Dappertutto (anche in città)” (Ponte alle Grazie 2009); Émeric Fisset, “L’ebbrezza del camminare. Piccolo manifesto in favore del viaggio a piedi” (Ediciclo 2012); Werner Herzog, “Sentieri nel ghiaccio” (Guanda 1994), e molti altri.
Certo, a volte questi libri possono sembrare ripetitivi, come di per sé il camminare, ma ogni persona che ama andare a piedi sa che esprimono il modo in cui un paesaggio viene gradualmente assorbito dagli escursionisti, e che l’impegno che ci vuole per coprire le lunghe distanze non è altro che esortazione a proseguire.

“Andare a piedi. Filosofia del camminare”(Garzanti 2013) di Frédéric Gros su Amazon: http://amzn.to/1cGYg9Y

Il profilo di Frédéric Gros sul sito dell’École normale supérieure: http://bit.ly/1JB1Dt6

“Frédéric Gros”, interview by Michael Schapira. Full Stop: http://bit.ly/1GYqWCw

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