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“The Climate Book”, 100 esperti per capire cos’è il cambiamento climatico.

In questo testo desidero dire qualche parola sull’ultimo libro di Greta Thunberg The Climate Book”, un testo scritto con lo scopo di dare un solido contributo affinché le generazioni future possano vivere in un mondo migliore.

Io sono nato nel 1999, in un’epoca in cui la preoccupazione del cambiamento climatico e della possibile distruzione del genere umano sono al centro della scena mediatica, mentre per le generazioni precedenti alla mia questi rischi erano percepiti come totalmente inesistenti.

Per le generazioni prima della mia, diciamo quelle nate nate dopo Seconda guerra mondiale, le questioni che si ponevano erano piuttosto di ordine politico e sociale. Come poteva sopravvivere questa umanità (dall’ovest dell’Europa al Giappone, in Cina e nel Nord America) alla terribile crisi del dopoguerra e riuscire a trasformarsi in un mondo egalitario e pacifico? Ciò non significava che l’equilibrio tra i consumi umani e le risorse naturali fosse ignorato, ma passava in secondo piano, poiché la ricerca del benessere individuale era l’obiettivo, e ciò supponeva la risoluzione di tutti i problemi attraverso il progresso tecnico.

All’inizio del mio testo ho voluto ricordare questa cosa non per indicare delle responsabilità (che pure ci sono) e neanche per sminuire gli errori delle generazioni che mi hanno preceduto, ma per meglio comprendere il cammino che i ragazzi della mia età hanno percorso da quell’epoca.

Il merito di Greta, e di tutti noi che sosteniamo con lei questa battaglia – ricordiamoci il senso della parola ecologia, la scienza dell’oikos, poiché il mondo è dopotutto la nostra sola oikos – , è di porci davanti questa urgenza, questa totale, imprescindibile, assoluta necessità: esaminare ora i nostri valori, fare le nostre scelte senza più ritardare, decidere noi stessi del nostro avvenire e di quello dei nostri figli.
Ciò si chiama verità, tutto il resto non è che vano discorso, una chimera distruttrice, una mascherata senza esito alcuno.

Prima di parlare del libro di Greta, desidero dire solo un’altra cosa sugli ultimi anni che abbiamo e ho vissuto e che ritengo abbia segnato una svolta sia sociale che psicologica per tutti noi.
Paralizzando il mondo per oltre due anni, la pandemia di Covid-19 mi ha rivelato l’evidenza della straordinaria e terrificante vulnerabilità dell’attuale “modello di sviluppo”, nonché della potenziale moltiplicazione dei rischi sistemici combinati che si accumulano all’interno di questo modello.
Essa prova che questo modello è condannato a morte, e che ci condannerà a morte con lui, ovunque saremo nel mondo, qualora non lo cambiassimo.

Ma torniamo al libro The Climate Book, le tesi esposte dai diversi esperti invitati da Greta a delineare uno scenario completo sulla crisi climatica sono di grande utilità perché oltre a descrivere da un punto di vista scientifico ciò che sta accadendo alla Terra, propongono in anticipo possibili scenari per ricostruire il tessuto naturale e sociale attraverso un’economia della transizione – e non un’economia di guerra – un mondo post-pandemico all’insegna di una pace economica mondiale fondata su un nuovo patto economico capace di esprimere anche un trattato di pace politico per il nuovo millennio.

Quando parliamo di Greta Thunberg sembra che sia sempre esistita. Eppure era solo 2018 (cinque anni fa!) quando per protesta ha deciso di non andare a scuola e di sedersi fuori dal parlamento svedese dando vita a “School Strike for Climate” una movimento destinato a cambiare per sempre il dibatti mondiale sul clima. Quel che è successo da allora non è stato solo uno stravolgimento della sua vita privata – all’epoca Greta era un’adolescente vittima di bullismo affetta da mutismo selettivo, ora è figura e un’icona tra le più note a livello globale – ma anche la prova vivente che anche una singola persona, che anche io, che ognuno di noi, può fare differenza per promuove il grande cambiamento di cui abbiamo bisogno. E con la pubblicazione di “Climate Book”, Greta Thunberg, alza la sfida a un nuovo livello.

Con “ The Climate Book” credo che Greta abbia fatto una cosa semplice ma geniale, ha usato il suo status per coinvolgere più di 100 esperti provenienti da tutto il mondo per condividere testi illuminanti sulle grandi sfide che stiamo affrontando. Non riesco a pensare a nessun altro che avrebbe avuto il potere di farlo e il risultato di è una risorsa incredibile e emozionante.

Ci sono capitoli su quasi tutto ciò che dovremmo sapere per avere coscienza dell’attuale crisi climatica e sociale: dai cicli di feedback del clima, all’instabilità del permafrost, su come affrontare il consumismo, sul collasso dell’ecosistema, sulla gestione della transizione ecologica verso le energie rinnovabili, sul razzismo ambientale, vale a dire sulle comunità di colore che vengono colpite in modo spaventoso dal cambiamento climatico.

The Climate Book” è diviso in cinque parti: come funziona il clima, come sta cambiando il nostro pianeta, come ci influenza, cosa ne abbiamo fatto e cosa dobbiamo fare ora.
Ogni sezione è introdotta e completata da un saggio della Thunberg. Quello che mi piace di questo approccio è che costringe ogni autore a descrivere la sua esperienza in poche pagine in modo chiaro e sintetico. In questo modo il libro diventa una FAQ, uno “sportello unico” a disposizione delle persone per trasformarle da spettatori passivi a cittadini attivi e consapevoli.

Consiglio veramente di leggerlo perché ognuno di voi potrà ottenere dal libro qualcosa di utile e illuminante.
La prima metà del libro si occupa di quella che potremmo chiamare la “scienza della crisi” in corso, ponendo una solida e dettagliata base su cui viene costruita la restante parte del libro.

Friederike Otto dell’Imperial College di Londra nel testo “Tempo pericoloso” spiega la scienza dell’attribuzione di eventi estremi (nel libro ne parla anche Kate Marvel), determinando come possiamo collegare le ondate di caldo al cambiamento climatico, dice Otto: “Da questa scienza sappiamo con notevole sicurezza che, quando si verifica una tempesta, il livello di precipitazioni a essa associato è superiore a quello che sarebbe in un mondo senza cambiamenti climatici”.
La scienza dell’attribuzione ci rivela il costo finanziario di eventi meteorologici estremi che possono essere attribuiti al cambiamento climatico, dimostrando ad esempio che dei 90 miliardi di dollari di danni causati a Houston dall’uragano Harvey nel 2017, 67 miliardi di dollari sono dovuti alla pioggia aggiuntiva determinata dal riscaldamento globale.

In un’altro testo del libro, “Punti di non ritorno e cicli di feedback”, straordinariamente potente (e francamente terrificante), Johan Rockström, direttore dell’Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico, mostra il pericolo di attraversare i cosiddetti “punti di non ritorno” e “cicli di feedback” – processi come lo scioglimento dei ghiacciai che sono irreversibili e auto-rafforzanti – e destabilizzare l’intero sistema terrestre. Scrive a conclusione del testo: “Stiamo decidendo se lasciare ai nostri figli e ai figli dei nostri figli un pianeta che in futuro continuerà la deriva verso condizioni di sempre minore abitabilità”.

Nel magnifico testo di Amitav GhoshIl gap percettivo”, lo scrittore, giornalista e antropologo indiano, autore del libro “La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi”, descrive come le persone nei paesi a basso reddito vedono i tentativi delle Nazioni a più alto reddito di imporre limiti alle emissioni di carbonio solo come un’altra forma di colonialismo. Nel tentativo: “di imporre limiti alle emissioni di carbonio dei paesi poveri si vede diffusamente un modo surrettizio per preservare le disparità economiche e geopolitiche degli ultimi duecento anni”. E non sorprende che: “La letteratura sul cambiamento climatico, prodotta in misura assolutamente preponderante da università e Think Tank occidentali, sia anch’essa in gran parte incentrata su questioni tecniche ed economiche. Di conseguenza, conclude Ghosh: “Nel Nord il riscaldamento globale è in larga misura inquadrato nel contesto della tecnologia, dell’economia e della scienza; nel Sud lo stesso fenomeno è visto nei termini delle disparità di potere e di benessere, tutte riconducibili alle disuguaglianze geopolitiche dell’epoca del colonialismo”.
Amitav Ghosh afferma che un’azione adeguata sui cambiamenti climatici non è potuta avvenire perché c’è uno scontro tra le istituzioni multilaterali e la realtà della geopolitica, dove i paesi ad alto reddito vogliono rimanere dominanti su quelli a basso reddito.

È per questo che, come sottolinea Saleemul Huq, direttore del Centro internazionale per i cambiamenti climatici e lo sviluppo in Bangladesh, nel testo “La vita a 1,1 °C”, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici è autorizzato a utilizzare solo l’eufemismo diplomaticamente negoziato, “perdite e danni” invece di indicare qualcosa di cui non è permesso di parlare e di cui i paesi a basso reddito hanno disperatamente bisogno: “responsabilità e compensazione”.

Per Espen Stoknes speaks at TEDGlobal NYC, September 20, 2017, The Town Hall, NY, NY. Photo: Ryan Lash / TED

Ci sono anche altre ragioni che portano all’inazione. Lo psicologo e politico norvegese Per Espen Stoknes, nel testo “Superare l’apatia climatica” ne identifica cinque, che chiama le 5D, sono cinque meccanismi di difesa psicologica: Distacco, Destino, Dissonanza, Diniego e iDentità.

Distacco, significa che viviamo il cambiamento climatico come qualcosa lontano e astratto, invisibile, lento e distante in termini di spazio e di tempo. Destino e Diniego, si riferiscono al modo in cui inquadriamo il cambiamento climatico che da un lato viene percepito come una catastrofe incombente che minaccia grandi sacrifici e dall’altro ci porta a un rifiuto della scienza sul clima, suscitando un senso di colpa e una repressione della consapevolezza che nel lungo periodo diventa assuefazione ed elusione del problema. Cerchiamo di giustificare ciò che facciamo mettendo in atto un meccanismo di dissonanza cognitiva che separa le nostre azioni (guidare la macchina, mangiare carne rossa, prendere l’aereo, ecc.) e i loro effetti (emissioni di carbonio), lo facciamo per continuare a vivere il nostro quotidiano senza modificare nel concreto i nostri comportamenti. Infine vengo alla la quinta D di Stoknes, l’iDentità, la sensazione che i cambiamenti obbligatori nello stile di vita per far fronte alla crisi climatica minacciano il nostro senso di sé ma anche le nostre libertà e i valori in cui abbiamo sempre creduto.
Il testo di Espen Stoknes, non ci lascia dubbi sulla portata del compito che dobbiamo affrontare. Non parliamo “solo” di crisi climatica, ma anche di: crisi di sostenibilità, crisi di biodiversità, crisi di uguaglianza e crisi di giustizia. In modi differenti tutti gli autori chiamati da Greta Thunberg offrono loro suggerimenti su ciò che deve essere fatto per affrontare questi queste crisi e Stoknes fa un accorato appello che voglio riportare. Lo psicologo dice che:

“Abbiamo assoluto bisogno di Fridays For Future e degli scioperi a scuola. Abbiamo bisogno di Extinction Rebellion, della Citizens’ Climate Lobby, di Concerned Scientists United, di 350.org e di Conservatives for Climate. Abbiamo bisogno di scienziati, economisti, sociologi e ingegneri. Abbiamo bisogno di gente nella finanza e nelle amministrazioni, e soprattutto di coloro che dispongono di reti internazionali, per aiutarci a investire nell’economia di domani. Abbiamo bisogno anche di designer, elettricisti, architetti e staff di manutenzione dei parchi eolici. Abbiamo bisogno di ecologisti, esperti di agricoltura rigenerativa e chef vegani; e abbiamo bisogno di musicisti, scultori, influencer, artisti e stilisti”.

L’economista inglese Kate Raworth, nota per il suo lavoro sulla cosiddetta “economia della ciambella“, che interpreta come un modello economico in equilibrio tra bisogni umani essenziali e limiti planetari, apre il suo intervento “Verso stili di vita da 1,5 °C”, con una frase del 1987 dell’artista americana Barbara Kruger: “Compro dunque sono”. Un frase iconica che sintetizza benissimo gli stili di vita consumistici del XX secolo che hanno devastato la salute delle persone e del pianeta.
La Raworth ci espone alcune brillanti idee su come “guarire dal consumismo”, che è stato per oltre un secolo e tutt’ora è il vero perverso motore della crescita economica mondiale.
La prospettiva che descrive è raggiungere quelli che chiama “stili di vita 1,5 °C”, stili che toccano settori chiave tra cui il cibo, le abitazioni, il trasporto personale, i prodotti di consumo, il tempo libero e i servizi. Per farvi capire meglio faccio qualche esempio tratto dal suo testo: nel settore dei trasporti eliminare gradualmente jet privati, megayacht, auto alimentate a combustibili fossili, voli brevi e premi per i frequent flyer introducendo alternative migliori, da reti ferroviarie eccellenti al car sharing e auto elettriche, a linee di autobus e bici dedicate di modo che le scelte sostenibili diventino una facile opzione quotidiana su cui orientarsi, accessibile e abbordabile per chiunque (questo avviene in parte succede in Francia, dove il governo ha vietato i voli nazionali a corto raggio, promuovendo invece i viaggi in treno). Oppure cercando progressivamente di cancellare l’economia usa e getta spingendo l’economia circolare (questo già successo ad Amsterdam partendo dal settori edile, alimentare e tessile). Oppure proibendo l’inquinamento visivo dei cartelloni pubblicitari (avviene già Grenoble, Ginevra, São Paulo e a Chennai). A chiunque abbia la curiosità di provare cosa significa adottare uno stile di vita da 1,5°C, il movimento civico “Take The Jump” propone sei principi per riuscirci:

“Smetti di accumulare: tieni i prodotti di elettronica per almeno sette anni.
Fai le vacanze in loco: prendi aerei a corto raggio solo una volta ogni tre anni.
Mangia green: adotta un’alimentazione a base di verdure e non fare sprechi.
Vestiti rétro: compra al massimo tre capi d’abbigliamento nuovi ogni anno.
Viaggia pulito: non usare auto private, se possibile.
Cambia il sistema: agisci in modo da smuovere e spostare il sistema generale”.

Certo per alcuni di noi questo può essere un approccio scoraggiante. Potremmo farci l’idea che i cambiamenti nei nostri stili di vita individuali sono piccole gocce che stentano a riempire un enorme secchio, specialmente quando apprendiamo che l’idea del calcolo della “Carbon Footprint” – l’impronta che ognuno di noi lascia sul pianeta in termini di emissioni di CO2 prodotta, con le sue abitudini alimentari, con i suoi ritmi di lavoro e con il tipo di spostamenti che effettua – è stata inventata e promossa da BP come un tentativo di spostare la responsabilità dal profitto delle Big Oil a noi consumatori.


Ma come apprendiamo nel testo “Azione individuale, trasformazione sociale” degli scienziati sociali ambientali Stuart Capstick e Lorraine Whitmarsh, è vitale che spingiamo per questi cambiamenti continuiamo a parlarne. Abbiamo tutti visto quanto velocemente le opzioni alimentari vegane sono diventate disponibili nei ristoranti e nei supermercati di molti paesi comportando consistenti diminuzioni di emissioni di gas serra in alcuni paesi del mondo. Scrivono i due autori: “In virtù delle complesse interazioni tra le azioni individuali e il cambiamento sociale, sussiste la possibilità di effetti domino: tante azioni distinte possono portare a un ribaltamento delle convenzioni sociali attraverso punti di non ritorno dirompenti e di rapida diffusione” e “Dovremmo ricordarci che non c’è nulla di «individuale» nell’azione del singolo: essa è il mattone irrinunciabile da cui parte la possibilità di una trasformazione sociale”.
Questo è il tipo di punto di svolta di cui abbiamo bisogno.

In un bellissimo testo in cui Greta Thunberg, racconta la sua faticosa ma straordinaria esperienza, scrive una cosa che condivido al 100% e che è diventata parte della mia vita:
“Invece di chiedere agli altri se c’è ancora speranza, chiedete a voi stessi: siete pronti a cambiare? Siete pronti a uscire dalla vostra comfort zone e a diventare parte di un movimento che realizzi le trasformazioni sistemiche di cui c’è bisogno? Certo, all’inizio potreste sentirvi un po’ a disagio. Ma di nuovo, è in gioco il futuro di tutta la nostra civiltà, per cui potrebbe davvero valerne la pena. “Il cambiamento crea speranza e la speranza crea il cambiamento, ma bisogna lavorare”
e io aggiungo: bisogna lavorare tutti assieme!.
Greta finisce il libro con un elenco di cose che potremmo fare, a partire dall’iniziare a trattare questa crisi come una crisi.

Come scrive “Il potere del popolo”, la politologa Erica Chenoweth, studiosa dei movimenti di resistenza civile non violenti, solo una massiccia azione collettiva incoraggerà i decisori a intraprendere le azioni necessarie per promuovere la giustizia climatica, in modo che le persone meno responsabili del cambiamento climatico non siano quelle maggiormente colpite.

“The Climate Book” è un progetto straordinario e raccomando a tutti di acquistarlo e di leggerlo. Al di la di quello che ho già detto, quello che troverete nel libro è la passione e il peso intellettuale degli autori che Greta ha coinvolto in un percorso contagioso che oggi più che mai – in un’epoca che come ha scritto il filosofo e psicanalista argentino Miguel Benasayag è caratterizzata sempre più da da “passioni tristi” – deve diventare la passione che ci deve unire tutti.

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