ma l'amor mio non muore

Rallentiamo il potere.

Sopra. Urban Flow 293, Hong-Kong (particolare). Fotografia: Adam Magyar.

“La velocità ha sostituito il ritmo con un rumore cadenzato. Voi ora volete attenuare questo trasferimento. lo invece esploro le zone di esperienza trascurate e senza velocità. Non cerchiamo una fuga dalla prigione dell’alta velocità verso un mondo di repressioni meno seccanti; domandiamo se e dove l’ombra della velocità può essere evitata del tutto”.
Ivan Illich, “Prigionieri della velocità”.

Penso che quella del rallentamento sia un’idea autenticamente anticapitalista, dal momento che la forza del capitalismo è un movimento in avanti astratto, una continua invenzione di nuove astrazioni e di definizioni di cosa sia una risorsa, di cosa debba essere sfruttato e dei profitti da trarre.
Il capitalismo ha una tremenda inventiva, e una delle sue condizioni è che nessuno possa avere il tempo per farsi delle domande sulle conseguenze di ciò che si sta inventando, a parte la creazione del profitto.
È sempre una questione di velocità, essere più veloci degli altri, rivendicare il diritto a essere veloci. Credo sia davvero la velocità a tenere assieme la macchina capitalista.
Il capitalismo è un processo di mobilitazione – termine originariamente militare. Come ha ben descritto il filosofo, urbanista francese Paul Virilio in “Velocità e politica” (Multhipla 1981): “L’attitudine alla guerra, è l’attitudine al movimento”.
Quando si mobilita un esercito, non ci deve essere nulla che possa rallentarne l’avanzata – c’è un doppio problema, ciò di cui l’esercito ha bisogno, e ciò che potrebbe essere un ostacolo alla sua avanzata. Conoscete tutti quei mots d’ordre sul fatto che nessuno deve fermare il progresso, impiegati contro chiunque si interroghi sulle sue conseguenze. È interessante anche soltanto immaginare cosa potrebbe accadere se quella mobilitazione rallentasse. Ogni qualvolta un governo mobilita il proprio esercito per andare in guerra, ad esempio cosa accadrebbe se i suoi membri dovessero andare a spiegare in ogni villaggio, a spiegare a ogni madre, ogni figlia, a ogni sorella come mai quella guerra è necessaria, come mai non la si può evitare, perché vale la pena che il loro uomo vada a morire? Ogni villaggio potrebbe discuterne e decidere. Ma oggi abbiamo un esercito fatto di professionisti e gli Stati si sono inventati la politica delle “zero morti” eludendo il problema. L’accelerazione fa scomparire dalla scena come si sentono quelle donne, l’impotenza di fronte alla partenza, la disperazione del non essere in grado di rallentare le cose.
È un problema che si ripropone ad ogni invenzione del capitalismo, a ogni definizione di cosa sia una ‘situazione’.

Ma il rallentamento non ha a che fare solo con il capitalismo. Ha a che fare con tutti gli eventi e gli incontri che ci fanno pensare e sentire.
Qualche anno fa, assieme ad alcuni amici, con METAZoo ho dato via a “Speech Act”, un progetto di workshop filosofici sulle trasformazioni delle città europee a cui hanno partecipato oltre sessanta tra intellettuali e progettisti, coinvolti in quattro tavoli di lavoro a Milano, Roma, Torino e Venezia. Si trattava di workshop nei quali abbiamo tentato di attivare un processo collettivo di pensiero. Per farlo abbiamo inventato giochi e regole (utilizzando materiali vari), il cui scopo e successo risiede nel rallentare il processo di domanda/risposta, in modo da non esprimere solo ciò che si pensa, ma di sentire il pensiero mentre diventa parte di un’avventura collettiva. Quando andavamo troppo veloci ce ne accorgevamo immediatamente perché non ‘sentivamo’ più la possibilità di stabilire nuove invenzioni e connessioni.

Le regole che ci eravamo dati facevano si che fosse impossibile porsi come ‘uno che sa cosa sta pensando’, e facevano in modo che il pensiero emergesse da una sorta di balbettio, di narrazione multidimensionale collettiva.

Tornando alla velocità sono colpito dal fatto che oggi la speculazione capitalista e la politica, che in questo le è solidale (se pensiamo ad esempio alla retorica italiana sulla rottamazione) abbia bisogno di giovani e poi li respinga appena l’età rende la loro esperienza più concreta, non appena rallentano e iniziano a pensare. Voglio dire che bisogna essere molto immaturi e spregiudicati per pensare che il circolo vizioso: indebitamento, destabilizzazione dei sistemi di welfare, speculazione finanziaria, non abbia delle conseguenze drammatiche sulla vita dei cittadini. Il capitalismo funziona proprio così, con questa sapiente immaturità – afferrare continue occasioni e reagire il più velocemente possibile. È un pensiero completamente astratto privo di ogni speranza e di interesse per il bene comune.

La mia speranza e il mio impegno sono rivolti a qualunque processo faccia si che le persone interessate alle conseguenze si riuniscano e siano in grado di imporre le proprie domande, obiezioni, controproposte.
Tutto questo è possibile – non sarebbe neppure un miracolo, poiché credo che un interesse attivo circa le nostre vite e il nostro futuro potrebbe diventare un’abitudine. Se mai succederà, ci chiederemo come abbiamo fatto ad accettare di sentirci dire dai politici che “dobbiamo fare in fretta” o dai tecnici “sanno di cosa parlano” o dai media “cambiamo tutto!”, e che in realtà tutti questi slogan significano una sola cosa, che non stiamo cambiando nulla.

Ivan Illich, in “Prigionieri della velocità”, in un discorso pronunciato nel 1996 al Netherlands Design Institute di Amsterdam, sostiene che la velocità sia un fenomeno caratteristico della nostra epoca, ma che stiamo già andando altrove. Voglio chiudere questo post con le sue parole di speranza:

“Ecco la mia convinzione. Chiamatela intuizione o preconcetto, oppure prendetela come la semplice ipotesi di un estraneo: l’età della velocità ha avuto un inizio, ma ora ne parliamo come storia perché siamo testimoni della sua fine”.

“Rallentiamo il potere” fa parte del progetto “Ma l’amor mio non muore. Possiamo trasformare la speranza in una politica rivoluzionaria?”, pubblicato su queste pagine e in forma più completa su Medium.

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