
ma l'amor mio non muore
Abbiamo bisogno dei Black Bloc?
In “Rallentiamo il potere”, un testo pubblicato in questo blog, ho sostenuto la tesi che il rallentamento possa essere considerato un’idea autenticamente anticapitalista, dal momento che la forza del capitalismo è una continua invenzione di nuove astrazioni senza che nessuno possa avere il tempo per farsi delle domande sulle conseguenze di ciò che si sta inventando, a parte la creazione del profitto. Rallentare è innanzitutto uno strumento di controllo e di autonomia, ma decelerare, come sostiene il sociologo tedesco Hartmut Rosa in “Accelerazione e alienazione” (Einaudi 2015), è anche uno strumento di analisi per imporre le proprie domande, le obiezioni e le controproposte, ed è uno strumento di razionalizzazione e dunque di programmazione. Quindi la mia speranza è che le persone non associno mai la ‘fretta’ alla loro opposizione al capitalismo.
A questa considerazione, desidero aggiungerne altre due: che il dissenso presti attenzione alla ‘varietà’ (alla molteplicità dei movimenti politici di opposizione) e alla ‘convergenza’.
In modo particolare ‘imparare a convergere’ può rappresentare una nuova e potente idea se smettiamo di cercare un principio che farebbe convergere la varietà e proviamo a pensare alla convergenza come a un processo impegnativo e creativo. Voglio fare un esempio su un tema controverso. In seguito ai recenti scontri a Milano con i Black Bloc che sui media hanno oscurato le ragioni delle manifestazioni No-Expo, ho riletto alcuni testi dell’ecologista femminista Miriam Simos, meglio conosciuta come Starhawk, da decenni coinvolta in un movimento non violento e che da prima di Seattle a oggi ha istruito i manifestanti all’azione non violenta. Parte dei suoi interessanti scritti è sotto forma di racconti immaginari circa il modo in cui tale forma di attivismo non violento potrebbe prevalere, ma dal 2001 si è anche battuta affinché le frange più violente delle manifestazioni, non venissero ostracizzate. In “Quebec City: Beyond Violence and Nonviolence”, ha scritto che c’è bisogno di loro, che le dovremmo accogliere, anche se una posizione di questo tipo è difficile da difendere.
Scrive la Starhawk:
“Abbiamo bisogno del Black Bloc, o di qualcuno come loro. Abbiamo bisogno di spazio nel movimento per la rabbia, per l’impazienza, per il fervore militante“.
La strategia del potere è di separare l’attivismo non violento da quello violento, per far si che si fronteggino l’un l’altro. Ma noi dobbiamo essere più consapevoli, avere coscienza che è importante creare lo spazio per una coesistenza intelligente. E non possiamo dimenticare che la violenza dei Black Bloc non è nulla se paragonata a quella della polizia. La questione non è tanto esigere che vi sia un principio unificatore più forte della divergenza, quanto piuttosto imparare a collaborare non a dispetto ma attraverso quella divergenza. Come ha scritto la Starhawk è fondamentale sentire che il movimento è più povero senza i Black Bloc, ed è da lì che dobbiamo partire per iniziare a capire. Dovremmo prendere queste parole sul serio e non limitarci a leggere i giornali e chiederci se ‘quelli’ otterranno qualcosa.
Lottare è un processo di apprendimento e riguarda il potere di pensare insieme, che ha poco a che vedere con la ‘libertà individuale’.
Per produrre nuovi pensieri e nuove sensazioni, vivere nuove esperienze, non abbiamo mai avuto bisogno del “Siate liberi!”. La libertà se dobbiamo usare questa parola, non è una proprietà dell’individuo, un attributo dell’essere umano in quanto tale, ma non è neanche un parola vuota. Possiamo calpestare la libertà di qualcuno e lo facciamo tutti i giorni, quando separiamo la persona dal processo personale o collettivo che la mette in grado di pensare e di sentire. Ne consegue che non siamo mai proprietari di ciò che diventiamo.
Dal mio punto di vista, le pratiche politiche e spirituali associate all’attivismo non violento sono l’esempio migliore di libertà, che è la capacità di partecipare e di sentirsi in debito per tale capacità. Rileggendo le cronache da Seattle in poi, possiamo affermare che i no-global, avevano capito che la linea dell’attivismo non violento era molto difficile. La polizia avrebbe tentato di provocare la violenza. Cosa piuttosto facile, dal momento che in alcuni contesti è più difficile non tirare pietre che tirarle (a questo proposito è da leggere il saggio di David Graeber, “On the Phenomenology of Giant Puppets: Broken Windows, Imaginary Jars of Urine, and the Cosmological Role of the Police in American Culture”, pubblicato in Italia in “Oltre il potere e la burocrazia”, Elèuthera 2013). I manifestanti dovevano adottare un processo decisionale che desse loro il potere di resistere alle provocazioni e consentisse loro di mantenere le proprie posizioni ogni qualvolta avessero avuto a che fare con la violenza e con il conflitto. Crearono quindi un processo decisionale il cui scopo era quello di dirimere gli eventuali disaccordi e resistere alla tentazione di uniformarsi.
Questa è ciò che chiamo un’invenzione ‘spirituale’. Ha forti limitazioni. Ad esempio non bisognerebbe mai dire a qualcuno che la sua posizione è sbagliata – ci si riunisce attorno ad un problema, ed è anche attraverso la produzione e la creazione del problema stesso che le persone possono divenire.
Ed è possibile solo grazie alla speranza che ripongono in un processo in grado di produrre consenso. Agire secondo la convinzione che una contraddizione possa essere risolta – non ignorata o dimenticata, ma risolta mediante la creazione di una nuova comprensione – implica che noi non viviamo in un mondo arbitrario, cieco e che così com’è, le nostre definizioni lo devono accettare e affermare. Significa dare importanza alla novità quando questa è pertinente, non cieca, ma pertinente. Per tornare alla Starhawk, penso che lei sia un buon esempio di pensatrice della speranza. Ha scritto che ci aspettano molte battaglie, anche molto difficili, ma che dobbiamo sentire e celebrare, onorare le nostre vittorie perché, indipendentemente da quale sarà il risultato finale che nessuno conosce, la speranza che esse creano conferisce forza e fa parte del processo di ogni cambiamento possibile. Un simile consenso è una conquista, un apprendimento, un evento cosmico. Ecco sì, possiamo dire che è qualcosa di nuovo nel cosmo.
“Abbiamo bisogno dei Black Bloc?” fa parte del progetto “Ma l’amor mio non muore. Possiamo trasformare la speranza in una politica rivoluzionaria?”, pubblicato su queste pagine e in forma più completa su Medium.
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