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The Dogs Day Are Over
“When you ask a person to jump, his attention is mostly directed toward the act of jumping and the mask falls so that the real person appears.”
Philippe Halsman
Non conoscete il significato della parola “jumpology”? Bene non siete gli unici.
Il termine è stato coniato nel 1950 dal fotografo Philippe Halsman. Le fotografie di Halsman sono ludiche, trasgressive, il suo carnet des célébrités annovera capi di stato, magnati dell’industria, star di Hollywood, musicisti, scienziati, politici, scrittori, artisti come Salvator Dalì, Marc Chagall, Pablo Picasso. Fu l’ideatore della tecnica del “jumping style” o “jumpology” che consiste nel ritrarre una persona mentre sta saltando, in modo che abbia difficoltà a controllare l’espressione del viso per restituire un’immagine il più possibile spontanea e naturale. Halsman, scrive in “Jump”, pubblicato nel 1959 e riedito nel 2015 da Damiani: “Con un salto, la maschera cade. La persona reale si rende visibile”.
Halsman era attratto dalla psicologia, trascorreva molto tempo ad esaminare la personalità e gli interessi dei soggetti ritratti, cercando di rappresentare l’essenza. Così il salto, il Jumping Style, serve a Halsman per eliminare ogni possibile espressione bloccata, riconoscibile, magari impacciata di chi appunto salta.
La cifra delle sue immagini sta proprio nello spaesamento, nella rappresentazione di uno spazio, di forme sospese, impossibili; così proprio attraverso la fotografia, che si suppone rappresentare sempre il reale, Halsman inventa una immagine ambigua.
Come già nella straordinaria immagine “Saut dans le vide” (“Leap into the Void”) di Yves Klein scattata da Harry Shunk e János Kender nel 1960, il salto è un momento di gioco, di svincolo dai freni inibitori, di esplosione emozionale, di elevazione dagli schemi imposti dalla realtà quotidiana, per vincere le perfette e ineluttabili regole fisiche, per superare i limiti della natura: un atto che consente di spogliarsi completamente da quelle sovrastrutture che impediscono di “esporre” il nostro essere.
Per sociologo francese Roger Callois nel suo testo del 1958 “I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine” (Bompiani 2000), l’Ilinx, il gorgo, la vertigine, è il jeux d’emportement (il gioco d’impeto, di passione) che fa cadere la maschera. Sono i giochi che sperimentano il limite di ciascuno. Saltare ne è un tipico esempio, una volta che abbiamo deciso di saltare nulla può fermare la nostra azione, perdiamo il controllo momentaneo per riacquisirlo nel momento in cui tocchiamo terra. Non a caso queste attività in cui i bambini si cimentano se lasciati liberi di farlo sono spesso vietate, controllate o normate dagli educatori (una ricerca del 2007 dell’Università di Bologna individua il saltare, il saltellare, il saltare in basso, il salire, come le prime attività praticate nel corso del gioco spontaneo dai bambini di 3/6 anni) .

“Leap into the Void”, Yves Klein, 1960
Il lavoro di Halsman ha catturato l’attenzione Jan Martens, giovane coreografo belga (che oggi vive e lavora in Olanda) che dal 2010 ha iniziato una ricerca proprio su questi temi, per: “mettere in discussione la percezione del pubblico sui ballerini, sui coreografi, sul pubblico e sulle politiche culturali”.
Dove si trova la linea sottile che separa/unisce l’arte e l’intrattenimento? Cos’è l’intrattenimento?
Ci sono modi per conciliare la ricerca artistica e l’intrattenimento? Perché piacciono i reality tv come “Survivor” o altri programmi televisivi in cui lo spettatore è portato a divertirsi contemplando la sofferenza dei protagonisti come se si trovasse di fronte ai gladiatori nell’epoca romana? Perché il pubblico viene a vedere i danzatori soffrire come se stesse guardando la corrida in un’arena? La danza contemporanea può essere considerata come lo striptease dell’upper class?
In “The Dog Days Are Over” presentato Romaeuropa Festival 2016 (Teatro Vascello) Martens, con uno stile minimalista, ripetitivo, implacabile realizza una performance basata sull’idea concettuale di Halsman: il salto toglie la maschera alla realtà.
Per 70 minuti otto ballerini non fanno nient’altro. “Quando salti”, dice Martens, “non sei impegnato in una posa. Sei impegnato nell’atto di saltare”.
The Dog Days Are Over da Jan Martens su Vimeo.
“The Dog Days Are Over” e gli altri progetti di Martens, come lui stesso ha dichiarato in un’intervista al magazine “Cleeft“, sono stati influenzati dal lavoro di Jan Fabre, innanzitutto nella riflessione sul corpo, sulla bellezza che emerge dalla disciplina con cui l’attore lo sfinisce nel tentativo di superarne i limiti, nella tensione verso la ricerca del movimento perfetto, e soprattutto nella ripetizione ossessiva che, come scrive Gilles Deleuze, facendo riferimento al concetto dell’eterno ritorno di Nietzsche, porta con sé la possibilità di differenziarsi dalla generalità, di elevare all’ennesima potenza ed estrarre la forma superiore. La ripetizione come trasgressione e liberazione della volontà. Scrive Deleuze: “Volontà di potenza non ha per nulla il significato di “volere la potenza”, ma al contrario: qualunque cosa si voglia, elevare ciò che si vuole all’ennesima potenza vale a dire estrarre la forma superiore, grazie all’operazione selettiva del pensiero nell’eterno ritorno, in virtù della singolarità della ripetizione proprio nell’eterno ritorno”.
Ciò che permette di giudicare la ripetizione come differenza non è tanto l’intelletto, ma la memoria, il cuore, il corpo, che sono “amorosi” della ripetizione.
Per l’attore, il lavoro di Martens, comporta un allenamento fisico e mentale estenuante, e gli spettatori, abituati alla sofferenza mediatamente derealizzata, spettacolarizzata dei reality e all’osceno, che come scrive Jean Baudrillard ne “L’agonia del potere” (Mimesis 2008), diventa banale, viene chiesto di confrontarsi con se stessi come spettatori della loro fatica e della loro sofferenza.

“The dog days are over”, foto Piet Goethals
In una bella intervista rilasciata Chiara Pirri e pubblicata su “Artribune“, Jan Martens, riconosce numerose altre influenze linguistiche di dancemakers come Lucinda Childs e Anne Teresa De Keersmaeker. Come nel loro lavoro, “The Dog Days Are Over” ha base coreografica fondata su modelli matematici ripetitivi che apparentemente escludono qualsiasi preludio ad una profondità emotiva, esprimendo una gestualità spoglia, minimale e geometrica che, al di là della semplicità apparente, nel tempo rivela dinamiche con una complessità crescente.
“I danzatori sono noti per la ricerca della perfezione” dice Martens, “Questo pezzo è costruito su ritmi estremamente complessi e li spinge al limite, alla ricerca dell’errore. Ma “The Dog Days Are Over” è anche un viaggio che i danzatori fanno con il pubblico: una sfida a superare la noia e cercare il divertimento fuori dalla logica dell’intrattenimento”.
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